martedì 5 aprile 2011

171 - IL BUIO PIU’ TOTALE - 07 Aprile 2011 – Giovedì 4ª sett. Quaresima

Il processo si è concluso con l’espulsione del guarito dalla sinagoga, ma a questo punto vi è il ribaltamento del giudizio, come Gesù dirà promettendo il dono dello Spirito di verità che mostrerà la falsità del giudizio di questo mondo contro Gesù e i suoi discepoli ( cfr. Giovanni 16,7-11). Proprio nelle ultime battute del racconto si prospetta allora la più pericolosa e grave cecità: l’incredulità invincibile, che si rafforza nonostante la parola di Gesù e la testimonianza del miracolato. I farisei si ritengono illuminati, persone nella luce e non bisognose di alcuna guarigione. In realtà è questa la situazione di buio in cui sono avvolti: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. Essi non si aspettano nulla da Gesù perché si ritengono nel giusto, e sono solo gli altri a dover cambiare. Incarnano, in sostanza, la figura di chi è chiuso alla novità dell’amore divino in nome del ‘già’ noto, per cui giungono a negare l’evidenze, gli stessi fatti, pur di non riformare il loro modo di intendere e di volere. Il peccato ‘rimane’ allorché non si ammette il bisogno di perdono, e il buio incombe ancora più impenetrabile, allorché si pensa di vedere e di conoscere già tutto. Appare allora chiaro il concetto giovanneo di peccato che, ancor prima delle singole colpe, è l’incredulità, è la non disponibilità ad accogliere il dono di Dio e a compiere l’opera di Dio che è la fede (cfr. Giovanni 6,29). In Gv 16, 9 Gesù afferma che il peccato di cui il Paraclitico ‘convincerà’ il mondo è il fatto che “non credono in me”. Ciò è tanto vero che l’autore della prima lettera dovrà richiamare all’osservanza dei “suoi comandamenti” (1ª Gv 1,3-4) e a “comportarsi come lui si è comportato” (1ª Gv 1,6), forse proprio perché qualcuno, nella comunità giovannea ha frainteso questa idea della ‘incredulità’ come se fosse l’unico peccato. “Credo, Signore!” Anche se la conclusione dell’episodio, con le parole rivolte ai farisei, suona molto minacciosa e inquietante, nondimeno anche qui appare un raggio di luce, ed è la confessione di fede di colui che era stato cieco e che finalmente vede chi l’ha guarito. “Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse …” (v. 35). L’evangelista annota esplicitamente che l’incontro avviene per iniziativa di Gesù, proprio come processo di guarigione era venuto non per iniziativa del cieco, ma dello sguardo e della parola di Gesù. L’incontro è delineato in poche intense battute; così alla domanda di Gesù se egli crede nel Figlio dell’uomo, il cieco risponde manifestando il suo desiderio di apertura alla verità, di incontro con essa, di affidamento totale: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?” (v. 36). “Gli disse Gesù: ‘Lo hai visto: è colui che parla con te’” (v. 37). Gesù gli si prospetta così, in modo allusivo ma efficace, come colui che è parola di Dio e che dona la luce di Dio. La frase giovannea è molto densa e va oltre la semplice identificazione di chi sta parlando con il miracolato. Piuttosto lascia percepire il valore pregnante della parola come realtà che istituisce una relazione, crea amicizia, fa sperimentare l’amore. Questo parlare di Gesù con lui è come un dialogo d’amore, uno scambio di amicizia ed è qui allora, che il cieco guarito eleva la sua intensa professione di fede: “‘Credo, Signore!’. E si prostrò dinnanzi a lui” (v. 38).

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