sabato 31 marzo 2012

356 - VERAMENTE QUEST’UOMO ERA FIGLIO DI DIO - 01 Aprile 2012 – Domenica delle Palme

(Isaia 50,4-7 Filippesi 2,6-11 Marco 14,1-15.47)


Il racconto dellaPassione di Gesù, secondo Marco, è il più antico, il più realisticamente aderente allo svolgimento dei fatti. La linea essenziale del ripensamento dei giorni della passione di Gesù è l’esigenza di mostrare che l’amore del Padre per Gesù si manifesta nell’estremo abbandono, nel fallimento più totale del Figlio diletto. Questa raffigurazione di Gesù la vediamo nella preghiera nel Getsemani, quando egli geme e chiede a Dio che il calice sia allontanato. Marco riporta le parole con cui Gesù, sulla croce, invoca il Padre. L’umanità di Gesù qui viene presentata senza orpelli, nel suo smarrimento. Abbiamo bisogno di ritrovare proprio questo Gesù-uomo, in cui il fallimento di tutti mnoi è prefigurato, la morte di tutti noi è già vissuta e la negatività del mondo è spalancata in modo impietoso.



Il momento in cui l’uomo rivela se stesso è quando la sovrastruttura, all’improvviso, è gettata via, la Chiesa, i credenti, i non credenti: questo è il luogo in cui dobbiamo giudicarci. È qui che noi possiamo ritrovare anche la nostra comune umanità. Dire di aver fede è cosa facile, ma, se ci poniamo dinanzi alla morte, aver fede o non aver fede non è questione così chiara. La fede è veramente un atto di abbandono, senza appoggi, ad una misericordia di Dio che affermiamo. La linea delle verifiche storiche finisce col grido sulla croce: ciò che viene dopo è già manifestazione di fede.
La Passione di Gesù è un messaggio universale; qui c’è la rivelazione totale di che cosa è l’uomo. Quest’uomo, Gesù di Nazareth, è morto per amore. È nell’adempiere l’impegno dell’amore che l’uomo trova il versante stupendo di se stesso su cui batte la luce della promessa di Dio.



PREGHIERA - Ti acclamano come il Messia, l’atteso discendente di Davide, eppure tu sai bene che la tua vita non terminerà con un percorso trionfale, ma con una salita dolorosa verso il Calvario, luogo dell’esecuzione.Si attendono un segno di forza che rompa ogni dubbio, cancelli ogni equivoco e dichiari il tuo ruolo, la tua dignità. Ma tu sei pronto a percorrere un sentiero irto e difficile in cui apparirai soprattutto come il debole, il perdente, come lo sconfitto tolto di mezzo.


Ti dichiarano il loro entusiasmo con gesti solenni ricolmi di deferenza e di rispetto, ma ben presto saranno grida di morte a risuonare nelle tue orecchie e a percuotere il tuo animo. Tu accetti l’accoglienza festosa che ti viene riservata, ma nello stesso tempo sei pronto ad affrontare anche l’ingratitudine, l’abbandono da parte di tutti, la crudeltà che si scatena ingiustamente contro di te. Non fai nulla per incentivare sogni di gloria, illusioni di indipendenza: a dorso di un
asino ti riveli come un re mite, che condivide la sorte dei piccoli e dei poveri.

355 - IL CAMMINO PER INCONTRARE GESÙ (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante la Vª Settimana di Quaresima

Getsemani e trasfigurazione secondo Giovanni - Gesù conosce il grande effetto positivo della sua morte; eppure, in quanto uomo, ne teme anche la sofferenza. Infatti subito dopo l’evangelista Giovanni propone un frammento narrativo in cui riferisce l’angoscia che i sinottici mostrano in Gesù nel momento del Getsemani: «Adesso l’anima mia è turbata» (Gv 12,27). L’espressione sembra derivare da un salmo (cfr. Sal 6,3; 42,5.11) e con essa viene sinteticamente suggerito il travaglio della condizione umana del Cristo, che egli affrontò in modo coraggioso e deciso. Non chiese al Padre di essere salvato da quell’ora, dolorosa e decisiva; Giovanni insiste nel ribadire che Gesù è ben consapevole di essere giunto a quell’ora proprio per compiere il passo decisivo e perciò non si tira indietro. La sua preghiera contiene una formula giovannea, parallela a quella sinottica del Padre nostro: «Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,28a); cioè: mostra chi sei, fa’ vedere la tua potenza divina, rivela il tuo amore di Padre proprio nella concreta e dolorosa vicenda che sto affrontando.
Possiamo così riconoscere in questi brevi accenni una versione giovannea di importanti testi sinottici: l’angosciata preghiera nel Getsemani, l’esempio della preghiera di Gesù al Padre, nonché l’evento della trasfigurazione, a cui pare accennare il fatto straordinario della voce che viene dal cielo a conferma dell’opzione scelta da Gesù. «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv 12,28b): secondo il consueto vocabolario del quarto vangelo la rivelazione celeste di Dio Padre conferma che Gesù ha ragione e promette solennemente di mostrarlo con un intervento potente.
Questa voce dal cielo, pur essendo esclusiva del quarto vangelo, assomiglia molto nel messaggio che trasmette al racconto sinottico della trasfigurazione: il Padre fa conoscere, con un intervento mistico, la sua compiacenza nei confronti di Gesù e annuncia l’ingresso nella gloria divina come méta dell’oscuro viaggio della sofferenza. La folla ha percepito un fatto straordinario, ma non ha capito né parole né messaggio: l’evangelista, secondo il suo solito, propone alcune interpretazioni che circolavano fra la gente, per far capire ai suoi lettori l’errore di un giudizio superficiale ed esterno. Non è stato un tuono e nemmeno un angelo che gli ha parlato! La spiegazione giusta la sa l’evangelista, perché coincide con il punto di vista del Cristo stesso.
L’annuncio e l’interpretazione della croce - La conclusione stessa di Gesù interpreta quella voce dal cielo come finalizzata agli ascoltatori, ai quali mostra come nel mistero della croce si realizzi l’intronizzazione del vero re e contemporaneamente la sconfitta dell’impero demoniaco.
Riprendendo ciò che era stato detto a Nicodemo (cfr. Gv 3,14: l’abbiamo letto domenica scorsa!), Giovanni adopera una espressione ambigua per spiegare il senso autentico della croce di Cristo: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Come abbiamo già visto, il verbo innalzare o esaltare (in greco: hypsóō) ha due significati: può alludere alla salita al trono come vertice della carriera e massimo onore, ma può anche accennare alla morte in croce. Entrambi i significati sono corretti e devono essere integrati per comprendere l’evento culmine del Messia Gesù: egli infatti annuncia che il proprio destino sarà la croce (Gv 12,33), la quale però diventerà il suo trono, dal momento che l’innalzamento sulla croce coinciderà col raggiungimento della meta e con la realizzazione della propria missione. Se umanamente le due cose non possono stare assieme, invece nell’esperienza di Gesù i due eventi hanno coinciso. Egli è stato innalzato sul patibolo, ma in quel momento è asceso al trono ed ha assunto tutto il potere, perciò attira a sé tutto e tutti. La crocifissione coincide con l’intronizzazione del Re dell’universo e con il raduno degli eletti: «Regnavit a ligno Deus», come interpreta l’inno alla croce di Venanzio Fortunato.
Inoltre in tale evento si compie «il giudizio di questo mondo» (Gv 12,31). L’intronizzazione del Messia segna la sconfitta del potere demoniaco del male e della morte, personificato apocalitticamente nel «principe di questo mondo», l’arconte della struttura corrotta: non c’è posto per due re sul trono! Perciò la croce di Cristo, trono del vero re, con un’immagine apocalittica viene presentata come il momento e lo strumento che getta via dal potere le forze oscure.

354 - IL CAMMINO PER INCONTRARE GESÙ (prima parte)

Per una pausa spirituale durante la Vª Settimana di Quaresima

Il brano evangelico proposto dalla liturgia Ddi domenica ( Giovanni 12,20-33) appartiene ad una sezione di transizione del quarto vangelo. In Gv 11,55 viene annunciata la vicinanza della festa di Pasqua: è la terza volta che succede nel racconto di Giovanni e questa è la Pasqua decisiva, quella di Gesù. Con quel versetto dovrebbe iniziare l’ultima parte dell’opera; eppure il «libro dell’Ora» comincia propriamente col cap. 13, dove è ripreso il richiamo dell’imminente Pasqua (Gv 13,1). Possiamo quindi dire che la sezione Gv 11,55–12,50 costituisce un interludio di passaggio fra il «libro dei Segni» e il compimento pasquale: tale sezione narrativa è caratterizzata da brevi episodi e insegnamenti sulla dignità messianica di Gesù, terminando con due conclusioni teologiche, una pronunciata dall’evangelista (Gv 12,37-43) e l’altra da Gesù stesso (Gv 12,44-50). Il testo liturgico si colloca immediatamente dopo la cena di Betania (Gv 12,1-11), avvenuta sei giorni prima di Pasqua, e l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme (Gv 12,12-19), datato da Giovanni il giorno dopo. Siamo quindi nell’imminenza della festa pasquale in cui si compie il progetto divino.
I Greci vogliono vedere Gesù - Il ministero terreno di Gesù è ormai alla fine. Nonostante i grandi segni compiuti egli non è uscito da Israele e non si è fatto conoscere a tutto il mondo: la sua missione è rimasta circoscritta nello spazio, oltre che nel tempo. Mentre egli si trova a Gerusalemme per la festa di Pasqua, che sarà l’ultima e la definitiva, il narratore presenta alcuni stranieri, provenienti dal mondo ellenista, i quali vorrebbero conoscere Gesù (Gv 12,20-22). A fare da mediatori sono proprio due apostoli che portano nomi greci, Filippo e Andrea: essi riferiscono al Maestro il desiderio di questi pellegrini saliti a Gerusalemme per la festa. Nella loro richiesta è racchiuso in modo simbolico l’anelito di tutta l’umanità che, magari solo inconsciamente, aspira all’incontro con Colui che può salvare.
Ma Gesù risponde stranamente; il discorso riportato da Giovanni non sembra coerente alla questione che gli hanno posto i discepoli. Eppure, riflettendo con maggior attenzione, possiamo riconoscere un nesso importante e significativo. Gesù anzitutto annuncia che ormai la sua Ora è giunta (Gv 12,23): si tratta del momento culminante della sua glorificazione in quanto «Figlio dell’uomo». Con tale termine tipico del linguaggio apocalittico Gesù ha indicato se stesso come personaggio celeste e divino, appartenente ad una dimensione sovrumana: la formula oscura ed enigmatica serviva proprio per suscitare negli ascoltatori ricerca e desiderio di approfondimento. Secondo la teologia giovannea, inoltre, la gloria consiste nella manifestazione della presenza potente e operante di Dio: il Figlio viene glorificato nel momento in cui il Padre rivela la grandezza del suo amore, che è strettamente congiunto al dono della vita.
A tale rivelazione allude l’immagine parabolica del seme (Gv 12,24). Mancano in Giovanni le parabole sinottiche della crescita; ma è significativamente presente questo indizio del modo consueto di parlare proprio di Gesù. Con una intenzionale sfumatura allegorica il quarto evangelista identifica il chicco di grano con Gesù stesso e presenta l’efficacia della sua missione attraverso la dinamica del seme. Propriamente il seme non muore, quando è messo nel terreno; anzi è proprio in quel modo che prende vita e si moltiplica. Forzando l’immagine dunque, Giovanni parla di morte del seme, perché pensa alla morte di Gesù: eppure – dice – è avvenuto per lui proprio come per il chicco di grano.
Lo stesso principio regola anche la vita dei discepoli (Gv12,25): con una propria rielaborazione il quarto vangelo ripropone un lóghion sinottico ben attestato (cfr. Mt 16,25 // Mc 8,35// Lc 9,24), con cui il Maestro insegna che il modo per conservare la propria esistenza (il greco adopera il termine psychḗ =‘anima’) è odiarla e non amarla. Giovanni contrappone «questo mondo» alla «vita eterna», nel senso che distingue nettamente questa struttura corrotta del sistema terrestre e la vita pienamente realizzata grazie all’intervento divino. Accettare di morire a «questo mondo» costituisce la strada per ottenere la «vita eterna»: questo significa «servire Gesù» (Gv 12,26), perché comporta una concreta imitazione del suo stile esistenziale. Un tale servitore sarà insieme a Gesù, onorato da Dio Padre come il Figlio stesso.
Lì per lì restiamo un po’ sconcertati e ci domandiamo: che cosa c’entra questo discorso con la richiesta dei Greci? Di fatto Gesù non va incontro a quegli stranieri e non si fa conoscere da loro; sembra ignorare il loro desiderio. Perché? Che cosa ha voluto dire con la sua risposta? Ha voluto dire che l’apertura universale e l’incontro con ogni uomo sarà possibile al Cristo dopo l’evento della sua glorificazione, cioè dopo la sua morte e risurrezione. È questa l’Ora a cui tende tutta la vita di Gesù: questo è il compimento della sua missione. Solo con la morte egli può portare frutto: il frutto sarà la fede di tutte le genti e la loro comunione con Dio. Nel momento della gloria (cioè la sua morte e risurrezione) il Cristo entra nella potenza di Dio e può entrare nella vita di ogni uomo per trasformarlo dal di dentro. Chi è disposto ad accoglierlo, a seguirlo e a servirlo potrà incontrare Dio, anzi sarà accolto e onorato dal Padre che attende questo incontro dall’eternità.

sabato 24 marzo 2012

353 - VOGLIAMO VEDERE GESÙ - 25 Marzo 2012 – Vª Domenica di Quaresima

(Geremia 31,31-34 Ebrei 8,7-9 Giovanni 12,20-33)

L’attesa di ogni cristiano può essere sintetizzata nel desiderio di «vedere Gesù». Che significa però per un cristiano d’oggi questo desiderio di vedere Gesù? L’esperienza della fede non assicura una vita di successi e gratificazioni, poiché seguire lui significa accettare di confrontarsi con l’esperienza della croce. Croce può essere per noi l’impegno quotidiano di una testimonianza seria, può essere il servizio disinteressato al prossimo, può essere la sofferenza portata con dignità e speranza. Il chicco di grano, se non muore, non diventa spiga.
Oggi la nostra realtà è percorsa da inquietudine sociale, da malcontento vistoso, dall’attesa di qualcuno e di qualcosa non ben definito, ma profondamente sentito: questi dati indicano che nel cuore di molti c’è nostalgia amara di una nuova saggezza, di una nuova moralità della coscienza, di alleanza con qualcuno che non tradisce. Troppi ideali sono caduti, troppe speranze socio-politiche sono evanescenti per non aspettarci qualche sollievo storico; ma, nonostante le apparenze, non c’è nessun eroe pronto a darci questo sollievo. Per di più nessuno di noi, ormai, oggi, crede a siffatti eroi. Siamo disincantati. Ed ecco, allora, la parola di Dio, mai stanca di interpellarci, che ci dà ragione: non è di alleanze umane che abbiamo bisogno, ma dell’Alleanza che ci ha creato e salvato. Le leggi umane non bastano più; le norme esterne cadono, la legalità è incerta.
Dio ci offre la moralità autentica, quella che è scritta nel cuore e rende saggi dall’intimo dell’io. La nostra società, invece, è senza norma nell’animo; tende a scansare ogni obbedienza fin che può. Forse questo è anche il frutto di tanta autorità mal esercitata. Ma noi abbiamo bisogno di obbedire a Dio. Non obbedire a chiunque perché comanda: non iustum quia iussum, ma iussum quia iustum (non giusto perché comandato, ma comandato perché giusto). La parola di Dio ci conduce su questo percorso esigente, ma profondamente liberante.
Vivere, oggi, questi atteggiamenti può risultare drammatico per un cristiano perché il vento spinge totalmente all’opposto. Si perde la tranquillità, si entra come in una tempesta. Ma l’esperienza ci dice che quando una tempesta scuote la foresta è per portare più lontani i semi della vita … cioè la Chiesa, nell’accoglienza della diversità, se va al martirio è perché ritorna all’Evangelo. Sceglie la povertà di fronte agli ambigui privilegi che il potere, cosiddetto forte, vorrebbe offrirle, alzando la sua voce profetica, con franchezza, per dare la parola a chi questa parola è stata tolta con la violenza. Tutto, oggi, è scelto, giudicato e fatto nel segno dell’interesse. Per il cristiano no! Le idee valgono non per quello che rendono, ma per quello che costano. Infatti che senso avrebbe per noi andare incontro ad un Dio crocifisso se non per ricordarci che la nostra salvezza è costata cara a Dio: è costata la vita del Figlio. Per questo è per noi salvezza eterna.
PREGHIERA - Per questo tu sei venuto: perché quest’ora si compia e si realizzi il disegno d’amore che il Padre ti ha affidato.
È un’ora di tenebre, ma proprio in essa si manifesta una luce meravigliosa e la nostra storia viene rischiarata e trova un senso e una direzione.
È un’ora in cui il male, la violenza e la cattiveria sembrano prendere il sopravvento, eppure proprio attraverso di essa veniamo liberati da tutto ciò che attenta alla nostra felicità ed appare in piena luce la nostra dignità di figli.
È un’ora di dolore in cui l’innocente viene ingiustamente colpito, umiliato e calpestato, eppure proprio da essa sorge un’umanità nuova e nasciamo alla speranza.
È un’ora di morte, e di una morte atroce, preceduta da angoscia, tristezza e abbandono, eppure proprio da questo baratro sgorga una vita, una pienezza sconosciuta, una forza indicibile, che nulla potrà mai fermare.

venerdì 23 marzo 2012

352 - GESÙ E NICODEMO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante la IVª Settimana di Quaresima

DIO HA TANTO AMATO IL MONDO. Facendo un passo indietro, Gesù precisa questo piano di salvezza. Il Figlio dell’uomo è sceso dal cielo, perché Dio Padre ha regalato il Figlio per amore del mondo: il dono totale di sé è lo stile di Dio. Il dono del Figlio però non è orientato alla morte, bensì alla vita e alla vita eterna.
Secondo lo stile ripetitivo e insistente di Giovanni, lo stesso messaggio viene proposto con un’altra formula: l’obiettivo non è condannare il mondo, ma salvare il mondo. Notiamo però l’importanza di una forma diversa: «perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Tale sfumatura infatti sottolinea la responsabilità dei destinatari, perché la salvezza non è un fatto automatico, realizzato totalmente dall’intervento di Gesù. Il processo di salvezza è più complesso, profondo e vero: l’offerta chiede accoglienza. Al mondo, cioè all’umanità oggetto del grande amore divino, è offerta la possibilità di salvarsi: a tutti in genere e a ciascuno in particolare è data questa opportunità. Ma diventa effettiva ed efficace quando una persona l’accoglie con disponibilità a lasciarsi ri-generare.
Chi si fida di Gesù e si affida a lui supera il dramma del fallimento e della rovina, non viene condannato. Al contrario però chi rifiuta il dono di Dio, si condanna da solo, si mette fuori dalla possibilità di realizzare la propria vita. Non c’è da aspettare il giudizio finale – insegna Giovanni – ma gli effetti negativi della condanna si vedono già ora, per il semplice fatto di non aver creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Alla fine del capitolo 2 (finale del Vangelo letto domenica scorsa), l’evangelista aveva detto che a Gerusalemme molti «credettero nel suo nome»: cioè come capitò a Nicodemo, credettero in una idea che si erano fatta di lui. Non basta! È necessario accettare Gesù come la fonte stessa della vita, l’origine divina della propria salvezza. Credere «nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» significa riconoscere la divinità di Gesù, generato da Dio e capace di far rinascere ogni uomo.
IL GIUDIZIO TRA LUCE E TENEBRE. All’inizio dell’episodio si era detto che Nicodemo andò dal Maestro di notte, senza spiegarne però il motivo: ora ritorna il tema della tenebra e l’annuncio della luce. Infatti Gesù si presenta come luce venuta nel mondo, per illuminare l’umanità; ma amaramente deve constatare che «gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce». Leopardi scelse questo versetto come epigrafe della sua ultima grande poesia, La Ginestra, piena di delusione per lo stato dell’umanità, che pur illudendosi di progredire, in realtà resta sempre negativa.
In Giovanni non c’è un simile tono deluso, ma piuttosto la denuncia di un pericolo effettivo che blocca l’efficacia della salvezza portata dal Cristo.
La luce dà fastidio a chi opera il male; al buio si ruba meglio. Le opere malvagie fanno preferire le tenebre: far luce infatti significa riconoscere che c’è dello sporco, ammettere che c’è del marcio. Purtroppo è facile cedere alla tentazione di coprire e nascondere, chiudere gli occhi per non vedere il male che c’è, facendo finta che non ci sia. Riconoscere il male infatti comporta una responsabilità e un impegno: vedere lo sporco induce poi a lavorare per pulire. Sembra più comodo e più utile non far luce.
Gesù, come luce, è entrato nella nostra vita e la sua presenza ci fa vedere lo sporco. Di fronte a lui ci accorgiamo di essere imperfetti e pieni di difetti; illuminati da lui, riconosciamo lo sporco che c’è dentro di noi. Un’apparenza di religiosità ci dà l’impressione di essere santi, mentre quella luce che penetra in profondità nelle recondite stanze del nostro cuore fa emergere una realtà radicata di peccato. Rifiutare Gesù significa preferire il buio e continuare a illudersi di sembrare buoni; lasciarlo entrare come luce, al contrario, fa prendere coscienza della propria corruzione. A questo punto però l’onere della pulizia non è nostro: la bella notizia sta nel fatto che la luce è venuta nel mondo non solo per far conoscere il peccato, ma soprattutto per toglierlo. ‘Rinascere’ equivale a venire alla luce: anche nel nostro modo di parlare questa immagine indica la nascita. L’atto di fede in Gesù come Figlio di Dio è quindi disponibilità a fidarsi di lui perché compia l’opera del nostro rinnovamento, ovvero ci faccia ri-nascere. Umanamente non si può, osservava Nicodemo. Ma Gesù non chiede uno sforzo umano, annuncia bensì un dono divino!
Il giudizio avviene ora e dipende dalla tua disponibilità. La luce è entrata nella tua vita, ma se tu ami le tue abitudini e il tuo schema mentale, il tuo carattere e i tuoi vizi, riconosci che quella luce ti dà fastidio e chiudi di nuovo la finestra, preferendo il buio. E l’ultimo versetto, anche se complesso, chiarisce il senso del discorso: «Ma chi fa la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21). Che cosa vuol dire «fare la verità»? È molto di più che essere coerenti. Secondo Giovanni, la verità è Gesù in persona, in quanto ‘rivelazione’ di Dio e della sua opera salvifica. Fare la verità dunque significa vivere la potenza data da Gesù. Se uno viene alla luce e nasce ex novo, allora appare chiaramente che la sua vita dipende da Dio, rivela così di essere stato generato da Dio per opera dell’unigenito Figlio di Dio.
Il discorso finisce senza che finisca il racconto dell’incontro con Nicodemo. Avrà capito il messaggio di Gesù? Come avrà reagito? Al momento l’evangelista non dice nulla, per lasciare che sia l’ascoltatore stesso a mettersi nei suoi panni e trarre le proprie conclusioni.

351 - GESÙ E NICODEMO (prima parte)

Per una pausa spirituale durante la IVª Settimana di Quaresima

L’episodio di Nicodemo (Giovanni 3,1-21) occupa un ruolo significativo nel quarto vangelo. Si inserisce nella prima sezione, da Cana a Cana, che intende mostrare come l’opera di Gesù, con la novità della propria persona, porti a compimento le istituzioni giudaiche. Dopo il tema dell’alleanza e del tempio, nel dialogo con Nicodemo si parla di una nuova nascita nello Spirito, insegnando che la grazia realizza la legge. Il vangelo della quarta domenica di quaresima però sceglie solo il finale del brano giovanneo (Gv 3,14-21), quando al dialogo segue il monologo. A partire dal v. 13 cambia infatti il tono e Gesù si rivela come il Messia innalzato. Non è assolutamente sufficiente considerarlo maestro, come ha fatto rispettosamente il vecchio fariseo: è necessario credere in lui come il Figlio unigenito innalzato. Non basta infatti una osservanza formale, bisogna cambiare il cuore e ciò avviene grazie all’intervento di Dio creatore. Questo è il grande annuncio evangelico: l’opera di Gesù non consiste in nuove regole o nella riforma di una struttura religiosa, ma comporta la trasformazione del cuore, che è un evento personale capace di toccare in profondità l’essere di ciascuno. Solo rinascendo, cioè lasciandosi guidare dallo Spirito, si può accogliere il Cristo come la pienezza della propria esistenza.
BISOGNA CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO. L’unico modo per rinascere è partecipare alla morte di Cristo. Prima ha parlato di nascita, adesso Gesù parla di morte, della propria morte che diviene però causa della nascita nuova per chi crede. Quella è la trasformazione che permette la vita. L’unico che può salire al cielo è colui che è sceso per comunicare agli altri la vita eterna. «Bisogna» (in greco: dêi) indica una necessità divina: questo è il progetto di Dio e certamente si compirà.
L’immagine del serpente innalzato nel deserto da Mosè fa riferimento a un noto episodio narrato nel libro dei Numeri (21,8-9) e ambientato durante il cammino di Israele nel deserto. Il popolo, aggredito da serpenti velenosi, moriva; come rimedio il Signore propose a Mosè di costruire un serpente di bronzo che, messo in cima ad un bastone, attirasse gli sguardi e così permettesse la guarigione. Si tratta di un particolare narrativo arcaico e strano. Il serpente innalzato nel deserto è un segno di capovolgimento della situazione: guardando la causa della rovina, quel veleno non fa più morire; proprio di là da dove veniva la morte, può venire la vita; ciò che faceva morire ora invece fa vivere. Gesù interpreta tale immagine e la applica a sé: «Così bisogna che avvenga anche a me!».
L’espressione «Figlio dell’uomo» è tecnica e proviene dal linguaggio apocalittico di Daniele (cfr. Dn 7,13-14): contrariamente a quel che potrebbe sembrare, significa un «personaggio divino», un «essere celeste». Risulta evidente da tutta la tradizione evangelica che tale terminologia fu tipica del Gesù storico, il quale se ne servì per qualificare la propria persona come essere celeste e trascendente, che viene da altrove. Gesù non si presenta mai come il Messia, bensì con la formula «Figlio dell’uomo»; adoperandola secondo un procedimento giudaico per dire «il sottoscritto», egli allude al mistero della propria persona, invitando gli ascoltatori a ricercarne in profondità il significato. Inoltre il verbo innalzare o esaltare (in greco: hypsóō) è ambiguo, avendo un doppio significato: intenzionalmente Giovanni gioca sul doppio senso. Una persona viene innalzata se riceve onore, fa carriera, sale al trono: perciò «innalzare il Figlio dell’uomo» vuol dire intronizzarlo, farlo diventare re. Ma, capovolgendo l’immagine, innalzare vuole anche dire appendere al palo, ammazzare sulla croce. Quale dei due è il significato giusto? Nella prospettiva giovannea entrambi sono corretti e devono essere integrati, non contrapposti. Gesù annuncia che il proprio destino sarà la croce, la quale però diventerà il suo trono, dal momento che il Cristo regnerà dalla croce. L’innalzamento sulla croce coincide con l’esaltazione celeste: nel momento della morte comincerà la salita che arriverà nel più alto dei cieli, raggiungendo la meta e realizzando il fine della propria missione. Il fine è comunicare la «vita eterna».
Quando diciamo vita eterna, rischiamo di pensare solo all’altro mondo, all’esistenza nell’al di là. Invece i teologi cristiani hanno adoperato questa formula per designare la vita piena e divina, la vita nella massima realizzazione delle sue potenzialità; indica inoltre una realtà attuale fin da ora, grazie all’opera di Dio che ha creato una buona relazione con sé. Proviamo a sostituire eterno con altri aggettivi che esprimono bellezza, pienezza, bontà: l’obiettivo di Dio è che gli uomini vivano una vita piena, bella, realizzata, completa e soddisfacente. Questo può ottenerlo chiunque crede in Gesù; solo chi si fida di lui e si affida a lui, può rinascere e quindi salire con lui.

sabato 17 marzo 2012

350 - LA LUCE È VENUTA NEL MONDO - 18 Marzo 2012 – IVª Domenica di Quaresima

(2° Cronache 36,14-16.19-23 Efesini 2,4-10 Giovanni 3,14-21)

L’incontro di Gesù con Nicodemo ci rassicura: Dio ha mandato Gesù, il Figlio, perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Come Nicodemo, anche noi siamo invitati a mettere da parte le nostre false immagini di Dio, ad esempio del Dio castigatore o causa della nostra infelicità. La volontà di Dio nei nostri confronti è soltanto volontà della nostra salvezza. Ma nel Vangelo di oggi, il momento in cui, secondo la nostra fede, l’amore di Dio si è manifestato al mondo, è un momento dove la nostra osservazione constata il contrario. La crocifissione di un uomo abbandonato da tutti, persino dagli amici, con il trionfo delle istituzioni religiose e politiche inique, è un segno dell’assenza di Dio. Alcuni, sotto la croce, dicevano: «Invochi il suo Dio, che lo salvi». E Gesù stesso, invece disse: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato». Eccoci di fronte al paradosso cristiano: da una parte noi affermiamo che il principio di tutte le cose è l’amore di Dio per il mondo, dall’altra questo amore è rivelato proprio là dove tutte le categorie dell’intelletto umano sono portate a constatare l’assenza dell’amore. Tenendo uniti questi due estremi, è possibile entrare in una intelligenza di fede che è un’intelligenza nell’oscuro; noi possiamo facilmente immaginare un padre di famiglia che dica: «Davvero il Signore ci ha voluto bene, non ci manca niente». Considerare un puro segno dell’amore di Dio le cose che vanno bene è uno stabilire, fra la nostra esperienza e l’amore di Dio, un rapporto di immediatezza, che è spezzato dalla croce di Gesù Cristo. E non si può partire dall’eventuale benessere della famiglia per risalire all’amore di Dio e ringraziarlo.
Ecco perché il nostro tempo ci chiama a ripulire la fede dalle ideologie di comodo, alla lezione che ci viene da un brano forte della Scrittura di oggi. Immaginate un ebreo seduto lungo i fiumi di Babilonia, schiavo, a parlare dell’amore di Dio! Eppure, in quella schiavitù e in quella abiezione c’era l’amore di Dio. Ma un amore di Dio che non andava secondo le aspettative del popolo quando era nel suo benessere.
Quel che conta non è che le cose vadano bene, ma che si viva la fedeltà alla legge dell’amore. Gesù, sulla croce, è una manifestazione dell’amore di Dio perché è un uomo che ha dato la sua vita per gli altri, fino ad annientare se stesso. Questa è la fedeltà all’amore. E noi possiamo riferirci all’amore di Dio, con gioia, solo nella misura in cui viviamo in questa fedeltà ad un progetto di esistenza la cui legge non sia il prestigio, la competizione vittoriosa con gli altri, ma sia la logica dell’amore.
Dio opera uno stratagemma di incredibile forza: proprio perché amava il suo popolo lo lascia in preda agli avversari. Tutto viene distrutto. Questo esilio è amore di Dio per il suo popolo. Questo modo di procedere di Dio è assolutamente contrario alle nostre strategie della Provvidenza. In questo crollo di una sicurezza storica è riflessa la stessa legge di salvezza. Se noi ci caliamo nella realtà contemporanea, ci accorgiamo che tutte le nostre sicurezze sono messe allo sbaraglio. L’Europa è un continente vecchio e senza speranza; siamo chiamati a scegliere le vie degli umili, scegliendo, cioè, la logica dell’amore, la logica della solidarietà con gli ultimi. L’importante è scegliere la fedeltà ad un amore che porti alla rinuncia a se stessi; a noi è chiesto di amare dimenticando noi stessi, dobbiamo assumerci, in pieno, il rischio di vivere secondo la legge dell’amore.
Dio è geloso dell’ultimo degli uomini. Il suo occhio è fisso su tutti gli abietti di questo mondo. Per questo credo nell’amore di Dio, perché mi mette in crisi e mi obbliga a vivere con respiro universale per farmi solidale con l’ultimo degli uomini nell’ombra della croce del Calvario, unico luogo di lettura del suo amore che afferra, costantemente, gli ultimi degli uomini per sollevarli perché proclamino la fine di ogni inno alla potenza.
PREGHIERA - Tu verrai innalzato, Gesù, ma non su un trono per esercitare la forza e piegare tutti alla tua volontà. È sulla croce che terminerà la tua esistenza terrena, su un patibolo inventato per umiliare i vinti, i sottomessi con una morte atroce. Eppure, paradossalmente, proprio accogliendo un Messia condannato, ingiuriato e straziato, gli uomini e le donne di ogni tempo troveranno misericordia e vita.
Tu verrai fermato, Gesù, inchiodato crudelmente ad un legno,nell’illusione di metterti a tacere, una volta per tutte. Eppure proprio quando il male sembrerà vittorioso tu manifesterai il potere dell’amore, un potere che si esprime col dono totale di sé. Davanti a te, in ogni caso, ognuno è chiamato a prendere posizione e noi tocchiamo con mano il mistero del rifiuto, legato alla nostra libertà.
Sei tu la luce del mondo: luce che non ferisce, ma rischiara, luce che non colpisce, ma porta fiducia. E tuttavia le tenebre non possono sopportarla perché essa le smaschera.

giovedì 15 marzo 2012

349 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Settima giornata: IL DECALOGO OGGI

Il Decalogo può essere definito la «costituzione di ogni uomo»; potremmo chiamarlo la «prima carta dei diritti e doveri dell’uomo» che la Bibbia ci ha insegnato. L’uomo, ogni uomo, e la creazione stessa sono difesi molto di più se gli uomini si sentono moralmente responsabili di tutti e di tutto di fronte a Dio.
Anche il mondo contemporaneo, con tutti i suoi manifesti sui diritti e doveri dell’uomo, è chiamato a riscoprire Dio creatore, l’unica vera sorgente della comune responsabilità per una promozione dell’intera famiglia umana nella giustizia e nella pace.
Per altro una visione puramente umana dei diritti può dare adito a risvolti bellicosi (N. Bobbio con «L’età dei diritti» ha giustificato la guerra, mentre Giovanni Paolo II, con il riferimento al V comandamento «non uccidere», afferma che la guerra, ogni guerra, è un’avventura senza ritorno).
1. “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio di fronte a Me” - Te solo io desidero, Signore: nessun idolo si frapponga tra Te e me: non l’idolo del mio io, sordo e cieco, né l’idolo della ricchezza e del prestigio; ma Te, unicamente Te, io riconosca veramente degno di essere servito, amato, adorato.
2. “Non nominare il nome di Dio invano” - Purifica, Signore, il mio cuore e le mie labbra perché mai mi accada di nominarti senza rispetto e venerazione. Mai, con un’indegna condotta di figlio, io disonori il tuo santo Nome di Padre che il Figlio tuo unigenito ha rivelato e glorificato con l’obbedienza fino alla croce.
3. “Ricordati di santificare le feste” - Tuo è il tempo, o Eterno Creatore: tutta la mia esistenza scorra nell’unico giorno che Cristo, sorgendo da morte, ha dischiuso sul capo del genere umano. E il ricordo dei tuoi benefici sia la dolce festa di tutta la mia vita.
4. “Onora tuo padre e tua madre” - Ogni paternità e maternità da te proviene, o Dio, fonte e pienezza della vita: infondi in me profonda venerazione e gratitudine verso chiunque, con santo timore e umiltà, partecipa della potenza generatrice del tuo amore.
5. “Non uccidere” - Nessun fomite di violenza, Signore, si insinui nei miei pensieri, nei miei sentimenti, nelle mie azioni verso gli uomini miei fratelli. Vedendo in essi la tua stessa immagine, fa che li tratti con somma riverenza, qualunque sia il loro colore e la loro condizione. Se li ucciderò anche soltanto nel mio cuore con il rifiuto o con l’indifferenza, il grido della loro angoscia giungerà al tuo volto, e un infinito dolore darò al tuo cuore di Padre, che mi vedrà più morto di quelli che avrò ucciso, un infinito dolore per la grandezza del mio peccato!
6. “Non commettere atti impuri” - Di questo comando oggi ci si stupisce: perché non lasciare libero sfogo alla nostra natura? Non si può dimenticare che la malizia ha corrotto il cuore umano, che l’amore è degenerato in concupiscenza, la gratuita in egoismo possessivo.
7. “Non rubare” - Signore, che io non rubi la tua gloria vantandomi di ciò che non è merito mio; che non sottragga ai miei fratelli quanto hai loro concesso per la vita fisica e morale: la stima, la libertà, il pane, la salute, … che io goda più del loro bene che del mio, perché, avendo te, nulla mi manca.
8. “Non dire falsa testimonianza” - Tutta la mia condotta di vita sia tale da riflettere la tua giustizia e la tua misericordia, Signore. Mai la menzogna o l’ambiguità oscurino lo specchio della mia coscienza.
9. “Non desiderare la donna o l’uomo del tuo prossimo” - Il mio cuore sia semplice e puro affinché anche il mio sguardo si posi su ogni creatura senza contaminarla. Tutto io vedo nella tua luce, Signore, nel vergine candore della tua bellezza.
10. “Non desiderare le cose d’altri” - Preservami, Signore, dalla cupidigia, dalla brama di possedere e di godere, dall’invidia per i beni del mio prossimo. Il mio cuore sia davvero trasferito la dove è il mio tesoro: Tu, sommo Bene, nostra eterna Beatitudine.

348 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Sesta giornata: IL DECALOGO – Meditazione

Forse per il nostro tempo la pagina biblica del decalogo è una delle più necessarie perché ci mostra quello che dobbiamo fare, e la priorità con cui dobbiamo agire, cioè dare il dovuto peso e la dovuta importanza ai tre primi comandamenti, che sono i più esposti alla critica e agli attacchi del mondo e più facili da tralasciarsi, trascurandoli o dimenticandoli magari per accentuare qualsiasi altro dei precetti divini. Il ritorno a Dio, alla vera fede, alla preghiera, al rapporto con Dio è oggi quanto mai necessario. Il mondo paganizzato dimentica Dio e il suo servizio: noi dobbiamo rivivere queste grandi verità della nostra fede, ricordata dai comandamenti di Dio. Ascoltiamo alcuni dei pensieri di Papa Giovanni Paolo II espressi nella sua allocuzione nel monastero di S. Caterina del Sinai, il 26 febbraio 2000: “ I dieci comandamenti non sono l’imposizione arbitraria di un Signore tirannico. Essi sono stati scritti nella pietra, ma innanzitutto furono scritti nel cuore dell’uomo come legge morale universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo. Oggi come sempre, le Dieci parole della Legge forniscono l’unica base autentica per la vita degli individui, delle società e delle nazioni. Oggi come sempre, esse sono l’unico futuro della famiglia umana. Salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna. Evidenziano tutte le false divinità che lo riducono in schiavitù: l’amore di sé fino all’esclusione di Dio, l’avidità del potere e di piacere che sovverte l’ordine della giustizia e degrada la nostra dignità umana e quella del nostro prossimo […]. Osservare i comandamenti significa essere fedeli a Dio, ma significa anche essere fedeli a noi stessi, alla nostra autentica natura e alle nostre più profonde aspirazioni. Il vento che ancora oggi soffia dal Sinai ci ricorda che Dio desidera essere onorato nelle sue creature e nella loro crescita: Gloria Dei vivens homo (La gloria di Dio è l’uomo vivente) … “
Sembrerà sorprendente ma è un fatto: l’Esodo non chiama mai il decalogo ‘legge’ o il contenuto del decalogo ‘comandamenti’. Questo elenco di impegni è chiamato, dall’autore biblico, le “dieci parole”. Questa non è una curiosità linguistica, ma rivela la giusta prospettiva per comprendere il decalogo. Sono le dieci condizioni o clausole per vivere nella libertà l’esodo. Il popolo si è lasciato alle spalle il paese della schiavitù e della paura, l’Egitto; si è fidato di Dio e ha iniziato il cammino nella libertà, guidato e protetto dal Signore che lo ha tratto fuori dall’oppressione. Ma la meta del cammino nella libertà è quel ‘santuario’ che per Israele è stato il deserto del Sinai; là viene consolidata la libertà mediante un atto di amicizia tra Dio e il suo popolo. Non si può essere liberi senza una méta e uno scopo, altrimenti si ritorna agli antichi padroni. Si può essere liberi solo insieme agli altri, camminando con il Signore che ci chiama. Così il popolo liberato dall’Egitto arriva all’appuntamento con il Signore nel deserto del Sinai, ai piedi della montagna santa. Agli uomini liberati, il Signore fa la sua proposta di amicizia: “Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra”. La proposta di Dio può essere accolta solo liberamente, poiché egli propone un patto di amicizia e l’amicizia non si può imporre. “Tutto il popolo rispose e disse: Quanto il Signore ha detto noi lo faremo!”

347 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Quinta giornata: IL DECALOGO NEL NUOVO TESTAMENTO

Cristo si pone nella più genuina tradizione veterotestamentaria quando rimanda il ricco, che gli aveva domandato che cosa bisognasse fare per entrare nella vita eterna, all’osservanza dei comandamenti (cf Matteo 19,16-19) e quando risponde alla questione quale fosse il primo e più grande comandamento citando il passo del Deuteronomio sull’amore totale ed esclusivo di Dio e il testo del Levitico sull’amore del prossimo (cf Mt 12,28-34). Secondo il primo Vangelo Gesù è l’interprete ultimo e definitivo della legge, cioè delle esigenze di Dio nei confronti della comunità cristiana, nuovo popolo, succeduto all’antico, dei salvati da Cristo (cf Mt 5,17-18). E come tale indica nell’amore di Dio e del prossimo la concentrazione di tutti i comandamenti (cf Mt 7,12;22,40). La novità vera, però, sta nella persona di Gesù. L’esigenza fondamentale per il credente e la comunità cristiana è ormai l’adesione di fede a Cristo e la sua sequela: “seguimi e lascia che i morti seppelliscano i morti” (Mt 8,22), “se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni, e seguimi” (Mt 19,21); “chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro a me non è degno di me. Chi ha trovato la sua vita la perderà; e chi ha perduto la sua vita per me, la troverà” (Mt 10,37-39); “io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8,12).
Paolo nelle lettere ai Galati e ai Romani proclama la liberazione dalla legge, e dunque anche dai comandamenti del decalogo, e la libertà dei figli di Dio, che sono ormai guidati non da prescrizioni, ma dal soffio dello Spirito, che è la nuova legge scritta nei cuori, preannunciata da Geremia ed Ezechiele. L’esigenza divina non è più fatta valere soltanto dall’esterno, ma connaturata per grazia nel cuore del credente, dotato di un nuovo dinamismo, quello dello spirito, per poter obbedire al Signore. “La legge che è lo Spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Ciò che era impossibile alla legge, debole a motivo della carne, Dio lo compì mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, e condannò il peccato nella carne, affinché si adempisse la giustizia della legge in noi, che ci comportiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito”. (Rm 8,2-4)
Importantissimo documento nella storia della fede, il Decalogo non è tuttavia il fondamento cristiano della morale: decisivo per noi è la persona di Gesù e l’evento della sua Pasqua. Egli non ha né cancellato né cambiato i comandamenti, ma li ha realizzati, comunicando ad ogni persona la possibilità di raggiungere una matura e buona relazione con Dio. Perciò l’incontro con lui è decisivo.
PREGHIERA - O Signore e Padre nostro, che nel Sinai hai rivelato il tuo nome e ci hai dato la tua legge come lampada ai nostri passi, ascolta la preghiera che ti rivolgiamo, e fà che noi come Mosè e il popolo di Israele, radunati davanti a Te, possiamo accogliere la tua parola eterna che oggi si centra nei Dieci comandamenti, legge di vita, di libertà e di rispetto per tutti gli uomini.
Fa che nell’osservanza di questi comandamenti possiamo dare quell’importanza e ossequio spirituale ai primi tre che ci parlano direttamente di Te, perché l’atmosfera del nostro mondo incredulo li ignora e cerca di annientarli. Donaci un grande senso di Te, come Dio onnipotente e Padre misericordioso, una spontanea volontà di adorarti, di servirti, di mantenerci fedeli alla tua legge e ai tuoi disegni di salvezza. Donaci anche, o Signore, la grazia di diventare terra buona, senza pietre e senza spine, che possa accogliere la Parola divina di tuo Figlio Gesù, nuovo Mosè, che ha istituito un’alleanza nuova e ci ha dato una legge nuova, quella che si rinchiude in solo comandamento: Amarci vicendevolmente e amare Te.
Tu, o Padre, ci hai detto, parlando di tuo Figlio Gesù: “Ascoltatelo!”. Si, che lo possiamo ascoltare con fede viva, con amore crescente, con speranza sicura: perché lui è la Via, la Verità e la Vita.

346 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Quarta giornata: IL DECALOGO E L’ALLEANZA

Nel contesto dell’alleanza, il decalogo è come una categoria di relazione interumana, adottata dalla teologia biblica per definire il popolo di Dio. In questo contesto il decalogo è la norma dalla quale il popolo di Dio si lascia guidare, l’alveo attraverso il quale esso risponde all’impegno di essere quello che è e di divenire quello che dev’essere. Il legame del decalogo col precedente racconto della teofania nel libro dell’Esodo è letteralmente artificioso, ma non è artificiale in quanto al senso. Esso, infatti, rappresenta il contenuto di quello che si è verificato nella comunicazione stabilita dalla teofania: sono le parole dell’alleanza che Israele deve osservare per essere un “popolo consacrato” e una “proprietà scelta”.
Nello schema dei patti interumani il decalogo corrisponde alle stipulazioni o alle clausole che regolano la relazione che si cerca di creare; e in questa stessa prospettiva si collocano tutti i successivi codici di leggi. Il decalogo è un sommario di dieci precetti assoluti, sicuramente il più antico fra i codici biblici. La sua origine risale certamente ai tempi di Mosè e quindi può essere chiamato giustamente decalogo mosaico. La sua forma originale era diversa dalle due che abbiamo nella Bibbia: certamente, in esso, tutti i precetti erano dati in una forma assai breve sul tipo di “Non uccidere”. Le due versioni conservate presentano divergenze appunto nelle spiegazioni e nelle motivazioni che, col tempo, furono unite ad alcuni precetti. Per le ampliazioni riguardo al sabato, sappiamo che la versione attuale è di redazione sacerdotale, poiché invoca come motivo e fondamento della sua osservanza il riposo di Dio secondo Genesi 2,1-3. L’altra versione, che si trova in Dt 5,6-21, è deuteronomica. Il decalogo non è chiamato legge, ma “parole”, che sono rivelazione di Dio e sua comunicazione con coloro che già lo conoscono. Il suo scopo è prolungare, perpetuare la relazione creata fin dall’inizio, che è la salvezza dalla schiavitù. Il prologo del decalogo spiega di che ordine sia la relazione: quella del salvatore con i salvati. La storia a cui si accenna, l’esodo, è anteriore al decalogo e a tutta la legge, e spiega come Dio indirizzi la sua parola ai salvati e tracci loro una via da percorrere.
Il decalogo contiene due ordini di precetti: quelli che definiscono il giusto atteggiamento davanti a Dio e quelli che regolano il comportamento col prossimo; ma questa dualità è solo convenzionale. I due ordini sono ugualmente perentori e formano un tutto indivisibile: non si osserva l’uno se non si osserva ugualmente anche l’altro. Nel primo ordine si esige che si riconosca come Dio l’unico che si è rivelato come salvatore; e questo esclude la divinizzazione di falsi assoluti e le rappresentazioni create del Dio trascendente. Quindi, proibisce l’uso vano del suo nome e comanda di ricordarlo nella festa come creatore e salvatore. Nel secondo ordine si esige l’onore e il rispetto per la persona, cominciando da quelle che sono più vicine fin dalla nascita, la famiglia, fino ad includere la grande famiglia umana. È proibito ogni danno alla persona e ai suoi beni anche con la sola intenzione.
La forma negativa, indizio dell’antichità del decalogo, sembra rendere troppo elementari i suoi precetti; ma essi, in realtà, impegnano tutta la persona, poiché più che atti esigono atteggiamenti. Tradotti in altro linguaggio dallo stesso popolo biblico, essi esigono l’amore a Dio e al prossimo come se stesso. Questi precetti si svilupperanno in codici prolissi, che cercheranno di abbracciare e regolare l’intera esistenza; ma tutti insieme non avranno parole sufficienti per esprimere quello che esige l’amore. Chi lo può soddisfare pienamente? Orbene, l’amore effettivo a Dio e al prossimo costituisce il popolo di Dio: è la legge dell’alleanza. Secondo il detto di Gesù, sono riassunti in questi precetti tutta la legge e i profeti.
La formulazione negativa, quindi, non è da biasimare, perché ha il pregio di essere più universale, meno limitante e più precisa. Però in mezzo ai precetti negativi, troviamo solo due comandi positivi: sono quelli centrali, che costituiscono un prezioso legame fra il primo e il secondo blocco. La prima serie precisa la relazione di Israele con il suo Dio e inizia con la formula tipica del trattato di vassallaggio: «Io sono YHWH tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». La presentazione del Signore è accompagnata dalla motivazione storica che fonda il diritto: proprio dal fatto che YHWH ha liberato Israele deriva, come conseguenza, l’impegno del popolo ad assumere certi atteggiamenti. Infatti le clausole dell’alleanza non sono nell’originale ebraico all’imperativo, ma all’indicativo futuro: significa che il comportamento dell’uomo è conseguenza di ciò che ha già fatto Dio per lui. La seconda parte del Decalogo prevede poi le relazioni con il prossimo, divenendo anch’esse effetto della relazione con Dio stesso.
Al centro della serie troviamo i due precetti positivi, che risultano decisivi. «Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo»: questo è un imperativo e comanda come fondamentale il ricordo degli interventi salvifici di Dio, in modo che ogni padre diventi concretamente un liberatore nei confronti di chi dipende da lui, sul modello del Dio liberatore. L’altro imperativo positivo è complementare e rivolto ai figli («Onora tuo padre e tua madre»): esprime la necessità di dare peso alla tradizione, rappresentata dai genitori, in quanto testimonianza della storia di salvezza che ha preceduto ciascuno di noi.

345 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Terza giornata: IL DECALOGO – Storia (seconda parte)

Dai rilievi formali, riportati nella prima parte della nostra riflessione (cfr. seconda giornata), si conclude che la forma positiva e la formulazione diffusa e analitica sono state il risultato di elaborazioni e attualizzazioni successive di un decalogo più antico, espresso uniformemente in una serie di proibizioni assolute, incondizionate, brevissime, dello stesso stampo per esempio del comandamento “ Non uccidere”. Da parte di molti studiosi non si esita a far risalire tale decalogo ricostruito al tempo mosaico o almeno all’epoca della prima sedentarizzazione di Israele nella terra (dunque nel secolo XIII o XII). Non si sarebbe lontani dal vero se si pensasse ad una formulazione del decalogo originario come la seguente:
· Non adorerai altro Dio
· Non ti farai immagine alcuna di Dio
· Non nominerai il nome di Dio in vano
· Non lavorerai di sabato
· Non maledirai tuo padre e tua madre
· Non ucciderai
· Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo
· Non sequestrerai il tuo prossimo
· Non testimonierai il falso contro il tuo prossimo
· Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Si ritiene, ancora, che la differenza formale tra i primi due comandamenti espressi in prima persona divina, e gli altri, in terza persona, indichi pure una diversità di origine. I primi due sarebbero l’espressione più originale e tipica della fede delle tribù israelitiche in Jahve, che non ammette accanto a sé culto e adorazione di altri dei e che non tollera di essere imprigionato in una statua. Si tratta di proibizioni che costituiscono un caso unico nella storia delle religioni e in particolare sono del tutto sconosciute nell’area culturale dell’Antico Medio Oriente. È giocoforza trovare nella fede israelitica la loro fonte. Non così, invece, è degli altri comandamenti del decalogo. Dalla letteratura egiziana, particolarmente dal Libro dei Morti, si hanno parallelismi significativi risalenti ad un’epoca molto arcaica, premosaica. Inoltre da un’analisi delle proibizioni del decalogo emerge con probabilità che si tratta di espressioni etiche tipiche di clans, particolarmente dei clans israelitici unitisi successivamente a formare il popolo di Israele. Non è dunque azzardato pensare che lo stesso Mosè, cresciuto alla scuola degli scribi egiziani, abbia dato forma all’etica propria dei clans israelitici e, unendo tali proibizioni etiche alle esigenze fondamentali dell’adorazione esclusiva di Jahve e della proibizione della statua, abbia segnato la nascita del decalogo, inteso globalmente come espressione della volontà di Jahve nel patto sancito con il popolo di Israele. L’etica dei clans passò così ad essere comandamento del Dio dell’alleanza. A partire da questo tempo remoto il decalogo entrò nella vita e nella storia di Israele, non restando legge immutabile, bensì evolvendosi secondo le nuove situazioni e secondo il progresso della fede del popolo. Ambito privilegiato di questa vita del decalogo fu il culto. Ogni sette anni le tribù israelitiche, unite nella federazione religiosa attorno alla fede in Jahve, rinnovavano il patto con il loro Dio (cf. Dt 31,10-13), proclamando e attualizzando sempre di nuovo i comandamenti. La predicazione profetica ( per esempio Os 4,2) esortava alla fedeltà verso le esigenze del patto del Sinai e trovava applicazioni nuove dei comandamenti di Dio alla situazione cangiante. La predicazione cosidetta deuteronomistica dei circoli levitici del Regno del Nord inserì nella tradizione giudaica la ricchezza propria del culto e della fede delle tribù del Nord; ebbe origine così il codice deuteronomico (Dt 5-26), caratterizzato da una sviluppata teologia della legge intesa come parola viva di Jahve. A questa corrente di spiritualità, databile nei secoli VII e VI, si devono le precisazioni contenute nei comandamenti sull’immagine di Dio, sul riposo sabatico e sul rispetto della proprietà del prossimo, la riespressione del primo comandamento nella proibizione dell’adorazione e del culto degli idoli, la motivazione della proibizione di invocare il nome di Dio invano, il richiamo della schiavitù egiziana come base del comandamento del riposo sabatico, la promessa di lunga vita ai figli devoti verso i propri genitori. Né si deve dimenticare l’influsso della corrente sapienziale, a cui si può far risalire l’espressione positiva del comandamenti riguardanti il riposo sabatico e l’onore dovuto ai genitori. Cambiamento operato con l’intento di allargare l’ambito dei comandamenti. La tradizione sacerdotale, messa per iscritto durante l’esilio babilonese (secolo VI), non è stata assente; di certo ad essa si deve la motivazione del riposo sabatico propria del testo del decalogo del libro dell’Esodo (cf 20,11). Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che non si tratta di glosse inserite furtivamente da copisti, ma di vere e proprie attualizzazioni dei comandamenti di Dio, vissuti come realtà viva, informatrice dell’esistenza del popolo nelle diverse epoche. Il decalogo non è un codice staticamente valido una volta per sempre, ma l’espressione della volontà divina scoperta sempre di nuovo e attualizzata dal popolo nel corso della sua storia.

344 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Seconda giornata: IL DECALOGO – Storia (prima parte)

Noi oggi possediamo due redazioni scritturistiche del decalogo in ESODO (Es) 20,2-17.
“Dio allora pronunciò tutte queste parole: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: *non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.*Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.*Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.
*Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. *Non uccidere.*Non commettere adulterio. *Non rubare. *Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. *Non desiderare la casa del tuo prossimo. *Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo"
e in DEUTERONOMIO (Dt) 5,6-21:
“Egli disse: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. *Non avere altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti. *Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non ritiene innocente chi pronuncia il suo nome invano. *Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.
*Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà. *Non uccidere. *Non commettere adulterio. *Non rubare. *Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. *Non desiderare la moglie del tuo prossimo.* Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo”.

Il testo dell’Esodo si trova inserito nella narrazione elohista della rivelazione divina del Sinai (cap. 19-24), la quale risale al secolo VIII. Il decalogo del Deuteronomio fa parte del codice deuteronomico, che abbraccia i capitoli 5-26 del libro e che risale al secolo VII. Mettendo a confronto i due testi si possono facilmente notare differenze, alcune molto significative ed altre meno. Tra le più rilevanti non si può disattendere la diversa motivazione del riposo sabatico, che nel libro dell’Esodo è offerta dal richiamo dell’azione creatrice di Dio che ha operato per sei giorni e riposato il settimo, mentre nel Deuteronomio si rievoca la permanenza delle tribù israelitiche nella terra egiziana di schiavitù. Lo stesso comandamento del riposo sabatico è introdotto in maniera diversa: il libro dell’Esodo fa obbligo di “ricordarsi” del sabato, mentre il Deuteronomio ingiunge di “osservare” il settimo giorno. Nell’ultimo comandamento la redazione deuteronomica fa precedere la donna del prossimo alla sua casa come oggetto della “concupiscenza”, mentre il libro dell’Esodo enumera la donna tra le cose appartenenti al prossimo. Non è qui il caso di annotare le altre differenze.
Ora, mettendo da parte le peculiarità di ognuna delle due redazioni e le amplificazioni del Deuteronomio, è possibile ricostruire un testo del decalogo che sia il fondo comune delle due testimonianze bibliche. Ma non raggiungeremmo così una versione del decalogo che possa rivendicare il ruolo di matrice delle nostre due redazioni, perché è facile riscontrare nel fondo comune l’impronta del linguaggio tipico della tradizione deuteronomistica a cui risale Dt 5,6-21 e che ha rielaborato il testo di Es 20,2-17. Tanto meno si potrebbe congetturare di avere in mano la forma originaria del decalogo. Inoltre in Es 20,2-17 mostra chiaramente di essere stato inserito a forza nel contesto della narrazione elohista dell’alleanza del Sinai (Es 19-24), non costituendo la continuazione di ciò che precede. Infatti la conclusione del capitolo 19 trova la sua logica successione nel capitolo 24. Il nostro decalogo e il cosiddetto codice dell’alleanza (Es 20,22-23,33) sono inserzioni nella trama del racconto. Il che significa che la redazione del decalogo di Es 20,2-17, pur appartenendo ad un blocco di origine elohista del secolo VIII, non è elohista nella forma in cui noi lo possediamo. Sia la redazione del Deuteronomio che quella dell’Esodo nella forma attuale risalgono non oltre il secolo VII e sono propriamente un testo di tradizione deuteronomistica. Siamo dunque molto lontani dal tempo del Sinai e di Mosè. Tuttavia non risulta impossibile risalire nel tempo e indicare la lunga storia che sta alle spalle del decalogo presente in Es 20,2-17 e in Dt 5,6-21. Ciò ci permetterà di mostrare anche che la storia del decalogo non è finita con la redazione deuteronomistica del secolo VII, ma che è continuata nell’esistenza di Israele fino all’interpretazione ultima e decisiva di Cristo. Il decalogo è stato una realtà dinamica, in continua evoluzione secondo le esigenze del tempo e la fede del popolo. Il testo del decalogo comune al libro dell’Esodo e al Deutereonomio appare poco omogeneo dal punto di vista formale; mentre i primi due comandamenti (proibizione di adottare altri dei e di farsi delle statue delle divinità) sono presentati come parola di Dio in prima persona, tutti gli altri sono propriamente solo parola profetica, annunciatrice della volontà di Dio che appare in terza persona. Inoltre solo due comandamenti (del riposo sabatico e dell’onore da prestare ai genitori) sono espressi in forma positiva; gli altri appaiono in forma negativa, cioè sono proibizioni. Terza costatazione: alcuni comandamenti sono enunciati in forma breve e sintetica ( per esempio “Non uccidere”; “Non rubare”), altri hanno una formulazione più analitica e carica di motivazione (per esempio il comandamento del riposo sabatico e l’ultima proibizione di “desiderare” la casa del prossimo, la moglie del prossimo, il suo servitore, la sua schiava, il suo bue, il suo asino).(continua)

343 - LE DIECI PAROLE-DECALOGO-I DIECI COMANDAMENTI

Prima giornata: LA TÔRAH

L’ebraico tôrah possiede un significato più largo, meno strettamente giuridico, del greco nòmos con cui l’hanno tradotto i Settanta. Designa un “insegnamento” dato da Dio agli uomini per regolare la loro condotta. Si applica innanzitutto all’insieme legislativo che la tradizione del Antico Testamento collegava a Mosè. Questa legge si deve cercare esclusivamente nei cinque libri del Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.
La storia sacra che delinea il disegno di Dio dalle origini alla morte di Mosè è inframmezzata dai testi legislativi, che hanno come cornice la creazione, l’alleanza di Noè, l’alleanza di Abramo, l’esodo, l’alleanza del Sinai ed il soggiorno nel deserto. Una simile massa di legislazione racchiude materiali di tutti gli ordini, perché la torah regola la vita del popolo di Dio in tutti i campi. Nulla è lasciato al caso; e poiché il popolo di Dio ha come sostegno una nazione particolare di cui assume le strutture, le istituzioni temporali di questa nazione dipendono anch’esse dal diritto religioso positivo. Tenuto conto di questa varietà la legge nel Antico Testamento riceve diversi nomi: insegnamento (tôrah), testimonianza, precetto, comandamento, decisione (o giudizio), parola, volontà, via di Dio. Di qui si vede che essa trascende in tutti i modi i limiti delle legislazioni umane.
La legge è in rapporto intimo con l’alleanza. Quando Dio, per mezzo dell’alleanza, fa di Israele il suo popolo particolare, a questa elezione unisce promesse la cui realizzazione dominerà la storia seguente, pone anche delle condizioni: Israele dovrà obbedire alla sua voce ed osservare le sue prescrizioni; diversamente le maledizioni divine cadranno su di esso. Questo legame della legge con l’alleanza spiega come in Israele non ci sia altra legge che quella di Mosè. Infatti Mosè è il mediatore per mezzo del quale Dio fa conoscere al suo popolo le esigenze che ne derivano. Questo fatto essenziale è reso nei testi in due modi. Nessun legislatore umano, neppure all’epoca di David e di Salomone, che segnano il periodo aureo del regno d’Israele, sostituisce od aggiunge mai la sua autorità a quella del creatore della nazione (neppure Ezechiele 40-48, di ispirazione mosaica, è stato inserito nella tôrah). Viceversa, i testi legislativi sono posti tutti in bocca a Mosè e nella cornice narrativa del soggiorno al Sinai.
Ciò non vuol dire che la tôrah non sia sviluppata nel tempo. La critica interna vi distingue giustamente dei complessi letterari di tono e di carattere diverso. È il segno che l’eredità di Mosè è stata trasmessa attraverso canali diversi, correlativi alle fonti del Pentateuco.

venerdì 9 marzo 2012

342 - IL TEMPIO DEL SUO CORPO - 11 Marzo 2012 – IIIª Domenica di Quaresima

(Esodo 20,1.17 1ª Corinzi 1,22-25 Giovanni 2,13-25)

Nel gesto della ‘purificazione del tempio’ Gesù ha profeticamente indicato il senso della ‘religione’ per l’uomo: non una relazione fondata su interessi terreni, su un «dare per avere», ma una capacità di fidarsi di Dio e di affidarsi a lui soltanto. L’intervento provocatorio di Gesù ci libera dalla tentazione dell’idolatria, sempre presente anche nella nostra visione religiosa. Ciò che deve caratterizzare il nostro rapporto con Dio è solo l’amore ricevuto e donato.
L’incontro di Gesù con i mercanti del tempio attesta, per la prima volta, nel Vangelo di Giovanni, la presenza di Gesù a Gerusalemme durante la festa ebraica della Pasqua. Il fatto dello scontro fra Gesù e i mercanti non è tanto il segno di concessione alla violenza, quanto, piuttosto, l’indicazione di una liturgia di grande significato. Giovanni si rifà, nella sua serrata diatriba, al versetto del Salmo 69: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». In quel frangente è avvenuto un fatto epocale: si passa dalla mentalità dell’uomo che offre sacrificio a Dio, alla certezza che nel Figlio immolato si celebra l’evento universale di salvezza per tutta l’umanità. E Cristo si fa coinvolgente, al riguardo, con tutti noi. Introduce, nella storia, una liturgia nuova e perenne: «Amatevi come io vi ho amati». Per giungere a questa liturgia pasquale dobbiamo attuare una piena conversione all’Amore che ci aiuta a riscoprire la croce non come dolore che mortifica, ma come amore che salva.
Gesù, in quanto uomo che ama gli uomini, è sollevato sulla croce. La croce è la distruzione della Legge, la distruzione del Tempio, è la distruzione della Sapienza, perché la via della croce è una via aperta soprattutto agli umili ed ai semplici. Sono coloro che vivono nel buio del Venerdì santo che, forse, conoscono Dio più che lo specialista di Dio. Quali sono gli uomini concreti in cui meglio si rivela il mistero della croce del Signore? Al di là del credere o non credere c’è una partecipazione al mistero dell’amore di Dio che sale dai fatti. La fede è il modo concreto di abitare in Dio. La croce a questo ci porta, a superare tutte le barriere, le distinzioni giuridiche, morali e concettuali. Il Vangelo non si esaurisce mai perché il contenuto del suo messaggio è perenne come l’uomo vivo. E siccome noi viviamo in un tempo in cui le ragioni di paura crescono, allora noi possiamo obbedire a questa paura secondo l’istinto di conservazione e possiamo vivere in questa paura dimenticando noi stessi, aiutando coloro che portano il peso della nostra iniquità.
Ci è facile, allora, capire che solo la misericordia di Dio ci salverà. Dalla riflessione scaturisce un’invocazione piena di umiltà perché la misericordia di Dio copra i nostri peccati e ci liberi tutti dalla perdizione. È dentro questo travaglio di salvezza che la croce assume il suo significato più alto; così la croce diventa, prima di tutto, amore. Un’espressione popolare afferma: «Ti voglio un bene da morire». Dovremmo tutti diventare come la donna del Cantico dei Cantici che è «malata di amore». In Cristo questa malattia è diventata contagiosa e prodigiosa; infatti con lui e come lui moriamo, ma, ancor più, con lui e come lui risorgiamo.
PREGHIERA - Quel giorno tu hai rivelato, Gesù, quanto ti stia a cuore un rapporto autentico col Padre tuo, quanto ti addolori constatare che gli uomini di ogni tempo tentino di appiccicargli maschere mostruose che coprono e tradiscono i suoi lineamenti. E non c’è nulla che deturpi la relazione vera con Dio più del tentativo, più o meno scoperto, di renderla una transazione commerciale.
Il Padre non ha bisogno delle nostre offerte e dei nostri sacrifici: quello che desidera, infatti, è un legame d’amore che investe tutta la persona e non tocca solamente il portafoglio!
Il Padre non cerca adoratori interessati, illusi di poter piegarlo ai propri progetti, ma figli disposti a compiere la sua volontà e realizzare il suo progetto, a qualsiasi costo.
Il tuo gesto violento, quel giorno, deve aver scandalizzato molto e creato non piccoli problemi. E tuttavia esso era dettato solamente dall’amore, dal desiderio di veder sorgere una comunione intensa, all’insegna della libertà.

341 - “QUESTI È IL FIGLIO MIO, L’AMATO!”

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Quaresima

Dal Vangelo di Marco: “In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. (9,2-10)
Il racconto della Trasfigurazione appartiene alla più antica tradizione sinottica, essendo attestata in tutti e tre gli evangelisti, e documenta una formulazione da parte della prima comunità cristiana con un evidente intento kerygmatico: nel narrare la trasfigurazione di Gesù infatti il gruppo apostolico ha inteso esprimere un significativo collegamento con la risurrezione del Cristo Signore. Tutte le redazioni sottolineano in particolare accordo la straordinaria e nuova condizione della veste di Gesù, usando in comune sempre l’aggettivo ‘bianco’, tanto più significativo in quanto raro nel vocabolario dei Sinottici.
Marco, che riporta un racconto essenziale, conforme allo schema primitivo, si permette solo un piccolo ritocco, secondo il suo gusto narrativo, insistendo sul colore delle vesti: «Le sue vesti divennero splendenti (stílbonta), bianchissime (leukàlían): nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Rafforza l’aggettivo per farne un superlativo, vi premette inoltre un participio, per sottolineare lo splendore, e infine aggiunge un’espressione popolare sull’incapacità di un lavandaio terreno di ottenere un risultato simile. La frase di tono familiare contiene tuttavia importanti rilievi teologici: proprio l’operazione di rendere bianco è presentata come impossibile a un agente umano, a uno cioè che si trovi sulla terra; è evidente quindi l’intenzione di spiegare, per contrasto, il bianco delle vesti come un fatto sovrumano e attribuibile solo a un agente divino.
Una simile insistenza lascia intendere che il particolare era considerato importante: inserito nella tradizione biblica e giudaica questo elemento simbolico serve anzi tutto per presentare un’identità sovrumana di Gesù, per indicare la dignità divina della sua persona e per evocare la sua ‘gloria’; inoltre svolge la funzione narrativa e teologica di mostrare proletticamente l’obiettivo a cui tende la via della croce, anticipando l’annuncio della risurrezione di Cristo.
Pur essendo kerygmatico e teologico, questo racconto contiene comunque il riferimento a un fatto storico che segnò l’itinerario dei discepoli al seguito di Gesù. Si tratta di un’esperienza mistica e, quindi ‘indicibile’, che tre dei discepoli vissero insieme a Gesù, mentre condividevano con lui un momento di preghiera in profonda solitudine. Quell’esperienza lasciò un segno nella memoria dei discepoli, incoraggiò la loro sequela, ma divenne pienamente chiara solo dopo la risurrezione del Maestro. Nella luce del Cristo risorto infatti la comunità apostolica diede forma narrativa a quella esperienza, proponendola come chiave di volta di tutta la vicenda.
Al centro della narrazione evangelica questo episodio svolge un ruolo molto importante come catechesi cristologica: si tratta infatti di un testo composto sul modello degli oracoli di investitura e con ripetuti richiami alla tradizione dell’Esodo che presentava Mosè durante l’incontro con Dio nella nube luminosa.
L’alto monte richiama immediatamente il Sinai e quel fondamentale episodio della storia d’Israele: anche Gesù sale sul monte, ma non come nuovo Mosè, per svolgere la funzione che l’antico legislatore aveva svolto per l’antico popolo; egli non sale sul monte per incontrare Dio, ma per rivelarsi come Dio; non va a ricevere la legge da Dio, ma sale perché i suoi discepoli abbiano la divina conferma della sua qualità messianica. Ciò che egli riceve sul monte è l’investitura ufficiale, l’attribuzione solenne del compito di Messia e la rivelazione, superiore alle attese, della divina figliolanza.
Le Scritture divine, rappresentate da Mosè ed Elia, confermano che la scelta di Gesù è secondo il progetto di Dio: l’Antico Testamento rende testimonianza al Cristo. Così nella nube e nell’ombra i discepoli increduli, come eredi di Mosè e di Elia, vedono la gloria di Dio che brilla sul volto umano di Gesù e capiscono che lui ha ragione. La sua strada è quella giusta!
Sul monte dunque si ripete sostanzialmente la scena del battesimo in cui la voce dal cielo aveva rivelato: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Ma allora la rivelazione era rivolta a Gesù stesso, e a Giovanni Battista al massimo, perché egli non aveva ancora iniziato il suo ministero né chiamato i discepoli a seguirlo; ora invece la voce dal cielo diventa la divina testimonianza per i discepoli nel momento decisivo della scelta e dell’accettazione di un Messia che va a morire. Infatti in questo caso la rivelazione aggiunge un imperativo, che al momento del battesimo mancava: «Ascoltatelo!». Chi devono ascoltare? Colui che ha appena detto: Io devo soffrire molto e chi mi vuol seguire deve rinunciare a se stesso e ai propri piani. Il monte diventa così per i discepoli ciò che è stato il deserto per Gesù: l’occasione della scelta. La scelta dei discepoli è questa: fidarsi di Dio e seguire Gesù per la ‘sua’ strada.
La voce del Padre e la grazia dello Spirito Santo avvolgono i discepoli e li aiutano a credere: i tre uomini sono misteriosamente introdotti nell’affascinante relazione delle Tre persone divine e scoprono quanto sia bello «essere con il Signore». Così, al momento della svolta decisiva per la vita e la missione del Cristo, la trasfigurazione ha il compito di anticipare l’esito finale della risurrezione, per garantire in partenza la fondatezza della pretesa di Gesù e della sua generosa disponibilità al sacrificio.
La Gloria luminosa che appare sul monte è la garanzia della presenza e dell’approvazione di Dio, ma alla fine resta Gesù solo, nella sua forma umana e quotidiana; e i suoi discepoli devono scegliere. Il bello non sta nel rimanere sul monte e fuggire dal mondo, ma nel vivere la propria vita e l’inserimento nella storia con lo stesso stile scelto da Dio.

sabato 3 marzo 2012

340 - LA SCELTA DEI DISCEPOLI - 04 Marzo 2012 – IIª Domenica di Quaresima

(Genesi 22,1-18 Romani 8,31b-34 Marco 9,2-10)

La fiducia del credente lo porta, anche in mezzo alle difficoltà, a riconoscere la potenza liberatrice che viene da Dio. La scelta dei discepoli di affidarsi a Gesù è il modello anche della nostra fede. La fede cristiana non è fede in una dottrina, ma ascolto del Figlio ‘amato’. È questa scelta di fede che permette a Dio di entrare nella nostra vita e di rendere anche noi suoi ‘figli’.
Quando la religione, intesa come realtà e cultura, si dissolve, si hanno comportamenti divergenti. C’è chi vuol salvare, rievocandole, le motivazioni tradizionali, approfittando di situazioni di smarrimento comune. Risorgono il fanatismo e la sicurezza altezzosa, del tutto priva di consapevolezze storiche. Oppure si ritorna al versante segreto della nostra condizione di credenti, a cui scarsamente ritorniamo, ma su cui batte la luce di Dio.
Il vero credente vive la sua scelta come scelta di obbedienza al Dio della fede, non alle parole ereditate. Il nostro Vangelo non è un Corano da vivere. Esso è parola morta se non diventa Parola viva per l’ascolto di fede. E l’ascolto di fede è un evento che si giustifica da se stesso, appunto perché le altre giustificazioni sono tutte nel versante pubblico, sottoposto al mutamento storico.
Soltanto quando la fede si rifà al confronto del Dio della rivelazione, col Dio che ci parla in Gesù Cristo, trova la motivazione che regge. Per questa via il nostro fervore non viene meno, perché si appoggia ad una ragione di fondo, quella di una obbedienza di fede, il cui contenuto è la benedizione di tutte le genti. È qui la forza straordinaria della fede, non il fanatismo che assume brandelli di tradizione o parole scritte o relitti culturali per riproporli al mondo d’oggi. La fede, al contrario, assume i suoi contenuti dalla realtà dell’uomo vivente, perché in nessun altro luogo è Dio se non nell’uomo.
Emblematico è l’episodio della Trasfigurazione: Pietro e gli Apostoli stavano bene dinanzi ad un Dio che si rivela con tutta la sua luce. Ma la luce si spegne e c’è Gesù solo, un uomo avviato verso le ombre della passione e della morte. La fede non ci dà punti di riferimento nel miracolo: l’unico miracolo che le viene dato è quello della parola di Dio, che attesta la risurrezione del Cristo e la nostra risurrezione.
E le parole che il Signore pronunzia non sono private, per cui nessuno vive la fede piegandosi in sé. Il Dio di Abramo è un Dio che affida, ad Abramo, e ad ogni credente, tutte le genti. E in questo siamo con gli altri che non hanno Dio. Dio è nella nube e dalla nube viene la Parola. Dio non è una specie di condensato di principi da cui dedurre le risposte. Il credente vive all’interno della comune fatica umana, con l’unica forza che è quella della fede nella parola del Signore, del Dio che parla ed ha parlato, in Gesù Cristo, e che ci certifica, nella sua morte e nella sua risurrezione, che la nostra fatica storica non è vana e che anche il nostro fallimento rientra nel suo disegno di amore.
Siamo in un tempo in cui anche i modelli del passato non ci dicono più nulla. Ma una parola ci sospinge a scendere dal monte della contemplazione nella valle della fatica umana: e questa è la parola del Signore che si manifesta in Gesù. La Parola della fede, nella sua nudità essenziale, e l’uomo vivente oggi sono i termini di riferimento e di recupero dell’autenticità della fede. In questo senso, anche noi dobbiamo sacrificare i primogeniti, le ideologie in cui abbiamo creduto. E quante cose, invece, sono dentro di noi come idoli, e non ce ne sappiamo liberare! Se fossimo liberi da tutto ciò che ci vincola al mondo che passa, noi ritroveremmo la limpidezza della Parola di fede, e daremmo agli uomini fiducia e speranza nel loro cammino verso un adempimento che noi non sappiamo spiegare.
PREGHIERA - È a Gerusalemme che la tua missione troverà compimento, Gesù. È quello il luogo in cui, dopo esserti offerto interamente per la salvezza del mondo, conoscerai una morte dolorosa, ma anche la gloria della risurrezione. Quel che accade sul monte, dunque, è solo un anticipo donato ai discepoli che saranno testimoni della tua angoscia e delle tue sofferenze.
Ecco perché la proposta di Pietro è priva di senso, dettata solo dallo spavento che prova di fronte ad una situazione imprevista e indicibile.
La luce che irraggia dalla tua persona, Gesù, non dovranno dimenticarla quando l’oscurità piomberà sulla terra e il tuo corpo recherà i segni di una violenza ingiusta scatenata contro di te.
La voce del Padre che riconosce in te il suo Figlio non potranno ignorarla quando il tuo volto, privato di ogni bellezza, sarà reso irriconoscibile dal sangue e dal sudore di morte, dagli spasimi dell’agonia. L’uomo dei dolori è il Figlio che si dona fino all’ultimo.

339 - GESÙ, TENTATO DA SATANA, È SERVITO DAGLI ANGELI

Per una pausa spirituale durante la Iª Settimana di Quaresima

Dal Vangelo di Marco: “In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”(1,12-13).
Immediatamente dopo il brano del battesimo di Gesù (Mc 1,9-11) Marco colloca l’accenno alle tentazioni (Mc 1,12-13). Con questo vuol dire che, dopo l’investitura ufficiale a Messia, la prima azione di Gesù è compiuta dallo Spirito Santo che ha preso a guidarlo: «Lo Spirito lo sospinse nel deserto». L’evangelista adopera un verbo quasi violento: ekbállei è un presente storico, da ek-bállō (= ‘gettare fuori’), e indica l’azione di spingere qualcuno fuori da un ambiente. Con forza cioè lo Spirito Santo lo tirò fuori dalla folla che circondava il Battista, per spingerlo nella solitudine del deserto, luogo tipico della prova e della verifica. L’evangelista vuole così sottolineare che a tale azione spirituale Gesù fu docile.
Possiamo chiarire l’espressione dicendo che Gesù si lasciò guidare dallo Spirito nel momento cruciale della riflessione e della decisione: la rivelazione del Giordano l’ha presentato come il Messia, ma non era così scontato e sicuro capire chi fosse il Messia, che cosa dovesse fare e come dovesse farlo. Gesù deve scegliere. E vuole scegliere secondo la volontà di Dio.
Marco non esplicita le tentazioni di Gesù; ma trasmette solo la notizia del ritiro di Gesù nel deserto e la presentazione del fatto che è stato tentato. Durante tutta la sua vita si è ripetutamente posto il problema della sua messianicità: la gente che lo ascolta e lo applaude ha tante idee diverse del Messia, ognuno vorrebbe che Gesù corrispondesse alla propria; i suoi stessi discepoli hanno consigli da dargli e proposte alternative; di fronte all’annuncio della passione, Pietro lo prende in disparte e lo rimprovera; fino all’ultima tentazione sulla croce, quando molti gli gridano: «Salva te stesso scendendo dalla croce!» (Mc 15,30). Durante tutta la sua vita Gesù è stato tentato di scegliere altre strade e altri modi.
La prima parte del Vangelo secondo Marco inizia con la notizia della tentazione di Gesù da parte di Satana; ma anche la seconda parte del Vangelo inizia pure con una scena di tentazione, ovvero di proposta alternativa, proprio da parte del discepolo che lo ha riconosciuto come il Cristo. A lui e a tutti Gesù ripete con decisione: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Nel primo caso Marco non precisa quali siano state le tentazioni proposte da Satana, ma le esemplifica proprio nel secondo caso, di fronte al discepolo tentatore, a cui ripete «Vade retro!», cioè «Mettiti dietro a me e seguimi! Le tue scelte siano sempre simili alle mie». Marco intende evidenziare proprio questo: il discepolo è colui che deve seguire Gesù, concretamente, nelle scelte di vita. Eppure al discepolo la strada del Messia debole e povero, scelta dal Maestro, può non sembrare buona e perciò gli si oppone: in tal modo diventa egli stesso un «satana».
Nella lingua ebraica il vocabolo satán è nome comune e indica anzitutto una funzione giudiziaria, quella che definiamo «pubblico ministero», ovvero l’accusatore. Tale figura compare nel prologo narrativo al poema di Giobbe e svolge appunto il ruolo critico di chi mette in evidenza i limiti e le possibili distorsioni. Con la maturazione teologica della demonologia, il titolo di satana è stato attribuito, soprattutto nella corrente apocalittica, agli angeli ribelli e caduti, riconoscendo in essi un atteggiamento di opposizione e boicottaggio rispetto al progetto divino. In greco fu tradotto con il termine diábolos, che ha lo stesso significato: composto dal verbo bállō (= ‘gettare’) e dalla preposizione diá (= ‘attraverso’), designa visivamente colui che si intromette, cioè mette i bastoni fra le ruote, ostacola il cammino e intende far cadere. In genere viene usato con l’articolo determinativo e così capita anche in Mc 1,13 che conserva la forma semitica (ho satân), mentre il testo parallelo degli altri Sinottici impiega la traduzione greca (ho diábolos). Ben diverso è il termine demóne o demonio, che designa invece una realtà sovrumana e di natura diversa rispetto all’umanità. Perciò anche un uomo, addirittura un discepolo di Gesù, può essere chiamato «diavolo», in quanto impedisce il cammino messianico, ne intralcia la via e si oppone alle sue scelte.
Nella breve notizia riportata da Marco si conserva il particolare dei quaranta giorni di soggiorno nel deserto (cfr. Mt 4,2; Lc 4,2), nonché la nota finale che presenta gli angeli al servizio di Gesù (cfr. Mt 4,11). Invece una caratteristica originale del secondo evangelista è il ricordo della compagnia delle fiere. Questo particolare può essere una semplice nota pittoresca per evidenziare la solitudine in cui Gesù ha trascorso quei giorni; ma forse è meglio vedervi un’allusione teologica allo stato originale di Adamo e alla situazione dell’uomo fedele che viene protetto e guidato da Dio, come canta il Salmo 90: «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede. Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi» (vv. 11- 13). Il termine thēríon (= ‘bestia’) indica gli animali selvatici, ma soprattutto quelli feroci e pericolosi per l’uomo: la terminologia è usata soprattutto dall’apocalittica per presentare le figure simboliche del male, proprio partendo dalle immagini del salmo (aspidi e vipere, leoni e draghi). Pur essendo in mezzo a serpenti e scorpioni, Gesù non ne è danneggiato. Anzi gli angeli di Dio si mettono al suo servizio. In tal modo simbolico l’evangelista intende presentare il Messia Gesù come l’uomo veramente fedele, in grado di insegnare ad ogni uomo la via della fede e la scelta corretta.