sabato 25 febbraio 2012

338 - ECCO IL MOMENTO FAVOREVOLE - 26 Febbraio 2012 – Iª Domenica di Quaresima

(Genesi 9,8-15 1ªPietro 3,18-22 Marco 1,12-15)

Il tempo della Quaresima è tempo ‘favorevole’ (nel linguaggio biblico, un kairós!) per accorgerci che Dio ci accompagna verso la rivelazione del nostro futuro, quale apparirà nella risurrezione di Gesù. È tempo ‘favorevole’ per aprire il cuore a lui e cambiare la direzione della nostra vita. È il tempo di lasciarci riconciliare con Dio.
Gesù resiste alla tentazione ‘diabolica’ perché sceglie la via del Padre. In Gesù anche noi possiamo trovare il coraggio di superare la provocazione continua del male e restare fedeli a Dio. Fede, infatti, significa trovare stabilità, accettare Dio come fondamento sicuro della nostra esistenza, accogliere nella vita il progetto divino di misericordia.
Gesù è stato tentato di rinunciare alla sua identità divina ed ha vinto. Noi, oggi, siamo tentati di rinunciare alla nostra identità cristiana: dobbiamo accettare questo passaggio della tentazione, lottare e con Gesù vincere.
Dopo aver superato la prova Gesù può affermare: «Il tempo è compiuto; il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo». Perché il Regno si compia bisogna convertirsi e credere. Il credere come atto consequenziale alla conversione significa capovolgere il piano, sradicare i valori dai terreni umiliati, trapiantarli in terra buona (cuore retto e sincero), rimettere in piedi ciò che è andato in avaria. È un vero e proprio rinascere. Anche se ciò comporta sacrificio, rinuncia, impopolarità, audacia e costanza.
PREGHIERA DI INIZIO QUARESIMA - Signore Gesù, cominciamo oggi il percorso che ci condurrà a celebrare la tua Pasqua di morte e di risurrezione. Di anno in anno tu ci offri questo appuntamento di grazia perché la nostra fede conosca una nuova primavera, noi veniamo rinnovati nel profondo dell’esistenza e ritroviamo un’armonia perduta.
Così tu ci indichi subito con quali mezzi possiamo guarire il nostro cuore e instaurare una relazione autentica con noi stessi, con gli altri e con il Padre tuo.
Attraverso l’elemosina tu apri la nostra vita alla compassione e alla solidarietà e la liberi da un inguaribile egoismo che la soffoca e la rende sterile.
Con la preghiera tu ci inviti a ristabilire il rapporto con Dio, appannato dalla nostra negligenza, offuscato da numerose infedeltà.
Con il digiuno tu ci chiedi di guarire lo spirito partendo dal nostro corpo, di avvertire fame di tutto ciò che conta veramente.
E perché ogni strumento si riveli efficace tu ci domandi di agire senza alcuna ostentazione.
PREGHIERA - La tua missione è appena iniziata, Gesù, e lo Spirito ti spinge nel deserto perché tu sia messo alla prova e conosca il tempo oscuro della tentazione. Sei un uomo, come ognuno di noi, e quindi devi fare i conti con tutto ciò che ostacola la fedeltà al progetto di Dio.
Il compito che ti è affidato non è facile: annuncerai un Dio che si fa vicino per liberare l’uomo dal potere del male, un Dio disposto a lottare a mani nude contro la cattiveria e l’egoismo, un Dio pronto a scontrarsi con le malattie e la morte.
Porterai una Buona Notizia che può trasformare la vita, ma solo se si è disposti ad imboccare con risolutezza una strada nuova e a lasciarsi guidare dalla tua parola.
Chiederai di riporre in te una fiducia totale, a tutta prova, quella fiducia che tu, per primo, sei chiamato a vivere nei confronti del Padre tuo.
Luogo di prova, il deserto porta allo scoperto il legame tenace che ti unisce al Padre, quell’amore che guiderà ogni tuo passo, quell’obbedienza filiale che ti renderà vittorioso su Satana.

venerdì 24 febbraio 2012

337 - CHE COSA HO FATTO DI MALE?

Per una pausa spirituale durante la VIIª Settimana del Tempo ordinario

LA DOMANDA - Questo interrogativo erompe come un grido quando la persona si scopre, inaspettatamente, ferita da una grave malattia che compromette il suo futuro, o si trova lacerata negli affetti più preziosi. Il faccia a faccia con la morte è la causa più frequente che lo provoca. Tale espressione contiene una domanda su Dio. È a lui che viene rivolta. Di fronte alla voglia di vivere e alla ricerca di essere felici, sembra che egli si ponga come intralcio, e sia implicato in un evento crudele.
«Che male ho fatto per meritarmi questa punizione?». Dio è visto come l’autore di ogni evento, anche di quello funesto. È entrata nel pensiero collettivo l’idea non biblica del «non si muove foglia che Dio non voglia». Quindi anche la disgrazia deriverebbe da lui. Chissà come mai, dopo anni di annuncio del Vangelo è ancora resistente la convinzione che Dio punisca le trasgressioni morali con la sofferenza. Purtroppo dobbiamo ammettere che anche alcuni interventi di gruppi cristiani e, a volte, addirittura di responsabili di comunità ecclesiali, hanno generato e generano questo orientamento. Di fronte al drammatico disastro dello tsunami in Thailandia, nel dicembre del 2004, qualche voce di intonazione cristiana non si è forse levata a dire che Dio sarebbe intervenuto proprio per sanzionare le trasgressioni sessuali avvenute in quel luogo? Altri luoghi e popoli non sarebbero allora ugualmente punibili? L’idea di un «Dio che castiga» è dunque ancora molto diffusa e radicata. Essa, però, annulla la rivelazione biblica del «Dio amore». Se Dio è amore, come può far del male alle persone? Se Dio è Padre, come può inviare sofferenze ai suoi figli? Nel Vangelo si afferma francamente che «Dio ha mandato il suo figlio non per condannare o punire, ma per salvare e liberare».
BISOGNA SLEGARE IL DOLORE DA DIO - Il dolore non proviene da Dio. Dio non può che amare e non può che amare il bene, non può che volere la ‘gioia’ degli uomini. Quindi, di fronte al ‘dolore’ proprio o altrui non si dovrebbe più dire: «Dio ha voluto così». Equivarrebbe a porre in Dio la causa della sofferenza. Questo contrasta con il messaggio biblico che presenta Dio come liberatore dal male. Ma oltre che rifiutare la provenienza del dolore da Dio, è altrettanto importante non affidare a Dio neppure la risoluzione della sofferenza. Egli è sì il liberatore, ma libera richiamando l’uomo alla sua responsabilità nell’eliminare la sofferenza; Dio spinge l’uomo a superare una fede magica: quella che lo porterebbe ad abdicare alla sua intelligenza.
DIO NON PUNISCE - Se fosse vero che Dio punisce le colpe degli uomini con la malattia o con le disgrazie, si affaccerebbero due devastanti contraddizioni. La prima è insita nel dato di fatto che molte persone oneste soffrono mentre altre persone disoneste prosperano. Lo stesso Gesù, il ‘giusto’ per eccellenza, ha sperimentato una sofferenza che sembra sia stata risparmiata storicamente a tanti uomini mediocri. Allora dove va la giustizia divina? Occorre forse ricordare il passo della guarigione del cieco dalla nascita, nel Vangelo di Giovanni (cap. 9), in cui, di fronte al pregiudizio del male della cecità imputato ai peccati personali, se non addirittura a quelli della parentela, è ribadito fermamente: «Né lui ha peccato né i suoi genitori»? La seconda criticità sarebbe ancora più radicale: se Dio è così severo, è uno che alimenta il terrore e non può quindi conquistare il nostro cuore, ma soltanto condizionare la nostra psiche. Nasce la paura. E la paura non aiuta l’uomo ad avere una relazione con lui basata sulla fiducia e sull’amore. È per fugare questa paura, e soprattutto per l’impossibilità di accettare la presenza di un Dio insensibile al dolore umano, che molti sono arrivati a dire: «Dio non esiste». Il fatto è che il mistero del male e del dolore è così vasto che l’uomo non può comprenderlo. Dio ha delle vie che non sono le nostre vie. Abbandonarsi a lui, al suo sguardo lungimirante, è il modo per vivere la fede.
IL SILENZIO DI DIO - Se Dio non manda il dolore, perché, se è Padre, non interviene almeno a toglierlo? «Ma dimmi, quand’è che sei stato buono, buon Dio? Fosti buono quando lasciasti straziare dall’esplosione di una bomba il mio bambino di appena un anno? … Non l’hai sentito quando egli urlava, e quando esplodevano le bombe? O fosti buono quando caddero undici uomini della mia pattuglia?… Fosti buono a Stalingrado, fosti buono là, come?» (W. Borkert). Anche Simone Weil è quasi ossessionata dal problema di Dio e dalla presenza del dolore. «Mi sento dentro un disagio che si aggrava sempre di più, tanto nella mia intelligenza quanto al centro del mio cuore, dovuto alla mia incapacità di pensare allo stesso tempo all’infelicità degli uomini, alla perfezione di Dio e alla relazione tra queste due nozioni». Questo problema è, da secoli, drammaticamente tematizzato nel libro di Giobbe. Il problema di Giobbe non è tanto la sofferenza, ma la fede. Come poter credere e in quale Dio credere, nonostante l’assurdo della vita? Giobbe rompe con le concezioni teologiche e religiose del tempo e si avventura alla ricerca di un nuovo e diverso volto di Dio.
VIVERE L’ENIGMA - L’enigma fa parte della nostra vita. «Dateci degli enigmi per comprenderci»: sono parole rivolte da alcuni giovani ai loro professori. L’enigma non è una sventura, porta a riconoscere il proprio limite, ma soprattutto a non cessare mai di cercare, senza voler possedere. In questa linea possiamo leggere l’espressione di Lévinas: «Amare senza voler comprendere, amare prima di comprendere, amare senza concupiscenza». Comprendere vuol dire ‘prendere dentro’, pretendere di chiarire tutto, non accettando l’oscurità che c’è in noi e negli altri. Questo ‘mistero’ o ‘enigma’ emerge non solo perché la realtà non è traslucida, ma perché è imprevedibile. La persona, il mondo, Dio sono più di ciò che sappiamo. Anche Gesù ha provato il brivido dell’oscurità. Ha ‘gridato’ dalla croce (senza la compostezza di un Socrate) l’enigma dell’abbandono, ed è stata questa la parola più forte tra quelle che ha pronunciato.
La fuga dal dolore è fuga da se stessi, è fuga dalle provocazioni e dalle sollecitazioni che prorompono dal dolore. Accettare il dolore non è sottostare al non senso: è sperimentare la propria finitezza, ma anche il modo per camminare in avanti verso la pienezza del proprio essere. Qui si innesta il tema del coraggio: il coraggio di non sottrarsi al dolore, di non volerlo escludere dalla propria vita, sia quello inflitto dalla natura (sofferenza), sia quello sanzionato dal potere (la croce). Il dolore è una via di verità. Ti insegna il limite. «È la cifra di ciò che sta oltre il limite» (E. Peyretti). Gesù e Buddha hanno messo al centro della loro vita la croce. Per ‘croce’ si intende l’opposizione, il dissenso, la persecuzione che essi hanno dovuto affrontare. Ma essi non hanno rivolto altrove lo sguardo. Il loro coraggio li ha fatti nostri maestri. Certamente il dolore non è da cercare (ci si deve opporre ad una cultura vittimista), ma neppure da eludere, da tradire.

domenica 19 febbraio 2012

336 - PADRE GIOVANNI BATTISTA PIAMARTA - PRESTO SANTO!

Papa Benedetto XVI, oggi 18 Febbraio 2012, ha pubblicato la data della Canonizzazione del Beato Padre Giovanni Piamarta. La Canonizzazione avrà luogo a Roma nella Basilica Vaticana Domenica 21 Ottobre 2012. Ringraziamo il Signore per questo dono che ci fa e lo preghiamo perchè ci dia forza per imitarne gli esempi.


Per conoscere la vita e le opere di padre Piamarta clicca qui: http://danilop-passalaparola.blogspot.com/2009/01/beato-giovanni-battista-piamarta.html

sabato 18 febbraio 2012

335 - TI SONO PERDONATI I TUOI PECCATI - 19 Febbraio 2012 – VIIª Domenica ordinaria

(Isaia 43,18-25 2ª Corinti 1,18-22 Marco 2,1-12)

Ricevere il perdono dei peccati significa possibilità di ricominciare da capo, ogni volta. Significa perciò poter ritornare a vivere, poiché il peccato è per il credente come una paralisi interiore che impedisce alla vita di manifestarsi. Gesù rivendica per sé il ‘potere’ di perdonare e lo trasmette anche a chi crede in lui.
L’intento di Marco nel racconto della guarigione del paralitico è quello di affermare che ciò che Gesù dice, accade. Come il paralitico in forza della parola di Gesù è guarito, così il peccatore in forza della stessa parola è perdonato. L’espressione «Figlio dell’uomo», che qui Marco usa per la prima volta, è presa dai testi apocalittici di Daniele (c.7). Si tratta di un personaggio misterioso al quale viene dato il potere di giudicare le nazioni. Definendosi «Figlio dell’uomo», Gesù annuncia velatamente di essere proprio colui che verrà a compiere il giudizio alla fine dei tempi. Ma questo potere egli lo possiede fin d’ora e può disporne, anticipando sulla terra l’ora del giudizio. Tuttavia nel tempo presente, che è tempo di grazia e di misericordia, il Figlio dell’uomo si vale della sua autorità non per punire il peccato, ma per dare salvezza e perdono a chi crede in lui. Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare e dare la vita per gli uomini (cfr. Gv 12,47).
Questa pagina evangelica dona la certezza che Dio offre sempre la possibilità di ricominciare la relazione con lui. Il paralitico è un uomo che la malattia ha bloccato. La guarigione lo rimette in piedi, gli consente di riprendere la relazione con il mondo. Il peccato è una situazione che blocca l’uomo nelle maglie dell’egoismo, dell’orgoglio, della solitudine. Il perdono lo libera per nuove relazioni e nuovi progetti. Dio ha inviato Gesù a donare questo perdono. Il discepolo di Gesù è colui che gli riconosce tale autorità, ma c’è anche chi, fisso nelle sue consolidate convinzioni, non è disposto a dargli credito e non è capace di cogliere la novità che è Gesù, e che egli manifesta con fatti concreti ed evidenti, come la guarigione dal male fisico.
La vita è una bella avventura, anche perché è sempre possibile ogni mattino, aprendo gli occhi, dire: Oggi ricomincio. Poveri noi se certe esperienze negative fossero irreversibili! E invece si può buttarle dietro le spalle e dire: Questa sarà una giornata nuova, diversa. Ma, è veramente possibile ricominciare sempre? È possibile per chi si appoggia in Dio che ci dice: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). Il suo perdono proietta in avanti, permette sempre di ricominciare. Nessun male e nessun peccato è irreparabile. Quello che Gesù ha detto al paralitico: «Ti sono perdonati i peccati», lo ripete a chiunque si accosti a lui con cuore pentito. Non è che con questo Dio chiuda gli occhi sulle nostre miserie, faccia finta di non vedere e ci lasci così come siamo. Con il perdono il Signore ci ricrea. Ci dà «un cuore nuovo e uno spirito nuovo» (Ez 36,26), capace di trionfare sul male e di mantenerci nella sua amicizia. Questo non significa che fa tutto lui senza di noi. Anzi, senza la nostra collaborazione non ci può essere salvezza. Scrive infatti Sant’Agostino: «Dio che ti ha creato senza che tu lo voglia, non ti salva senza che tu lo voglia».
PREGHIERA - Se te l’hanno portato, Gesù, è perché da solo non avrebbe mai potuto raggiungerti. Ma si sono trovati davanti un ulteriore ostacolo: una folla che faceva ressa e ostruiva ogni passaggio. E tuttavia non si sono arresi. Hanno scoperchiato il tetto, te l’hanno calato davanti. Gesti un po’ folli, ma dettati dalla fede in te, nella tua parola che guarisce da ogni male.
È proprio per questo che sono venuti: perché tu gli restituisca l’uso delle gambe, perché possa tornare a percorrere le strade degli uomini. Quello che tu solo vedi, però, è un’altra debolezza cronica che ha intaccato la vita del paralitico e gli impedisce di camminare per le vie di Dio, le sole che portano alla vita. Ecco perché cominci col trasmettergli il perdono e solo dopo ridoni ai suoi arti la forza perduta.
In fondo è proprio per questo che tu sei venuto in mezzo a noi: per strapparci ad ogni paralisi che ci impedisce di venirti incontro, per liberarci da tutto ciò che blocca il nostro corpo e il nostro spirito.

334 - QUANDO L’ATTENZIONE AL MIRACOLO NON È IN ARMONIA CON QUANTO CI HA INSEGNATO GESÙ

Per una pausa spirituale durante la VIª Settimana del Tempo ordinario

L’esperienza del soffrire, in tutte le sue manifestazioni, fa emergere spontaneamente nella persona un’invocazione di aiuto. Il meccanismo della regressione porta facilmente l’individuo ad assumere atteggiamenti infantili, caratterizzati dall’attesa di interventi miracolistici da parte dei genitori o di altre persone significative. Non è raro che quanti si trovano a vivere situazioni negative reagiscano in questo modo nei confronti non solo di coloro che posseggono competenze scientifiche e tecniche, ma
anche del Signore. In questi casi, spesso il sentimento dell’impotenza spinge la persona ad attendere o addirittura a pretendere il miracolo; se questo non avviene, può accadere che essa perda la sua fiducia in Dio, mettendo così in evidenza l’immaturità della propria fede. È quanto è possibile constatare in alcune celebrazioni cosiddette di guarigione, in cui l’attenzione di frange di partecipanti si concentra più sull’attesa di eventi miracolosi che sul cambiamento del cuore operato dall’intervento del Cristo, divino samaritano delle anime e dei corpi.
I vangeli registrano numerosi incontri di Gesù con persone bisognose di aiuto, come il lebbroso di cui ci parla la liturgia della Parola di questa domenica. In nessuno di essi egli ha rimproverato i malati per le loro richieste di un miracolo. Al contrario, ripetutamente il Cristo ha esortato a chiedere al Padre grazie e favori con insistenza, fino a stancarlo. Nel suo modo di comportarsi, però, egli manifesta una metodologia pedagogica significativa. Accogliendo le persone là dove esse si trovano in termini sia psicologici che spirituali, le aiuta a rendersi conto che il miracolo della guarigione psico-fisica è una freccia che indica un obiettivo più elevato, la salvezza. Seguendo questo percorso, Gesù fa leva su quel bisogno di auto-superamento che è presente in ogni essere umano, anche se non sempre avvertito oppure avvertito in maniera diversa, aprendo la persona al mistero, «ad una comprensione più profonda di sé e delle cose, a lasciarsi inquietare da un annuncio che supera l’orizzonte abituale, ma che da esso trae sollecitazione, a cogliere nelle esperienze difficili del quotidiano, il rimando ad una ricerca, ad una Presenza».
In questo senso, si può affermare che il Signore risponde sempre con un miracolo a chi, mosso dalla fede, gli chiede di essere aiutato a passare attraverso le vicende dolorose della vita. Solo raramente, però, il miracolo si realizza secondo le attese immediate della persona, ma ubbidisce ad una logica divina che mira al suo vero bene.
Per inserirsi in tale logica occorre prendere coscienza che le proprie sofferenze sono strettamente connesse con la sofferenza dello stesso Dio e mantenere viva tale connessione. In altre parole, ciò che gli uomini soffrono, leggero o grave che sia, è un’esperienza che, lungi dal rimanere isolata, si relaziona con la sofferenza stessa di Dio. Gesù sana i nostri dolori togliendoli dal nostro ambito egocentrico, individualista e privato e connettendoli con il dolore di tutta l’umanità, da lui assunto. In questo senso curare non significa, quindi, innanzitutto eliminare i dolori, bensì rivelare che i nostri dolori sono compresi in una sofferenza maggiore, che la nostra esperienza costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
Quanto sia impegnativo tale cammino è ben espresso in un noto episodio della Genesi (32, 23-32). Di ritorno in Palestina, dopo una lunga assenza, Giacobbe attraversa il torrente Yaboc, un affluente del fiume Giordano. Fatta avanzare la carovana, egli rimane solo alla riva del torrente. Verso la fine della notte, egli intraprende la lotta con un misterioso personaggio. Quest’ultimo, non potendo vincerlo, colpisce Giacobbe al nervo sciatico, lasciandolo zoppo. Il misterioso personaggio, quando la notte sta per finire, chiede a Giacobbe di lasciarlo andare, ma egli non acconsente se prima non riceve la sua benedizione. Il simbolismo più evocativo di questo episodio è quello della lotta del popolo di Israele con il mistero di Dio, specialmente con il suo procedere nei confronti della sofferenza umana. Perché il dolore? Come conciliarlo con l’onnipotenza e la bontà del Signore? Questa lotta avviene nella piena notte del mistero e dura quanto dura la notte. Il dolore è messo in relazione con l’oscurità della notte, non considerata come valore negativo, bensì come mistero, del quale solo Dio conosce la risposta. La notte è il momento in cui Dio condensa in sommo grado la sua azione misteriosa. Però ogni notte ha la sua alba…
L’azione redentrice di Cristo ha reso maggiormente accessibile il miracolo della luce che illumina l’oscurità della sofferenza, aprendo alla speranza. Miracolo che la mediazione di atteggiamenti ricchi di umanità rende più facilmente percepibile e sperimentabile.

sabato 11 febbraio 2012

333 - DIO DELLA COMPASSIONE - 12 Febbraio 2012 – VIª Domenica ordinaria

(Levitico 13,1-2.45-46 1ª Corinti 10,31-11,1 Marco 1,40-45)

Un nuovo racconto di guarigione: il lebbroso viene guarito da Gesù «mosso a compassione». In questo episodio Gesù rivela un aspetto profondo del volto di Dio: Dio è mosso a compassione per tutte le nostre forme di ‘lebbra’. Allo stesso tempo il racconto evangelico di guarigione è un invito a chi vuol seguire Gesù: anche il cristiano è chiamato ad essere liberatore nella sua storia.
La malattia è sempre qualcosa di cui non riusciamo a comprendere pienamente il senso, è una limitazione che crea insofferenza, che porta spontaneamente più alla ribellione e alla bestemmia che alla serena accettazione. Perché Dio, che può tutto, fa soffrire? L’atteggiamento di Dio nei confronti della malattia è però di un uguale rifiuto. Dio non ama la malattia; Gesù infatti ha compassione per tutti gli ammalati. La malattia non è un bene per l’uomo, è un momento di prova, di sofferenza. Lottare con tutte le forze contro la malattia è quindi non solo un atteggiamento legittimo, ma significa mettersi dalla parte di Dio. Gesù ha guarito gli ammalati che lo hanno accostato; oggi tocca all’uomo continuare l’opera di Gesù, compiere altri ‘miracoli’ servendosi dei mezzi che la scienza mette a sua disposizione.
I miracoli hanno la funzione di accreditare la persona e l’opera di Gesù. Il rabbì di Nazaret compie miracoli per dire che Dio è all’opera, ora, in forma nuova e definitiva. Le profezie dell’Antico Testamento annunciavano infatti le guarigioni di malati come segno dell’arrivo del tempo messianico. Il miracolo, per il suo carattere di evento straordinario, suscita sempre stupore. Si tratta però di uno stupore che non è fine a se stesso. Il miracolo è come una freccia scoccata dall’arco che orienta lo sguardo sul bersaglio, è come un dito puntato che attira l’attenzione non su se stesso, ma sulla cosa indicata. I miracoli di Gesù raggiungono il loro scopo se diventano dei «segni», infatti, dinanzi ad essi la gente si interroga (Mc 1,27; 4,41; 6,14-16...). Possiamo dire che il miracolo si sviluppa su due livelli: il primo riguarda il fatto da tutti percepibile, il secondo riguarda il significato del fatto, colto solo da coloro che vedono nel miracolo un segno. Proprio il carattere di ‘segno’ diventa l’elemento distintivo del miracolo evangelico. Se il miracolo non rimanda alla persona di Gesù, rimane vuoto e inefficace. Quante persone in Palestina furono testimoni dei miracoli compiuti da Gesù eppure non si convertirono!
Marco presenta Gesù che annuncia la vicinanza del regno di Dio (1,15), ma finora Dio non è stato mai nominato da Gesù, egli si è invece occupato degli uomini e dei loro problemi. C’è qui un insegnamento importante per i discepoli di ogni tempo: Dio è il Dio della compassione e lo serviamo solo quando ci prendiamo cura dell’uomo e della sua liberazione dal male fisico, sociale e morale.
PREGHIERA - Al tuo tempo, Signore Gesù, la lebbra non era una malattia qualsiasi. Distruggeva un essere umano, deturpando le sue membra, fino a far loro perdere
l’aspetto di un tempo. Per questo faceva nascere la paura folle del contagio, che allontanava i malati dalla loro famiglia e dal paese, condannandoli ad un’esistenza raminga e solitaria.
Così la lebbra intaccava, Gesù, le fibre profonde dell’anima, fino a far perdere la voglia di lottare, gettando nello sconforto chi si sentiva abbandonato, cacciato e rigettato dalla comunità civile e religiosa.
Per questo, Gesù, quel giorno, guarendo il lebbroso tu l’hai restituito in un colpo solo
alla salute perduta, ai suoi affetti e al suo lavoro, al calore di una famiglia, alla vita del villaggio.
Lo hai fatto rinascere alla speranza di una vita nuova, lo hai sottratto all’incubo di una sofferenza senza via d’uscita. Tutto questo ha operato la tua bontà, la tua compassione.

332 - LA PREGHIERA DI GESÙ VISTA NEL CONTESTO DEL SUO MINISTERO

Per una pausa spirituale durante la Vª Settimana del Tempo ordinario

Le testimonianze evangeliche dicono che l’esperienza di preghiera di Gesù è quella di una preghiera ricevuta e trasmessa. Ricevuta dalla sua assidua partecipazione alle officiature sinagogali, trasmessa rispondendo alla richiesta dei discepoli: «Insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Tra i due momenti vi è l’appropriazione personale della preghiera da parte di Gesù e la sua trasformazione. Ovvero l’inflessione particolare che Gesù accorda al suo pregare, sintetizzata nell’invocazione fiduciosa e filiale rivolta a Dio quale Abbà. Questa preghiera personale, solitaria, silenziosa, spesso notturna o alle prime luci dell’alba, lontano dalla folla e anche dai discepoli, appare sorgente vitale che nutre la fede di Gesù, lo conferma nella sua vocazione, gli dona perseveranza nel suo ministero. Cioè, lo radica nella relazione con colui che l’ha inviato.
Spesso si parla della ‘missione’ di Gesù, ma missione dice anzitutto relazione vitale e imprescindibile con colui che ha inviato, prima ancora che con i destinatari. Nel contesto del suo ministero, Gesù non vive affatto la preghiera in maniera funzionale, in vista di una predicazione o di un’attività, ma in maniera vitale e personale come dimora nello spazio vitale con il Padre che l’ha inviato. Lì egli trova salde fondamenta al suo agire, parlare, operare, abitando l’intimità con colui che è all’origine della sua obbedienza: «Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (cfr. Gv 6,38). E le salde fondamenta che trova sono l’esperienza di essere ascoltato e amato. Il momento iniziale del suo ministero pubblico, il battesimo, è accompagnato da un’esperienza di preghiera (esplicitamente in Lc 3,21), in cui Gesù assume nella sua persona le parole tante volte ascoltate nella Scrittura circa il Messia («Tu sei il mio figlio»: Sal 2,7), circa Isacco («l’amato»: Gen 22,2), circa il Servo («In te mi sono compiaciuto»: Is 42,1). L’essere amato dal Padre lo sorregge nel cammino messianico che gli si apre dinanzi e che si conformerà al cammino del servo sofferente di cui parlò Isaia. Questo essere amato si esprime nella coscienza di essere ascoltato, e dunque accolto: «Ti ringrazio, Padre, perché mi hai ascoltato. Io sapevo che tu mi ascolti sempre» (Gv 11,41- 42). La preghiera fonda la fiducia di Gesù nel Padre e il coraggio e la libertà nei confronti dei discepoli, delle folle, degli uomini tutti. E questo, situando Gesù nell’amore: amore del Padre per lui («Il Padre ama il Figlio»: Gv 3,35) e suo per il Padre («Io amo il Padre»: Gv 14,31); amore per i discepoli e gli uomini (Gv 13,1), che accetta di non essere sempre compreso e ricambiato, anzi, di essere anche misconosciuto e rifiutato.
Nel contesto del suo ministero la preghiera ha per Gesù un’importante valenza nei confronti della comunità dei suoi discepoli. Avendoli radunati attorno a sé, egli vive anche con la preghiera la responsabilità nei loro confronti. Dalla sua preghiera solitaria nascono le domande da porre ai suoi discepoli per farli crescere nel cammino spirituale e nel coinvolgimento comunitario: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: ‘Le folle, chi dicono che io sia?’» (Lc 9,18). La preghiera è l’alveo che prepara il suo lavoro di far crescere nei discepoli la consapevolezza della loro chiamata, di dare una sterzata alla comunità, di situarla nuovamente in rapporto a Dio.
La preghiera di Gesù, che lo evidenzia in un rapporto stretto con Dio, che lo mostra uomo di Dio, figlio di Dio, appartenente a lui, dà autorevolezza a Gesù e rafforza il suo essere guida e luce del gruppo dei discepoli. La trasfigurazione è l’esperienza di preghiera che consente anche ad alcuni discepoli di cogliere che l’ascolto della parola di Gesù è l’essenziale della loro vocazione.
Gesù intercede anche per i suoi discepoli, prega per loro, e li custodisce portandoli davanti a Dio nella loro assenza. L’intercessione diviene momento essenziale del suo essere pastore. A Simon Pietro, Gesù dice: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). La preghiera personale di Gesù appare anche il luogo in cui egli discerne e decide con Dio le azioni da compiere e i passi da fare. Spesso si dice che la preghiera di Gesù accompagna e segna i momenti capitali della vita di Gesù, ma in realtà è la preghiera che plasma la realtà e che fa del quotidiano l’occasione di un evento decisivo. La preghiera appare così come luogo di gestazione di decisioni, come preludio al parto che avverrà con l’azione. Dopo aver passato tutta la notte in preghiera, Gesù al mattino convoca i discepoli e ne sceglie dodici che stabilisce quali apostoli (cfr. Lc 6,12-13).
Gesù inoltre vive la preghiera personale durante il suo ministero come presa di distanza dalle folle e dai discepoli: il ministero non vive solo di attività, di fare e parlare, ma abbisogna di respiro, di sosta, di pausa. Anzi, il ministero muore se ridotto solo ad attività. La preghiera ricorda che il ministero è inserito in una vita, e che questa è l’essenziale vocazione.
La preghiera diviene infine anche luogo di lotta spirituale, acquisendo una dimensione drammatica nei momenti finali della vita e del ministero di Gesù. Al Getsemani, l’andirivieni di Gesù tra il luogo solitario in cui prega e i tre discepoli a cui ha chiesto di vegliare accanto a lui, visibilizza il dramma interiore tra desiderio di evitare la morte e l’angoscia di dover accogliere il precipitare degli eventi (cfr. Mt 26,36-46). Visibilizza la crisi della relazione che Gesù sta vivendo tra discepoli che si addormentano e non sanno vegliare con lui e un Dio di cui presto, sulla croce, griderà l’abbandono. La preghiera non salva Gesù dalla solitudine, dall’abbandono dei suoi discepoli e nemmeno dall’abbandono di Dio. Ma è ciò che gli consente di accogliere anche questa derelizione come compimento del suo ministero. È ciò che resta di lui e del suo ministero. Resta come grido che invoca risposta, come grido con cui Gesù, nella sua impotenza di crocifisso, chiede a Dio di farsi rispondente. E, una volta risorto, resta come intercessione per gli uomini tutti: Cristo, infatti, «è sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,25).

sabato 4 febbraio 2012

331 - UNA GIOIRNATA DI GESÙ - 05 Febbraio 2012 – Vª Domenica ordinaria

(Giobbe 7,1-4.6-7 1ª Corinti 9,16-19-22-23 Marco 1,29-39)

La cosiddetta giornata di Gesù (Marco 1,21-39) è inclusa tra due momenti dedicati alla preghiera: quella pubblica nella sinagoga (dove Gesù insegna) e quella privata nella solitudine di un luogo deserto. Inoltre, si svolge in due spazi tipici della vita quotidiana: la casa, spazio della vita privata con l’intimità e gli affetti che la caratterizzano, e la porta della città, spazio per eccellenza della vita pubblica. L’annuncio della parola, le guarigioni e la preghiera sono le azioni dominanti. Il brano presenta tre momenti: Gesù guarisce la suocera di Simone (vv. 29-31); la sera, dopo il tramonto del sole, guarisce molti malati (vv. 32-34); il mattino seguente si porta a pregare in un «luogo deserto» per prepararsi a un nuovo annuncio missionario (vv. 35-39).
Gesù ha da poco cominciato la sua missione; ora, nella casa di Pietro, compie uno dei primi miracoli, uno di quei gesti che parlano della vicinanza di Dio a chi si trova in stato di bisogno e di necessità. Il Maestro agisce nell’intimità di una casa, intimità accresciuta dal fatto che in quella casa Gesù ha scelto due figli, Pietro e Andrea. La casa di Simone è quasi la culla del Vangelo nascente, qui la buona notizia è data non solo ai dodici, che poi saranno i testimoni ufficiali, ma anche a una donna di cui poi non sappiamo più nulla e che tuttavia, per le poche cose che ci vengono dette, diventa un modello di come avviene e cosa può produrre l’incontro con Gesù.
In un ambiente e per una mentalità che considerava la malattia come «segno» e conseguenza del peccato (cfr. Gv 9,2), la guarigione istantanea della suocera di Pietro (vv. 30-31) acquista il significato evidente di una vittoria sul potere della morte e del peccato; è quindi una nuova rivelazione del potere divino di Gesù e della sua misericordia per i peccatori.
Marco oppone alla sinagoga, da cui Gesù è appena uscito, la casa di Pietro, immagine visibile della Chiesa, della comunità cristiana. Nella Chiesa il credente può sempre, e nuovamente, entrare in contatto con la potenza guaritrice di Gesù. La sua parola e i gesti sacramentali rendono sempre attuale la forza risanatrice della mano di Gesù.
Importanti sono anche gli altri due brevi segmenti del racconto: le guarigioni (vv. 32-34) e la preghiera di Gesù (vv. 35-38). La gente non ha potuto condurre a Gesù i malati durante il sabato, a motivo del riposo, ma a sera, quando il riposo è finito, quella piccola piazza davanti alla casa di Simone si riempie di poveri che chiedono guarigione e aiuto. È l’intera città che, secondo Marco, si raduna davanti alla porta, una città che si presenta con i suoi malati a testimoniare la drammaticità dell’esistenza quotidiana; è evidente l’intenzione polemica nei confronti di una concezione legalistica del sabato, per la quale un’istituzione che prefigura il riposo e la pace alla quale Dio chiama l’uomo impedisce ai malati di accostarsi a Gesù, l’inviato di Dio. La legge di Dio non può essere intesa come una oppressione che mantiene l’uomo nella sua miseria. Dio ha il volto di Gesù che va incontro a quell’umanità infelice.
Infine, la preghiera solitaria di Gesù, al mattino presto, richiama l’atteggiamento del pio israelita che, fedele all’insegnamento biblico, prolunga la sua preghiera tutta la notte (Sal 16,7-8; 134,1) e desidera essere in preghiera al sopraggiungere del nuovo giorno (Sal 57,9: «Svegliati, mio cuore, voglio svegliare l’aurora»). Nel contesto in cui Marco la rievoca, la preghiera di Gesù ha anche un chiaro valore di contestazione: mentre Pietro, e gli altri che lo cercano, vogliono mettere Gesù al servizio dei loro piani di gloria, Gesù ritrova ogni volta nella preghiera il vero orientamento della sua vita. Lo si vede dalla risposta che dà ai discepoli: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (v. 38), espressione, quest’ultima, che fa chiaramente riferimento alla missione che gli è stata affidata e alla quale deve obbedire. Sta qui una delle ragioni del fascino di questo brano: un Gesù sempre in attività, ma che si ferma per chi ha veramente bisogno di lui. Egli ha fretta, ma ha anche tempo per gli uomini. È l’urgenza del Regno, che vince la fretta dell’inquietudine, ma rende disponibili di fronte alle povertà del prossimo.
PREGHIERA - La tua giornata a Cafarnao, Gesù, ci mostra qual è l’anima segreta della tua missione. Tu non sei venuto a compiere un viaggio frettoloso in mezzo a noi, ma per condividere da vero fratello la nostra condizione di uomini segnati dalla fragilità, sottomessi al peccato, prigionieri della sofferenza, umiliati da fardelli troppo pesanti.
Tu sei venuto per strapparci a tutto ciò che deturpa e devasta la nostra esistenza e per farci assaporare la dignità e la grandezza di una nuova identità, quella di figli oggetto di una bontà e di una misericordia sconfinate, quella di fratelli chiamati alla generosità e al perdono.
Ecco perché nella dura lotta che ingaggi contro il male tu hai bisogno più che mai di tener costantemente desta la tua relazione con il Padre. È il suo amore, infatti, a muovere ogni tuo gesto, ad ispirare ogni tua parola. È il suo disegno di salvezza che tu vuoi portare a compimento. È il suo volto che desideri rivelare ad ognuno di noi.

330 - LA POSSESSIONE DIABOLICA

Per una pausa spirituale durante la IVª Settimana del Tempo ordinario

La possessione diabolica è una delle esperienze che vanno affrontate da più angolature. Di essa, in particolare, si sono interessate l’azione pastorale della Chiesa e, da un secolo a questa parte, pure le scienze umane, soprattutto la psicologia.
La possessione diabolica o demoniaca è il fenomeno per cui, in determinate culture e religioni, si ritiene che un organismo o uno spirito estraneo, definito come diavolo o, nella maggior parte dei casi, come demone possa prendere possesso del corpo di una persona vivente, legarsi alla sua anima e torturarla mentre è ancora in vita. La persona in questione viene definita indiavolata o indemoniata.
Il fenomeno della possessione affonda le sue radici nei testi sacri: nel Nuovo Testamento, ad esempio, vengono riportati degli episodi in cui Gesù Cristo affronta e libera alcuni indemoniati. Nella religione cattolica si assume l’idea che una persona
sia indemoniata quando:
• dimostra una forza fisica molto superiore alla sua normale capacità;
• parla lingue a lei sconosciute;
• dimostra avversione al sacro;
• passa da osservante della religione all’astensione totale;
• prevede eventi non ancora accaduti, o conosce cose che non dovrebbe conoscere.
Devono in ogni caso coesistere molti sintomi. Il maligno può impossessarsi di qualcuno attraverso tre vie principali: ferite emotive, peccato, attività occulte.
La possessione viene debellata negli ambienti religiosi mediante la pratica dell’esorcismo. A giudizio degli esorcisti, sono quattro le CAUSE per cui una persona può cadere nella possessione diabolica o in disturbi di origine malefica.
1.Può trattarsi di semplice permissione di Dio, allo scopo di dare alla persona un’occasione di purificazione e di meriti. L’hanno subìta santi come Angela da Foligno, Gemma Galgani, Giovanni Calabria. Altri sono stati vittime di disturbi malefici con percosse e cadute: Curato d’Ars e padre Pio.
2.La causa può essere data da un maleficio che si subisce: fattura, maledizione, malocchio.
3.Si espone al rischio di influenze malefiche o di possessione chi si rivolge a maghi, cartomanti, stregoni; chi partecipa a sedute spiritiche o a sette sataniche; chi si dedica all’occultismo e alla negromanzia.
4.Si può cadere in malefici per il persistere di colpe gravi e multiple. Don Gabriele Amorth, prete esorcista della diocesi di Roma, ha avuto casi di giovani dediti alla droga o colpevoli di delitti e perversioni sessuali.
Ma su quali SINTOMI ci si basa per procedere a un esorcismo? L’esorcista prende in considerazione anche le cartelle cliniche. Il sintomo più significativo è l’avversione al sacro, che si manifesta in tante forme:
1. ripugnanza alla preghiera e per tutto ciò che è benedetto, anche senza sapere che lo è;
2. reazioni violente e furiose in persona che di natura è tutt’altro, con bestemmie ed aggressioni;
3. sintomo culminante: reazioni furiose della persona se si prega su di lei o la si benedice.
A seconda della religione, l’esorcismo è praticato da un sacerdote o da un esponente o ministro della religione stessa, il quale, tramite una serie di scongiuri e preghiere, dovrebbe far sì che l’entità che tormenta la persona posseduta abbandoni il corpo della stessa. Il rituale può durare un tempo indeterminato, da alcuni giorni ad alcuni mesi o, in casi particolarissimi, anni.
L’ATTIVITÀ DI SATANA - L’opera del demonio si manifesta nelle seguenti gradazioni, in ordine crescente: tentazione, oppressione, vessazione, possessione diabolica. Queste attività possono avere vari gradi:
– Possessione di primo grado: Talvolta, misteriosamente, il demonio può invadere la psiche di un essere umano, prendendo il controllo del suo corpo e della sua intenzionalità. Il fenomeno dura finché non è annullato dall’esorcismo. In questo grado di possessione il demonio è latente, si limita ad alterare gli atteggiamenti del posseduto, le sue reazioni al sacro, gli istilla sentimenti di disperazione e depressione.
– Possessione di secondo grado: Questa possessione è più evidente: cambiamenti di voce, fenomeni preternaturali quali la glossolalia, la levitazione, la pirocinesi (potere di incendiare gli oggetti a distanza). In genere per ‘possessione diabolica’ si intende questa situazione intermedia.
– Possessione di terzo grado: A questo grado, lo spirito maligno ha preso un dominio tale della persona da alterare orribilmente persino i suoi tratti somatici (che divengono veramente raccapriccianti!), il suo odore, la temperatura. Questo è il caso più arduo; occorrono di solito numerosi esorcismi per la liberazione definitiva.
IL PUNTO DI VISTA RELIGIOSO - In tempi recenti la credenza nella possessione si è indebolita anche da parte degli stessi ambienti ecclesiastici, poiché è stato scoperto come molti presunti casi di ‘indemoniati’ debbano in realtà essere messi in relazione con malattie mentali, come la schizofrenia e alcune forme di psicosi. D’altra parte molte persone che richiedono aiuto agli esorcisti vengono da essi stessi riconosciute come bisognose non di cure spirituali, ma psichiche (vedi il libro di padre Gabriele Amorth, Confessioni di un Esorcista). Padre Gabriele Amorth afferma che una persona che pensi di essere posseduta, con ogni probabilità non è vittima del demonio ma di disturbi psichici, in quanto satana avrebbe anzitutto cura di nascondersi.
IL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO - È parere quasi comune che durante le presunte possessioni demoniache che sono state esaminate, nessuno scienziato o medico ha rilevato attività paranormali, mentre è sempre stato accertato che si trattava di malattie psichiatriche. Ciò, tuttavia, non esaurisce tutti i fenomeni. È importante notare che, nei casi di malattie mentali, il fenomeno si esprime secondo le regole della propria cultura, perciò si ritiene che l’interpretazione di esso come possessione sia solo la conseguenza della credenza religiosa.
Il fenomeno della possessione si ha quando l’entità disturbante prende totalmente il controllo dell’individuo, sostituendosi a lui nella mente e nel corpo. In tal caso, l’entità annulla la volontà dell’individuo e il corpo di questi diventa una sorta di burattino soggiogato dalla volontà dell’entità. In queste condizioni l’entità può far compiere al corpo del posseduto atti e azioni le quali, in circostanze normali, sarebbero impossibili: contorsioni muscolo-scheletriche estreme, manifestazione di conoscenze di lingue straniere o antichissime del quale il soggetto ignora l’esistenza, personalità multiple, forza sovraumana, telepatia, chiaroveggenza, telecinesi, psicocinesi, rigurgito di fluidi vitali (sangue) o di corpi estranei all’organismo (chiodi, pezzi di vetro, pezzi di metallo arrugginito, capelli, peli animali o umani, ecc).
Oggi, grazie soprattutto allo studio delle malattie mentali condotto con criteri scientifici, i casi di possessione sono molto più rari. Ci sono però alcune patologie molto vicine e collegate alla possessione. La prima è la schizofrenia. Il termine comprende attualmente un numero vario di sottotipi di disordini mentali, ognuno dei quali caratterizzato da sintomi e prognosi ben definiti e distinti. In generale, si tratta di un disordine psicotico che altera profondamente il comportamento e la cognizione, in particolar modo la modalità in cui prende forma il pensiero
In genere per tutti questi fenomeni esiste una spiegazione scientifica e razionale; tuttavia, ci sono dei casi davanti ai quali la scienza ufficiale si è dovuta fermare e farsi da parte. In questi casi, alla scienza è subentrata la religione che, nel corso degli anni, ha messo a punto un rituale specifico atto a scacciare i demoni che posseggono e controllano la persona. Questo rituale è conosciuto in tutte le religioni esistenti con il nome di ‘esorcismo’.
Di fronte al fenomeno della possessione diabolica occorre perciò procedere con molta oculatezza e discernimento. Da parte dell’approccio scientifico e di quello religioso serve non preclusione, ma inclusione. Una collaborazione oculata consente un miglior servizio per le persone afflitte da tali sofferenze.