sabato 26 febbraio 2011

139 - SE DIO E’ VISSUTO COME PROVVIDENZA … 27 FEBBRAIO 2011 – VIIIª Domenica tempo ordinario

LA PAROLA DOMENICALE LETTA IN FAMIGLIA
(Isaia 49,14-15 1ªCorinti 4,1-5 Matteo 6,24-34)

Il discepolo non si preoccupa, ovvero, fa ordine nel suo cuore!
E’ importante recuperare prima di tutto il significato attribuito al termine “preoccuparsi”. Attraverso questo invito Gesù vuole aiutare a comprendere il valore profondo della vita cristiana che non si risolve in una attesa inerte, quanto piuttosto in quel delicato e doloroso processo del fare verità in relazione ai desideri del cuore. Gesù avverte con chiarezza che è necessario operare una gerarchizzazione dei desideri del cuore. Il cristiano, chiamato a “dominare” e “soggiogare” la terra, è colui che produce quella ricchezza che a sua volta chiede di essere investita per un fine di bene. E’ importante recuperare il significato della propria attività lavorativa che, oltre ad essere un mezzo attraverso il quale esprimiamo le nostre qualità e potenzialità, è in pari tempo la fonte di sostentamento della vita personale, familiare e sociale in uno stile di fraterna condivisione.
Il discepolo è colui che cerca anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia!
Ricercare il Regno di Dio e la sua giustizia come primo ed indiscusso desiderio del cuore, vuol dire accogliere la chiamata a convertire il proprio modo di vivere il rapporto con la ricchezza, sapendo che questo rapporto va letto nel più ampio contesto della relazione di alleanza tra Dio e l’uomo. Il lavoro dell’uomo, l’operare che produce la ricchezza, non è solo una modalità attraverso la quale si risponde alla propria vocazione, ma anche una fonte di redditività che richiede di essere letto a sua volta come amministrazione fedele delle “cose del Signore”. La ricchezza prodotta dal lavoro è un bene che deve essere gestito avendo come riferimento quindi lo “sguardo penetrante del Signore”. Consideriamo adesso in tutta la sua pregnanza l’invito evangelico di Gesù a non preoccuparsi per il cibo e per il vestito. Gesù non vuole dei discepoli sprovveduti o dediti all’ozio, ma uomini e donne che sanno considerare con ponderazione i proprio bisogni, e l’utilità e necessità dell’effettiva soddisfazione. In un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo il cristiano può essere colui che è capace di mettere in pratica i principi elementari di un sistema economico che si fonda proprio sull’analisi dei bisogni, e sull’utilità della soddisfazione. Proprio perché il cristiano vive in un tempo in cui fratelli e sorelle che vivono anche nella propria comunità parrocchiale non riescono a soddisfare i bisogni minimi, deve essere di conseguenza educato a investire il risparmio ottenuto della non soddisfazione di bisogni superflui nella condivisione gratuita con chi si trova in difficoltà: questo vuol dire cercare il regno di Dio e la sua giustizia.
Il discepolo è colui che prende coscienza che il Padre non si dimentica del figlio!
Anche noi, di fronte ai richiami della pagina evangelica odierna, potremmo sentirci come l’israelita del profeta Isaia, “perplesso e trepidante circa la possibilità di un rapporto nuovo con Dio”. E’ l’incontro con il Signore nell’Eucaristia domenicale che deve infondere speranza, rammentandoci che la Parola stessa del Signore, la Parola che penetra nel cuore operando verità e smascherando quali siano i desideri e gli idoli del cuore, è il dono che il Padre, con il volto di Madre, offre al figlio del quale non si dimentica. Dio si ricorda dell’uomo attraverso il Figlio suo, additando attraverso la storia di Gesù di Nazareth i sentieri per raggiungere la vera gioia e la vera libertà. Ecco perché il credente è colui che non teme di investire il suo tempo guardando la semplicità della creazione e rinvenendo in essa la cura di Dio verso esseri che non accumulano con avidità, ma si affidano alla provvidenza divina. Quando dunque il discepolo accoglie l’intervento salvifico di Dio a guardare con verità al proprio cuore, a cercare mediante la propria attività il regno di Dio e la sua giustizia, sta in pari tempo cercando Dio non solo e non tanto per offrire un’apologetica dimostrazione di esistenza, quanto per vivere una relazione profonda con il Dio esistente.

giovedì 24 febbraio 2011

138 - AMARE TUTTI PER VIVERE COME DIO - 20 FEBBRAIO 2011 – VIIª Domenica tempo ordinario

LA PAROLA DOMENICALE LETTA IN FAMIGLIA
(Levitico 19,1-2.17-18 1ªCorinti 3,16-23 Matteo 5,38-48)

“Amore” che bella parola! Amare … quanto è necessario alla nostra vita!
Ma proprio perché l’amore è una grande, bella e importante parola non possiamo lasciarla nella confusione attuale.
*C’è chi pensa che l’amore sia un sentimento, una emozione … allora amo solo chi mi è simpatico e la pensa come me! E’ un amore povero!
*C’è chi pensa che l’amore sia questione di fortuna, di incontrare la persona giusta … allora è come giocare al superenalotto, vince uno su dieci milioni … e tra noi non c’è nessuno così fortunato! E’ un amore di pochi mentre tutti sono chiamati ad amare!
*C’è chi pensa che l’amore sia una questione di cose … di soldi: se ne ho tanti, ho tanto amore … se non né ho, ho poco amore! Allora incominciamo a mettere insieme cose e soldi … e poi ci accorgeremo che l’amore non abita nella casa delle cose e dei soldi! E’ un amore arido!
*C’è chi pensa che l’amore sia una cosa che dipende dagli altri … sono gli altri che mi devono amare … tocca a loro … Ed allora resta sempre bambino: più il bambino è piccolo … più lo si deve amare! Più diventiamo grandi … più dobbiamo amare! E’ un amore infantile e immaturo!
*C’è chi pensa che l’amore sia un conquistare l’altro, un possederlo, un averlo a disposizione … come un cagnolino, un gattino! L’amore nasce nella libertà … e questa facoltà gli animali non ce l’hanno!
L’amore prima di tutto è una capacità!
Tutte le persone possono leggere e scrivere, ne hanno la capacità. Ma se non vanno a scuola non sanno né leggere né scrivere perché non hanno sviluppato questa capacità. Anche se crescono in età, in statura, in forza … se non vanno a scuola non sanno né leggere né scrivere. Così è per l’amore … abbiamo questa capacità perché siamo persone umane, ma se non la sviluppiamo resta solo una capacità. Per svilupparla serve impegno, interesse, conoscenza. (E’ molto interessante leggere a questo proposito il libro di E. Fromm “L’arte di amare” … aiuta a capire quanto siamo distanti da questa arte!)
Questa capacità, se sviluppata, ci aiuta ad entrare in relazione con noi stessi, con gli altri, con Dio … ed anche con le cose!
Mi insegna … ad accogliere l’altro, a rispettarlo, a conoscerlo, a condividere le sue gioie e le sue sofferenze, a stare con lui, a chiedere scusa e a perdonare…
Gesù, nel vangelo di oggi, ci dice qualcosa di veramente grande: Dio è amore e ama tutti … chi è buono e chi è cattivo … chi Lo rispetta e chi non Lo rispetta … chi prega e chi non prega … chi Lo ama e chi Lo bestemmia! Dio è per essenza la massima gioia e felicità proprio perché ama tutti.
Allora Gesù ci dice: “Vuoi essere felice come Dio … ama tutti, anche chi ti fa del male, chi ti fa i dispetti, chi ti dice le parolacce, chi ti tradisce, …….!”
Difficile?!? … anzi impossibile ad una persona umana … ma nulla è impossibile a chi rimane unito a Gesù come il tralcio alla vite!
Con Gesù possiamo amare come Lui ed essere felici come Lui!

martedì 15 febbraio 2011

137 - LA NOVITA’ DEL VANGELO - 13 FEBBRAIO 2011 – VIª Domenica tempo ordinario

LA PAROLA DOMENICALE LETTA IN FAMIGLIA
(Siracide 15,15-20 1ªCorinti 2,6-10 Matteo 5,17-37)

Il discorso della montagna viene proposto oggi in un brano significativo che mostra la novità del vangelo rispetto alla legge antica. La novità consiste in una interiorizzazione della legge come orientamento di vita: non è l’esteriorità delle azioni, ma il cuore dell’uomo davanti a Dio che definisce l’autenticità della fede. In questo modo Gesù si presenta lui stesso come autentico interprete della volontà di Dio. Il suo insegnamento non è semplice ripetizione o commento, ma è parola di Dio detta con autorità.
Il ruolo del decalogo - Dio aveva trasmesso al popolo d’Israele, insieme con la promessa di una particolare protezione e benevolenza, un codice di norme morali, costituito principalmente da quei dieci comandamenti che costituiscono appunto ciò che chiamiamo “decalogo” e che per gli ebrei era “la legge” per eccellenza. Per il fatto di venire da Dio e di essere condizione della benevolenza divina nei loro confronti, questo codice morale godeva presso gli ebrei della più grande considerazione; essi vedevano nel decalogo non una forma di sudditanza nei confronti di Dio, ma un impagabile privilegio, degno della più grande considerazione. Violare quelle norme voleva dire disubbidire a Dio e sottrarsi colpevolmente al suo progetto di salvezza. La violazione di queste norme comportava perciò l’esclusione dal privilegio dell’appartenenza al “popolo eletto” e, in certi casi, esponeva alla pena capitale. Il popolo ebraico era fiero del privilegio di poter contare su una legge irrogata da Dio.
Un codice morale universale - Questa estensione, che era da sempre nel progetto di Dio, comportava naturalmente l’estensione del decalogo a tutti coloro che, di qualsiasi popolo fossero, avrebbero aderito al progetto di Dio, accogliendo il messaggio di Cristo e le sue promesse di pienezza di vita e di felicità in Dio. Per realizzare questo progetto divino di salvezza universale, occorreva naturalmente che Dio, attraverso la predicazione di Gesù, facesse del decalogo un codice morale rivolto non solo al mondo ebraico, ma a tutti i popoli della terra. Cadeva così definitivamente la comune concezione ebraica del fatto morale, che faceva del popolo ebraico il destinatario privilegiato ed esclusivo di un progetto di familiarità con Dio, che garantiva a questo popolo il privilegio di una protezione che faceva dell’ebraismo di quel tempo un mondo chiuso su se stesso, interdetto a chiunque non fosse ebreo o non accettasse di diventarlo. Gesù annuncia quindi, insieme a una salvezza offerta a tutti i popoli, un programma morale ugualmente valido e vincolante per tutti.
Un privilegio che responsabilizza - Non possiamo ignorare che la consapevolezza di questa universale chiamata alla fede in Cristo e a un vissuto morale ispirato al progetto salvifico di Dio non ha ancora raggiunto molti popoli della terra: e noi, che senza nostri meriti ne abbiamo ricevuto con grande chiarezza la conoscenza, dobbiamo anzitutto sentirci responsabili della trasmissione di questa conoscenza a tutti i popoli della terra che, senza colpa, ancora la ignorano. Abbiamo il dovere di fare del nostro meglio, perché il messaggio di Cristo arrivi a tutti i popoli della terra.
Questo non significa che dobbiamo tutti diventare dei predicatori di mestiere: la messa in guardia di Gesù ci chiede anzitutto di prendere sul serio il compito di attuare il progetto di Dio in noi stessi. Anche a noi Gesù ripete quello che diceva a molti ebrei del suo tempo: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. Lo stesso decalogo, preso sul serio, rimanda a una giustizia e a una qualità morale più perfetta ancora di quella che molti cristiani ritengono sufficiente, per essere “a posto” con Dio.
Questa perfezione comporta per esempio che, dietro l’osservanza materiale delle norme, il credente edifichi dentro di sé l’edificio delle virtù, cioè quella stabile trasformazione del mondo del desiderio e delle abitudini, che comporta una assimilazione profonda dei valori difesi dalle norme.
D’altra parte, nella nostra realizzazione di una qualità morale all’altezza del privilegio cui la conoscenza del mistero di Cristo ci chiama, abbiamo da una parte l’aiuto della parola di Dio e della sua grazia, dall’altra l’insegnamento della Chiesa e l’aiuto dei santi che ci hanno preceduto in questo compito.
Questa realizzazione di una qualità morale all’altezza del vangelo sarà la prima e più importante forma di apostolato: i non credenti e i “poco-credenti”, così numerosi nel nostro mondo, per poter condividere la nostra fede hanno bisogno di noi, almeno nel senso che hanno bisogno di una catechesi e di un annuncio missionario del messaggio di Cristo, trasmesso con il vissuto più che con le parole: hanno bisogno che noi credenti siamo più credibili di quanto troppo spesso siamo.

domenica 6 febbraio 2011

136 - VOI SIETE LA LUCE DEL MONDO - 06 FEBBRAIO 2011 – Vª Domenica tempo ordinario

LA PAROLA DOMENICALE LETTA IN FAMIGLIA
(Isaia 58,7-10 1ªCorinti 2,1-5 Matteo 5,13-16)

Il tema che unifica la liturgia della Parola può essere individuato nella ‘luce’, intesa come simbolo della vita di fede, in ascolto della Parola che illumina e orienta ogni scelta e azione. Accogliere la luce che Dio ci offre è fare esperienza della sua presenza e della sua sollecitudine nei nostri confronti. Questa è già ora esperienza di salvezza, poiché la luce che ci viene da Dio dà unità e senso a ciò che facciamo, crea capacità di vivere la ‘carità’, mediante la quale possiamo essere “luce e sale” per il mondo e dalla quale nasce la speranza.
Ci orienta in questa direzione un prezioso testo del documento missionario del concilio Vaticano II (Ad Gentes): “Tutti sappiamo che il primo e principale loro (dei cristiani) dovere, in ordine alla diffusione della fede, è quello di vivere una vita profondamente cristiana. Infatti il loro fervore nel servizio di Dio e il loro amore verso gli altri immetteranno un soffio spirituale nuovo in tutta la Chiesa, che apparirà come ‘la bandiera levata sulle nazioni’, come ‘la luce del mondo’ e ‘il sale della terra’ “ (AG 36).
La vita cristiana come ‘segno’ per il mondo traduce visibilmente quella che chiamiamo la ‘sequela’ di Gesù. Non si tratta di una ‘imitazione’ passiva, quasi a volere essere copia del modello, cosa che per noi, esseri umani con tanti limiti, è impossibile. Si tratta invece di seguire lui e il suo ‘esempio’ in modo attivo e creativo, ognuno con la sua personalità e le sue esperienze, e così come ne diventa capace. Seguire il suo esempio vuol dire per noi lo sforzo per renderci ‘preziosi’ per gli altri così come lui è ‘prezioso’ per noi. Questa è la vera fede, e anche il valore della testimonianza: essere, a nostro modo, ‘segni’ di Cristo nel mondo.
Che fare per essere ‘luce’? Già a partire dal testo di Isaia, siamo rinviati ad opere precise, concrete, che chiamano in causa la nostra volontà buona, che si traducono in scelte attraverso le quali diamo visibilità alla nostra fede.
Attraverso di esse creiamo unità tra interiorità ed esteriorità dell’essere-chiesa: dare da mangiare a chi ha fame, accogliere chi non ha una casa dove trovare riparo, dare un vestito a chi è nudo, lavorare per togliere dai nostri contesti ogni forma di oppressione, non usare la parola per distruggere altri, non giudicare ingiustamente, e così via. Gesù usava l’espressione ‘regno di Dio’ per indicare la vita buona che la fede (con la conversione) avrebbe potuto favorire nel mondo: un mondo dove quale unico Signore regna Dio. La Parola di oggi ci apre un orizzonte di vita ‘profetica’, in alternativa alla vita pensata e vissuta secondo i criteri (sempre) correnti nel mondo. Vita profetica significa: stile di pensare e agire che può diventare ‘luce’ e ‘sale’, che può toglierci dall’individualismo del privato per una apertura ai bisogni altrui, che ci orienta a cercare una visibilità comunicativa di valori in alternativa alla visibilità secondo canoni televisivi.
La testimonianza ‘cristiana’, però, non consiste esclusivamente e non si esaurisce in un ‘fare’ esteriore: anzi, è testimonianza proprio perché e nella misura in cui rivela un ‘essere’, una dimensione interiore e profonda, alternativa al vuoto diffuso nel mondo. Il progetto cristiano, alla cui realizzazione possiamo contribuire, richiede una ‘saggezza/sapienza’ nuova, alternativa alla autoreferenzialità proposta e cercata dal mondo. E’ più comodo fare riferimento alle forme di saggezza umana sbandierate a molti livelli: teorie psicologiche, ideologie politiche, consigli su come essere sempre belli e giovani… Il progetto cristiano ci butta nel mondo con tutte le sue contraddizioni e ci chiede di dimostrare qui il nostro ‘equilibrio’ e la maturità umana che nasce dalla fede. Il Vangelo è la fonte dei nostri ‘valori’. Il Vangelo, però, non inteso come insieme di idee e norme, ma come relazione, come proposta di un cammino che ci rende capaci di ‘valorizzare’ tutto ciò che ci fa vivere ‘secondo Dio’.