domenica 18 agosto 2013

505 - ARRICCHIRE PRESASO DIO 4 Agosto 2013 – XVIIIª Domenica del Tempo ordinario

(Qoelet 1,2:2,21-23 Colossesi 3,1-5.9-11 Luca 12,13-21)

Il ricco della parabola evangelica si illude di aver risolto ogni problema, di essersi messo al sicuro da preoccupazioni e fatiche, accumulando i suoi beni per goderne sereno e gioioso. Rimarrà amaramente disilluso! Con questa parabola Gesù certamente non vuole fare del ‘terrorismo spirituale’ minacciando la morte, vuole invece indurci a riflettere e andare in profondità. I beni materiali – ammonisce – non sono tutto, non soddisfano mai pienamente e non assicurano il futuro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». La vita deve ricercare fondamenti più solidi. A questo proposito capita proprio a tema anche la seconda lettura, dove l’apostolo Paolo esorta a ricercare «le cose di lassù», a rivolgere il pensiero «alle cose di lassù, non a quelle della terra». Cercare le cose di lassù, ovviamente, non vuol dire disprezzare le realtà terrene, quasi che la fede sia un’evasione dal proprio tempo e mondo, un ricercare rifugio e protezione altrove. Le parole dell’apostolo vogliono essere un richiamo al fatto che il credente in un mondo sempre più appiattito sul presente, retto dalle leggi economiche basate sul profitto, deve essere un segno che addita la dimensione dello spirito, la trascendenza, il futuro. In altre parole potremmo dire che nell’uso dei beni di questa terra è importante il criterio che ci orienta: se si usano i beni esclusivamente per sé, essi finiscono per diventare un fine, se invece si agisce tenendo conto della loro destinazione universale, diventano un mezzo che è subordinato a valori più grandi.

Arricchire davanti a Dio: questo dovrebbe essere il vero obiettivo. Sempre l’apostolo Paolo indica anche concretamente come accumulare il tesoro vero, che non è destinato a perire. Lo fa con una serie di raccomandazioni: «Fate morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria», in altre parole, invita a essere in sintonia con ‘l’uomo nuovo’ di cui ci siamo rivestiti, rinnovandoci a immagine di colui che ci ha creato.

Gesù invita a riflettere anche sul mistero del tempo, all’interno del quale si dispiega la nostra vita. Nel vangelo di Luca infatti, subito dopo la parabola, troviamo alcuni detti di Gesù, che non vengono proclamati nella liturgia, nei quali egli riprende il discorso sul valore della vita, che è di gran lunga superiore a quello del cibo o del vestito e aggiunge: «Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (Lc 12,25). Il tempo è dono di Dio, come la creazione, al quale si risponde con gratitudine e responsabilità. Questo dono non solo ci precede (la nostra esistenza si inserisce in una storia che si dispiega ormai da lungo tempo), ma ci eccede sempre, non possiamo farcene padroni, non possiamo dunque dominarlo a nostro piacimento, aggiungendo un’ora sola alla nostra vita. L’uomo arricchito della parabola si vede sfuggire il tempo proprio mentre credeva di essersene fatto padrone. San Basilio ammonisce anche che il tempo che il Signore ci dona va vissuto in pienezza arricchendo davanti a lui e non rinviando al futuro il bene che oggi possiamo compiere: «Ma condividerò i miei beni con i bisognosi quando avrò riempito i miei nuovi granai. Ti fissi dei lunghi tempi di vita! Sta’ attento che non ti raggiunga all’improvviso il giorno del rendiconto. E la tua promessa non è segno di bontà, ma di cattiveria perché tu prometti non per dare in seguito, ma per sottrarti al momento presente».

Anche il Salmo responsoriale dichiara che l’unico vero padrone del tempo è Dio stesso, per il quale mille anni sono come un giorno, come un turno di veglia nella notte, mentre l’uomo è come l’erba che «al mattino fiorisce e germoglia e alla sera è falciata e dissecca». Ecco allora che la saggezza del salmista invita a contare i nostri giorni per acquistare un cuore saggio.

PREGHIERA - Facciamo fatica a rassegnarci, Gesù, anche se le lezioni al proposito ci raggiungono ad ogni piè sospinto. Vivere nell’abbondanza, poter disporre di una quantità di beni, avere un pingue conto in banca ci può facilitare in certe situazioni, ma di certo non ci mette al riparo dai pericoli e dai rischi che incombono su questa nostra esistenza.
Possiamo farci curare da medici prestigiosi e ricorrere a strutture specializzate, ma non ci possiamo sottrarre né alla malattia, né alla morte. Possiamo acquistare prodotti di marca e oggetti lussuosi da esibire, ma non riusciamo a comprare né l’amore autentico, né l’amicizia vera. Possiamo destare attorno a noi ammirazione e plauso per le nostre imprese finanziarie, per le nostre proprietà immobiliari, ma ciò che conta di più per l’eternità che ci sta davanti non sono le quotazioni in borsa, né le rendite fornite dalle proprietà, ma il nostro rapporto con Dio.
Ecco perché tu non esiti a chiamare stolto chi sbaglia tutto e pregiudica ogni cosa semplicemente perché «ha accumulato tesori per sé e non si è arricchito presso Dio».

venerdì 2 agosto 2013

504 - A PREGARE SI IMPARA (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante XVIIª Settimana del Tempo ordinario

Nella frenesia della società contemporanea il cristiano si chiede spesso: «QUANDO PREGARE?», non c’è mai tempo. Gesù, a ben vedere, non ha detto di pregare bene, ma di pregare sempre. Non che non debba essere curata, ma più semplicemente che non si devono attendere le condizioni ottimali per iniziare a pregare. Le preghiere sono come i raggi del sole, non guastano la propria luce per il fatto che illuminano acqua stagnante, anzi addirittura la bonificano. La preghiera purifica così il cuore. E un «cuore purificato diviene il cielo interiore» (Filoteo Sinaita).
Alle parole di Gesù fanno eco quelle di Paolo che, nella lettera ai Tessalonicesi, afferma: «pregate incessantemente». Questo ci riconduce al senso profondo della preghiera, la quale non è semplicemente una pratica che può essere esercitata quando si vuole e se lo si vuole. Essa è la condizione necessaria all’uomo interiore. «Il corpo, che vive grazie all’aria, la assume continuamente attraverso il respiro; l’anima, che vive per la grazia, allo stesso modo la attira in sé tramite la preghiera» (A. Troepol’skij). Ecco perché per molti maestri spirituali è un balsamo interiore. Giovanni Crisostomo la definisce come «il porto nella tempesta, l’àncora dei naufraghi, il bastone dei titubanti, il tesoro dei poveri […], rifugio nei mali, fonte di ardore, causa di gioia e maestra della filosofia».

COME FARE? È possibile, in questo contesto, dare solo alcuni spunti indirizzati alla preghiera personale e a quella familiare. Nel primo caso è importante scegliere una preghiera. Com’è importante usare le parole adatte quando ci si trova a tu per tu con una persona, allo stesso modo nel dialogo con Dio. Il primo passo dunque consiste nel trovare le parole che esprimano adeguatamente il nostro rapporto con Dio. Non sono i pensieri troppo elevati a qualificare il dialogo, ma quelli degni di noi, che possono essere offerti come realmente nostri. Non dimentichiamo che i salmi sono una fucina di parole che esprimono le diverse modulazioni dell’animo umano. Abbiamo inoltre preghiere che fanno parte della ricchezza liturgica di tutte le chiese, dalle quali possiamo attingere. La prima cosa pertanto che dobbiamo chiederci è: quali sono le «parole di preghiera» che ha senso per noi offrire a Dio. Possono essere preghiere scaturite da un orante che ci ha preceduto, oppure un versetto del salmo che ha illuminato un angolo oscuro della nostra esistenza. Poi dobbiamo usare questa preghiera nei momenti in cui è possibile raccoglierci nel silenzio interiore alla presenza del Signore. Diventano così le parole poste in bocca all’uomo interiore. Gradualmente accadrà che la consapevolezza della presenza del Signore in noi aumenterà, tanto che, ovunque ci si trovi, sul lavoro, in mezzo alla gente o da soli, saremo ancora in grado di pregare.
La seconda indicazione riguarda il coinvolgimento del corpo. Quando preghi non lasciare il tuo corpo alla porta. Non solo esso è tempio dello Spirito, ma Gesù stesso ha pregato con il corpo. La persona prega con tutto quello che è, dunque, anche con i gesti del corpo. Un grande uomo di spirito come frère Roger diceva: «non saprei come pregare senza il corpo. In certi periodi ho coscienza di pregare più con il corpo che con la mente». Il forte razionalismo che si è insinuato nell’esperienza spirituale ha messo in ombra la dimensione fisica del pregare, ma le grandi tradizioni monastiche ne hanno sempre stimato il ruolo.
Un’ultima indicazione riguarda la dimensione comunionale della preghiera, soprattutto quella familiare. Quella piccola chiesa domestica, che è la famiglia, rappresenta il luogo privilegiato per la pedagogia spirituale. I figli imparano a pregare non per ‘istruzione’, ma per ‘imitazione’. Guardando i loro genitori pregare si aprono al mistero, imparano ad affrontare i tempi della vita quotidiana con la fiducia nell’affidabilità di Dio. Entrando nella notte con il conforto della preghiera comprenderanno che, nonostante le tenebre, il cuore rimane nella pace. Chi ha ricevuto fin da piccolo questa evangelizzazione, così incisiva anche sulla sfera emotiva, entra nella vita carico di fiducia. È necessaria, anche in questo caso, una saggia concretezza. La casa diventa memoria di Dio anche grazie ad alcuni segni. Nella tradizione dell’Oriente cristiano ogni famiglia predispone il cosiddetto angolo della bellezza – con una semplice icona, una Bibbia aperta, un cero o dei fiori – per indicare che Dio è presente. L’Emmanuele ha posto la sua dimora in mezzo a noi.
A pregare s’impara. L’umiltà di chi si mette alla scuola della preghiera mostra la serietà della richiesta fatta dai discepoli e riecheggiante nel cuore di ogni uomo.

503 - A PREGARE SI IMPARA (prima parte)

Per una pausa spirituale durante XVIIª Settimana del Tempo ordinario

La domanda che i discepoli pongono a Gesù mette a nudo un’ipocrisia sempre latente nell’uomo religioso: la presunzione cioè d’essere già capaci di pregare. La rivalsa contemporanea dello spontaneismo ha inoculato, infatti, l’idea che la preghiera ‘vera’ e ‘autentica’ sia solo quella che scaturisce naturalmente dal cuore dell’uomo. Si è mossa pertanto, in questa sfera, una vera e propria battaglia alle formule, alla prassi o agli esercizi di vario genere. Così, mentre ci si addestra a ogni tipo d’arte, facendo i corsi necessari, a pregare si vorrebbe già essere abili. In realtà la richiesta fatta a Gesù dai discepoli – «insegnaci a pregare » – stigmatizza un’incapacità radicale dell’uomo a vivere la ‘cosa’ che il pregare indica.
Più che il proprio ingegno, per apprendere un’arte è necessario mettersi alla scuola di buoni maestri. La preghiera, anche oggi, non può rinunciare alla comunione viva con chi ha pregato prima di noi e ora prega con noi. Mettersi alla sequela di uomini e donne spirituali costituisce il primo passo di quel tirocinio del discepolato che ci libera dall’illusione dell’improvvisazione. L’immagine della «scuola di preghiera», cui Anthony Bloom ha dedicato tempo e pazienza, la ritroviamo più volte espressa anche nel pensiero degli ultimi due pontefici. «Per una pedagogia della santità – afferma Giovanni Paolo II – c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera […]. Le nostre comunità devono diventare autentiche scuole di preghiera» (Novo millennio ineunte, 32). Lo stesso Benedetto XVI, parlando ai vescovi svizzeri, afferma: «È un compito fondamentale della pastorale insegnare a pregare. […] A questo scopo dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, dove si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni». Stabilite le premesse, diventa importante definire l’oggetto. Che cosa sia la preghiera è in apparenza una cosa evidente, ma appena si scava compare tutta la sua complessità. Essa rappresenta l’incontro di due desideri: quello dell’uomo e quello di Dio. In questo senso, «la preghiera è – come dice Isacco di Ninive – memoria costante di Dio nei cuori». Attraverso il dinamismo del desiderio si apre così una strada verso il suo luogo originario della preghiera: il cuore. In questo santuario interiore, l’uomo si raccoglie in sé e si rende presente a Dio, che è già lì ad attenderlo. «Da quando sei stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e del loro Spirito, Dio è in te, la Trinità respira in te» (Busca). La preghiera ci introduce nel mistero trinitario. È una partecipazione alla mensa dei Tre. «Lo Spirito viene ad afferrarti e ti dà al Figlio e il Figlio ti dà al Padre» (Ireneo). Pregare è essere commensali della Trinità. Comprendiamo così l’invito di molti maestri spirituali a volgere la preghiera all’interno, non verso un Dio del cielo e nemmeno verso un Dio lontano, ma verso un Dio più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Non a caso Gesù dirà nel vangelo di Luca: «il Regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), all’interno di quella stanza nella quale dobbiamo sostare se vogliamo pregare. «Quando preghi, fai in modo di scendere dalla testa al cuore, la vera preghiera è solamente quella che proviene dal cuore» (Teofane il Recluso).

502 - SIGNORE, INSEGNACI A PREGARE - 28 Luglio 2013 – XVIIª Domenica del Tempo ordinario

(Genesi 18,20-32 Colossesi 2,13-14 Luca 11,1-13)

Alla domanda dei discepoli Gesù risponde: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». La forma lucana è più breve di quella liturgica matteana, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il ‘tu’ del rapporto con il Padre ed il ‘noi’ dell’appartenenza comunitaria. La preghiera di Gesù inserisce il discepolo in una trama di rapporti: il rapporto con il Padre ed il rapporto con i fratelli. Pregare, dunque, è vivere nella relazione con Dio, come membro di una comunità umana.
Il termine greco patḗr traduce l’aramaico abbà (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). Mentre la forma matteana – «Padre nostro che sei nei cieli» – rispecchia formule giudaiche, l’abbà lucano esprime l’intimità, la libertà di rapporto con Dio che contrassegnava la persona di Gesù. L’uso di un termine così familiare crea un ambiente di fiducia, familiarità, vicinanza. Utilizzando un’espressione rabbinica, Dio si «restringe, si sveste della sua onnipotenza» per tornare ad essere semplicemente Padre, la radice della nostra esistenza. Il discepolo si rivolge a lui chiedendo che il suo ‘nome’ venga riconosciuto come ‘santo’. Nella tradizione ebraica, troviamo un testo molto simile: «sia esaltato e santificato il suo nome grande nel mondo da lui creato secondo la sua volontà». La prima richiesta del discepolo è dunque che ogni creatura possa riconoscere Dio come Dio, che la sua gloria possa essere resa incontrabile.
La seconda supplica riprende questo tema, dato che il regno indica la signoria di Dio nella storia umana. I discepoli di Gesù vivono nella consapevolezza che ormai il regno è vicino, anzi è percepibile nella relazione con il Figlio, e nei segni che loro stessi sono inviati a porre (9,6; 10,9): chiedono perciò che anche attraverso l’offerta della propria vita Dio possa divenire «tutto in tutti» (1 Cor 15,28). In sintesi, la sezione ‘tu’ chiede al discepolo un cambiamento di mentalità: non si tratta di ‘piegare’ la volontà di Dio, ma di assumerla come nostra prospettiva. Per questo pregare è chiedere a Dio di cambiarci, di formare in noi un cuore ed uno spirito nuovo, che nella luce dell’abbà iniziale può essere soltanto uno spirito filiale. È interessante notare che alcuni manoscritti sostituiscono la richiesta per la venuta del Regno con questa supplica: «Venga su di noi il tuo Spirito e ci purifichi»: è la richiesta di trasformarci in strumenti adatti all’annuncio purificandoci da tutto ciò che non santifica il nome di Dio.
«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»: sullo sfondo antico-testamentario, possiamo pensare al dono della manna, offerta da Dio giorno dopo giorno. Tuttavia, nella parola ‘pane’ possiamo comprendere ogni necessità della vita: i commentatori dibattono se si tratta di beni ‘materiali’ o ‘spirituali’. Personalmente ritengo che essi non possano e non debbano essere contrapposti: nella richiesta del pane è racchiusa la domanda per tutto ciò che rende l’esistenza ‘umana’, ‘buona’. Chiediamo al Padre di donarci un’esistenza degna dei suoi figli, in cui la preoccupazione per la sussistenza non divenga un impedimento al servizio del Regno.
In questa chiave possiamo comprendere la seconda richiesta: «e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». Nessuna esistenza è pienamente ‘umana’, se vissuta nella paura del giudizio, della punizione. Chiediamo al Padre di rigenerarci con la grazia del suo perdono perché possiamo servirlo nella libertà. La richiesta è legata ad una condizione. Diversamente da Matteo, Luca usa un verbo nella forma presente, presentando il perdono come un’attitudine di vita, non un evento occasionale: non possiamo quindi chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella continua disponibilità ad offrire il perdono al fratello.
L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», chiede d’essere compresa alla luce dell’esperienza di Gesù. All’inizio del suo ministero, condotto dallo Spirito nel deserto, Gesù vive l’esperienza della tentazione. Il termine peirasmós, nella luce antico-testamentaria, può essere utilizzato per descrivere due esperienze: – la prova a cui viene sottoposto ‘l’amico di Dio’: pensiamo al sacrificio del figlio per Abramo o all’esperienza della malattia per Giobbe; – il momento nel quale la persona si interroga su Dio: «Sei proprio tu o dobbiamo aspettare un altro» (Lc 7,19)? Si tratta dunque di tentazione in senso radicale, non morale. Gesù nel deserto è dunque «messo alla prova» come Abramo o come Giobbe, come il popolo d’Israele. Gesù sceglie di essere totalmente figlio e di vivere la propria identità messianica in rapporto a questa identità fondamentale. Invitato ad essere il Messia del pane abbondante, sceglie di essere il Messia della Parola (cfr. 4,4); invitato a farsi Messia politico/teocratico, sceglie di essere il Messia del servizio di Dio (cfr. 4,7); invitato a chiedere miracoli di protezione, sceglie la fiducia in Dio, anche nella sofferenza (cfr. 4,12).

PREGHIERA - A questa scelta si manterrà costantemente fedele. Siamo anche noi tra quelli, Gesù, che credono di saper pregare e non ci sfiora neppure il dubbio che i nostri tentativi di metterci in comunicazione con Dio siano votati all’insuccesso.
Pretendiamo, Gesù, di insegnare al Padre quello che deve fare, ci arroghiamo lo strano diritto di piegarlo alla nostra volontà, di farlo agire secondo le nostre richieste. Tu ci insegni che la preghiera parte da un gesto di abbandono, dalla nostra disponibilità a realizzare i progetti di Dio non ad imporgli i nostri, a metterci per le sue vie non a spingerlo per i nostri sentieri.
Riteniamo che il Padre debba corrispondere alle nostre attese e così gli appiccichiamo sul volto la maschera di nostro gradimento. Ci illudiamo di poterlo comprare con le nostre invocazioni, con le nostre offerte, con i nostri gesti di devozione. Ma Dio è sovranamente libero e ha rivelato la sua identità attraverso le tue parole e i tuoi gesti. Nessuno può essere così stolto da costruirsi un’immagine arbitraria, un pupazzo che non corrisponde affatto al Padre che ci vuole suoi figli e tra noi fratelli.

501 - COME RICONOSCERE CHE DIO CI VISITA NEL QUOTIDIANO E COME ACCOGLIERLO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario

Se, per la Bibbia, Dio è Dio perché fa visita all’uomo – ogni uomo – attraverso il volto anonimo dell’altro uomo, quali le conseguenze di questa prospettiva per il cristiano? L’attenzione a questa prospettiva biblica suscita e alimenta una parola che è – dovrebbe essere – fenomenologica ed ermeneutica.
Parola fenomenologica vuol dire rispetto e attenzione al vissuto di ciascuno e di tutti: parola che non cade dall’alto, non esclude, non giudica, non condanna e non parte dal presupposto che ci siano esistenze da Dio abbandonate; parola che, piuttosto, parte dal basso, dalla trama delle relazioni umane, dall’intrigo dell’esistenza quotidiana dove l’io – ogni io – è alla presenza dell’altro che a volte è il nostro ‘inferno’ (per rifarsi alla celebre affermazione sartriana), ma altre volte il nostro ‘paradiso’. Fenomenologica è la parola che nasce dalla consapevolezza, fonte di umiltà e di indicibile prossimità, che Dio è anonimamente dentro questa trama di relazioni e che è qui dentro e non altrove che egli sta al fianco di ogni uomo e di ogni donna e, come vuole il veggente dell’Apocalisse, bussa alla porta dell’io perché l’io gli apra per cenare insieme (cfr. Ap 3,20). Parola fenomenologica è quella che, consapevole della presenza di Dio nel quotidiano di ogni esistenza (prima che nello spazio della coscienza riflessa, dell’appartenenza religiosa o della pratica liturgica), aiuta a decifrarlo e interpretarlo.
Cosa aggiunge alla parola fenomenologica la parola ermeneutica? Se, come vuole il filone vincente della filosofia del Novecento, la realtà si dà solo come pluralità di interpretazioni, la parola biblica è quella che interpreta l’umano alla luce dell’alterità divina che, come ha affermato Lévinas, si iscrive nel «volto» di ogni uomo che, per questo, come vuole il libro della Genesi, è «ad immagine e somiglianza» di Dio. Ermeneutica è la parola che, nutrendosi della potenza del racconto biblico, in ogni volto che all’io va incontro o che l’io incontra sa leggere e aiuta a leggere la presenza divina che vi riluce e comanda: parola che coglie, negli uccelli del cielo e nei gigli dei campi, il sorriso dell’amore divino che li nutre e li riveste di uno splendore ineguagliabile dal re Salomone (cfr. Mt 6,26ss.) o che, per ricorrere al linguaggio di Pavel Florenskij, fa dono di uno «sguardo [che] accarezza teneramente e coccola il segreto della realtà» (P. Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet 2011, 76); soprattutto però è la parola che, nella nudità del volto e di ogni volto, sente risuonare la potenza di una voce – la voce divina dell’amore – che chiama l’io ad uscire dal suo io e ad amare l’altro con lo stesso amore gratuito con cui Dio «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45).
Il grande scrittore russo Vasilij Grossman, testimone della distruzione dell’umano nei Gulag, all’ideologia del bene ideale ha opposto la piccola bontà quotidiana: «A fianco del minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile un vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti del suo simile, è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale» (V. Grossman, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, 405).
Non c’è esistenza per la quale prima o dopo l’altro – l’altro estraneo o nemico, ma anche l’altro degli affetti – non appaia al proprio orizzonte come limite invalicabile di fronte al quale arrestarsi, se non per convinzione, per necessità o calcolo (si pensi a tutte le volte in cui si è come costretti a «chiudere un occhio»!). La Bibbia come parola ermeneutica vuol dire che l’altro, quando si erge di fronte all’io sottraendosi al suo potere, non è né l’intruso da cui salvaguardarsi né l’inaggirabile ostacolo con cui venire a patti, bensì il ‘varco’ attraverso il quale la parola divina raggiunge l’uomo anteriormente alla sua stessa consapevolezza e conoscenza, la trascendenza penetra nella sua esistenza e l’assoluto – il Dio dell’amore che comanda l’amore – appella l’io all’impensabile esodo da sé all’altro elevandolo alla bontà ‘piccola’ e ‘quotidiana’ che sorregge il mondo e che, nel regno della disumanizzazione, è il principio stesso della riumanizzazione. Dal punto di vista biblico ermeneutica è la parola che, instancabilmente e in ogni istante, richiama, sollecita e risveglia l’io a questa bontà piccola e quotidiana che è la vocazione più alta dell’umano.

500 - COME RICONOSCERE CHE DIO CI VISITA NEL QUOTIDIANO E COME ACCOGLIERLO (prima parte)

Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario

Per la Bibbia non è l’uomo che va alla ricerca di Dio, bensì Dio che va alla ricerca dell’uomo, irrompendo nella sua vita in modo imprevedibile e imprevisto. Nell’ambito cristiano è stato il teologo protestante K. Barth ad avere riscoperto, agli inizi del secolo scorso, con forza inaudita, questa dimensione di irruzione del Dio biblico, denunciando come idolatrico e inconcludente qualsiasi tentativo, da parte dell’uomo, di arrivare a Dio sia attraverso la via della ‘ragione’ che attraverso quella del ‘cuore’: «Dio, il puro limite e il puro inizio di tutto quello che siamo, abbiamo e facciamo, Dio che sta di fronte in infinita differenza qualitativa all’uomo e a tutto quello che è umano e non è mai e in nessun luogo uguale a quello che noi chiamiamo Dio, che sperimentiamo, presentiamo, adoriamo come Dio, Dio che oppone a ogni inquietudine umana un: “Alt!” incondizionato e a ogni umana quiete un incondizionato: “Avanti!”, il “Sì” del nostro “No” e il “No” del nostro “Sì”, il Primo e l’Ultimo, e come tale lo Sconosciuto, Dio che non è mai una grandezza tra altre nella sfera di realtà a noi nota, Dio il Signore il Creatore e il Redentore è l’Iddio vivente» (in H. Zahrnt [ed.], Dialogo su Dio, Queriniana, Brescia 1976, p. 17).
Lo voglia o non lo voglia, sia agnostico, credente o non credente, l’uomo, per la Bibbia, è alle prese con Dio che, a sua insaputa, irrompe e si intromette nella sua vita. Ma dove e come? Il capitolo 18 della Genesi, la prima lettura della liturgia odierna, offre la risposta: «Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». Il luogo dove Dio incontra Abramo – dove gli appare, secondo il testo biblico, dove cioè gli si rende riconoscibile e visibile – non è il ‘tempio’, lo spazio del sacro, e neppure l’‘accademia’, lo spazio del sapere, bensì il ‘quotidiano’, lo spazio dell’esistenza ordinaria: la quercia, che rimanda al deserto; la tenda, che allude all’intimità della casa e degli affetti, e «l’ora più calda», il momento della minore attenzione e vigilanza. Alla luce di questo testo, la risposta alla domanda dove Dio ci viene incontro è disarmante: non nel sacro, non nello straordinario, non nel fenomenale, non nel prodigioso, non nel miracoloso, non nel liturgico, non nell’eccezionale (esperienze mistiche, estatiche o rare), bensì nell’ordinario più ordinario, che rasenta il banale dove l’io, piuttosto che al vertice della sua lucidità mentale, versa in uno stato di sonnolenza, dormiveglia o incoscienza. Ma ancora più paradossale è la modalità con la quale Dio entra nell’esistenza di Abramo: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Si faccia attenzione all’incongruenza narrativa: «Dio apparve ad Abramo», ma Abramo, alzando gli occhi, non vede Dio, bensì tre sconosciuti: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Dio, per la Bibbia, si fa presente e visibile all’uomo non come Dio, non come potenza straordinaria, seduttiva o attraente, bensì sotto mentite spoglie: senza nome il cui nome è il non-nome di ogni uomo. Se nei tre uomini che Abramo scorge al posto di Dio la tradizione mistica orientale ha intravisto il Dio uno e trino (si pensi alla celebre Trinità di Andrej Rublëv), più realisticamente la tradizione ebraica, coerentemente con il testo biblico, in essi ha visto il volto di ogni uomo e di ogni donna in cui Dio si incarna e attraverso il quale, come vuole il filosofo francese E. Lévinas, egli «visita» l’uomo: «La sua presenza consiste nel venire verso di noi, nel fare ingresso. Il che può essere formulato in questi termini...: il volto è visitazione» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, T. Pironti, Napoli 1979, 35). Il senso di questa ‘visitazione’ è di sottrarre l’io al potere dell’io – all’io inchiodato a sé nella sua ‘caverna egoica’ – per elevarlo, come Abramo, all’altezza di un io dimentico di sé e ospitale: «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione […] si muta in resistenza totale alla presa […]. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento e conoscenza» (E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, 203).

499 - MARTA E MARIA - 21 Luglio 2013 – XVIª Domenica del Tempo ordinario

(Genesi 18,1-10a Colossesi1,24-28 Luca 10,38-42)

Le due sorelle sono tra i personaggi più noti dell’opera lucana. Marta è chiaramente la padrona di casa e il secondo personaggio, Maria, è qualificato in rapporto a lei: «sua sorella». L’ospitalità offerta a Gesù ed ai suoi pone Marta in una luce favorevole. Dopo il rifiuto dei Samaritani, l’apertura della propria casa a Gesù la pone tra coloro che collaborano alla sua missione. Il versetto 39 offre al lettore un’icona vivace e contrapposta delle due sorelle: Maria, «seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi». Sembra che le due sorelle abbiano diviso tra loro la responsabilità dell’accoglienza: mentre Maria intrattiene l’ospite, Marta gestisce le varie attività connesse alla preparazione del cibo. La posizione «ai piedi del Signore» pone Maria nell’atteggiamento del discepolo (cfr. At 22,3). L’unica azione riferita a lei è l’ascolto della Parola, non la parola di Gesù, ma del ‘Signore’. Nel suo ministero pubblico Gesù dichiara che la propria famiglia è costituita da «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,19-21). L’ascolto rende dunque Maria di Betania discepola, madre e sorella di Gesù. Aggiungo che in un contesto culturale ‘patriarcale’, in cui non era consentito ad un Rabbì di insegnare alle donne, la sottolineatura lucana indica l’avvento di una modalità nuova di rapporti: nella famiglia di Gesù giudei e gentili, uomini e donne, possono riappropriarsi della propria vocazione originale di immagine e somiglianza di Dio, possono tornare ad essere semplicemente figli nel Figlio. Forse proprio l’atteggiamento ‘fuori luogo’ di Maria attira l’ira di Marta che, avvicinandosi al Signore con brusca familiarità, rimprovera indirettamente la sorella, manifestando la convinzione che Gesù condivida il suo punto di vista: «“Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”» (vv. 40-41). L’uso del termine ‘Signore’ insieme alla doppia ripetizione del nome Marta, conferisce un tono solenne alla risposta di Gesù. La risposta di Gesù conferma che il confronto non è tra ascolto e servizio, ma tra «molte cose» e «una cosa». Si tratta dunque dell’opzione tra uno stile di vita frammentario, o unificato attorno a ciò che è necessario; un’esistenza divisa tra molte cose o ‘semplificata’, focalizzata in una persona: il Signore. Pensiamo all’esperienza di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). L’io di Paolo è Cristo: tutto il resto è considerato da lui ‘spazzatura’: «…ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8). Matteo definisce questa stessa realtà come «cuore puro»: si tratta di un cuore unificato, trasparente; coloro che vivono così sono beati perché «vedranno» Dio, lo riconosceranno presente in ogni situazione, realtà, persona (Mt 5,8). Per chi possiede un cuore puro, per chi ha fatto suo l’io del Cristo, non esiste distinzione tra attività diverse: il servizio esprime l’obbedienza alla Parola. In questa luce Luca descrive il servizio come la caratteristica del discepolo, in quanto condivisione dello stile di vita del Maestro: «Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cfr. Lc 22,24-27). Marta, dunque, non è invitata ad abbandonare il servizio per sedersi con Maria ai piedi di Gesù, ma a vivere il servizio con un cuore unificato. Non diverrà allora una sequenza di ‘molte cose’ capaci di ‘distoglierla’ dall’accoglienza del Signore, ma la risposta libera e obbediente al suo Signore, colui che può dare ad ogni istante un valore eterno. In questo senso, Maria sta già ‘aiutando’ Marta a donare ad ogni cosa il proprio valore: fissa lo sguardo sul Signore e servilo…
Possiamo comprendere meglio l’atteggiamento delle due sorelle, se ripercorriamo la parabola del seminatore. Pensiamo alla distinzione tra «coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione» (8,14) e «coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (8,15).
Non conosciamo la risposta di Marta: come spesso accade, Luca lascia alcune righe vuote dove ognuno di noi può scrivere la propria reazione all’invito di Gesù.

PREGHIERA - Ti aveva chiesto di condannare l’atteggiamento della sorella e proprio lei, invece, finisce nel mirino, oggetto dei tuoi rimproveri. Un modo davvero strano, Gesù, per ringraziare la donna che, in fin dei conti, sta faticando anche per te, per una cena degna della tua presenza. Ma il tuo comportamento non potrebbe essere preso come un incentivo alla pigrizia, come una dissuasione dall’impegno, come un pretesto per sottrarsi al sacrificio e al dovere? Di primo acchito restiamo sorpresi perché ognuno di noi, in fondo, tifa per Marta e per la sua laboriosità, per il suo desiderio di far bella figura a costo di ammazzarsi di lavoro.
Ci schieriamo facilmente dalla parte di chi non si tira indietro e non riusciamo a capire quelli che se ne stanno con le mani in mano, che hanno sempre una scusa buona per svignarsela dai turni e dalle incombenze. Ma tu oggi ci insegni a distinguere, a discernere ciò che conta veramente, a non cadere vittime degli affanni e dell’agitazione e a trovare il tempo per te, per sedersi ai tuoi piedi.
Tu inviti la Marta che è in ognuno di noi a non trovare sotterfugi per sottrarsi alla preghiera e all’ascolto della Parola.