domenica 18 agosto 2013

505 - ARRICCHIRE PRESASO DIO 4 Agosto 2013 – XVIIIª Domenica del Tempo ordinario

(Qoelet 1,2:2,21-23 Colossesi 3,1-5.9-11 Luca 12,13-21)

Il ricco della parabola evangelica si illude di aver risolto ogni problema, di essersi messo al sicuro da preoccupazioni e fatiche, accumulando i suoi beni per goderne sereno e gioioso. Rimarrà amaramente disilluso! Con questa parabola Gesù certamente non vuole fare del ‘terrorismo spirituale’ minacciando la morte, vuole invece indurci a riflettere e andare in profondità. I beni materiali – ammonisce – non sono tutto, non soddisfano mai pienamente e non assicurano il futuro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». La vita deve ricercare fondamenti più solidi. A questo proposito capita proprio a tema anche la seconda lettura, dove l’apostolo Paolo esorta a ricercare «le cose di lassù», a rivolgere il pensiero «alle cose di lassù, non a quelle della terra». Cercare le cose di lassù, ovviamente, non vuol dire disprezzare le realtà terrene, quasi che la fede sia un’evasione dal proprio tempo e mondo, un ricercare rifugio e protezione altrove. Le parole dell’apostolo vogliono essere un richiamo al fatto che il credente in un mondo sempre più appiattito sul presente, retto dalle leggi economiche basate sul profitto, deve essere un segno che addita la dimensione dello spirito, la trascendenza, il futuro. In altre parole potremmo dire che nell’uso dei beni di questa terra è importante il criterio che ci orienta: se si usano i beni esclusivamente per sé, essi finiscono per diventare un fine, se invece si agisce tenendo conto della loro destinazione universale, diventano un mezzo che è subordinato a valori più grandi.

Arricchire davanti a Dio: questo dovrebbe essere il vero obiettivo. Sempre l’apostolo Paolo indica anche concretamente come accumulare il tesoro vero, che non è destinato a perire. Lo fa con una serie di raccomandazioni: «Fate morire ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria», in altre parole, invita a essere in sintonia con ‘l’uomo nuovo’ di cui ci siamo rivestiti, rinnovandoci a immagine di colui che ci ha creato.

Gesù invita a riflettere anche sul mistero del tempo, all’interno del quale si dispiega la nostra vita. Nel vangelo di Luca infatti, subito dopo la parabola, troviamo alcuni detti di Gesù, che non vengono proclamati nella liturgia, nei quali egli riprende il discorso sul valore della vita, che è di gran lunga superiore a quello del cibo o del vestito e aggiunge: «Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (Lc 12,25). Il tempo è dono di Dio, come la creazione, al quale si risponde con gratitudine e responsabilità. Questo dono non solo ci precede (la nostra esistenza si inserisce in una storia che si dispiega ormai da lungo tempo), ma ci eccede sempre, non possiamo farcene padroni, non possiamo dunque dominarlo a nostro piacimento, aggiungendo un’ora sola alla nostra vita. L’uomo arricchito della parabola si vede sfuggire il tempo proprio mentre credeva di essersene fatto padrone. San Basilio ammonisce anche che il tempo che il Signore ci dona va vissuto in pienezza arricchendo davanti a lui e non rinviando al futuro il bene che oggi possiamo compiere: «Ma condividerò i miei beni con i bisognosi quando avrò riempito i miei nuovi granai. Ti fissi dei lunghi tempi di vita! Sta’ attento che non ti raggiunga all’improvviso il giorno del rendiconto. E la tua promessa non è segno di bontà, ma di cattiveria perché tu prometti non per dare in seguito, ma per sottrarti al momento presente».

Anche il Salmo responsoriale dichiara che l’unico vero padrone del tempo è Dio stesso, per il quale mille anni sono come un giorno, come un turno di veglia nella notte, mentre l’uomo è come l’erba che «al mattino fiorisce e germoglia e alla sera è falciata e dissecca». Ecco allora che la saggezza del salmista invita a contare i nostri giorni per acquistare un cuore saggio.

PREGHIERA - Facciamo fatica a rassegnarci, Gesù, anche se le lezioni al proposito ci raggiungono ad ogni piè sospinto. Vivere nell’abbondanza, poter disporre di una quantità di beni, avere un pingue conto in banca ci può facilitare in certe situazioni, ma di certo non ci mette al riparo dai pericoli e dai rischi che incombono su questa nostra esistenza.
Possiamo farci curare da medici prestigiosi e ricorrere a strutture specializzate, ma non ci possiamo sottrarre né alla malattia, né alla morte. Possiamo acquistare prodotti di marca e oggetti lussuosi da esibire, ma non riusciamo a comprare né l’amore autentico, né l’amicizia vera. Possiamo destare attorno a noi ammirazione e plauso per le nostre imprese finanziarie, per le nostre proprietà immobiliari, ma ciò che conta di più per l’eternità che ci sta davanti non sono le quotazioni in borsa, né le rendite fornite dalle proprietà, ma il nostro rapporto con Dio.
Ecco perché tu non esiti a chiamare stolto chi sbaglia tutto e pregiudica ogni cosa semplicemente perché «ha accumulato tesori per sé e non si è arricchito presso Dio».

venerdì 2 agosto 2013

504 - A PREGARE SI IMPARA (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante XVIIª Settimana del Tempo ordinario

Nella frenesia della società contemporanea il cristiano si chiede spesso: «QUANDO PREGARE?», non c’è mai tempo. Gesù, a ben vedere, non ha detto di pregare bene, ma di pregare sempre. Non che non debba essere curata, ma più semplicemente che non si devono attendere le condizioni ottimali per iniziare a pregare. Le preghiere sono come i raggi del sole, non guastano la propria luce per il fatto che illuminano acqua stagnante, anzi addirittura la bonificano. La preghiera purifica così il cuore. E un «cuore purificato diviene il cielo interiore» (Filoteo Sinaita).
Alle parole di Gesù fanno eco quelle di Paolo che, nella lettera ai Tessalonicesi, afferma: «pregate incessantemente». Questo ci riconduce al senso profondo della preghiera, la quale non è semplicemente una pratica che può essere esercitata quando si vuole e se lo si vuole. Essa è la condizione necessaria all’uomo interiore. «Il corpo, che vive grazie all’aria, la assume continuamente attraverso il respiro; l’anima, che vive per la grazia, allo stesso modo la attira in sé tramite la preghiera» (A. Troepol’skij). Ecco perché per molti maestri spirituali è un balsamo interiore. Giovanni Crisostomo la definisce come «il porto nella tempesta, l’àncora dei naufraghi, il bastone dei titubanti, il tesoro dei poveri […], rifugio nei mali, fonte di ardore, causa di gioia e maestra della filosofia».

COME FARE? È possibile, in questo contesto, dare solo alcuni spunti indirizzati alla preghiera personale e a quella familiare. Nel primo caso è importante scegliere una preghiera. Com’è importante usare le parole adatte quando ci si trova a tu per tu con una persona, allo stesso modo nel dialogo con Dio. Il primo passo dunque consiste nel trovare le parole che esprimano adeguatamente il nostro rapporto con Dio. Non sono i pensieri troppo elevati a qualificare il dialogo, ma quelli degni di noi, che possono essere offerti come realmente nostri. Non dimentichiamo che i salmi sono una fucina di parole che esprimono le diverse modulazioni dell’animo umano. Abbiamo inoltre preghiere che fanno parte della ricchezza liturgica di tutte le chiese, dalle quali possiamo attingere. La prima cosa pertanto che dobbiamo chiederci è: quali sono le «parole di preghiera» che ha senso per noi offrire a Dio. Possono essere preghiere scaturite da un orante che ci ha preceduto, oppure un versetto del salmo che ha illuminato un angolo oscuro della nostra esistenza. Poi dobbiamo usare questa preghiera nei momenti in cui è possibile raccoglierci nel silenzio interiore alla presenza del Signore. Diventano così le parole poste in bocca all’uomo interiore. Gradualmente accadrà che la consapevolezza della presenza del Signore in noi aumenterà, tanto che, ovunque ci si trovi, sul lavoro, in mezzo alla gente o da soli, saremo ancora in grado di pregare.
La seconda indicazione riguarda il coinvolgimento del corpo. Quando preghi non lasciare il tuo corpo alla porta. Non solo esso è tempio dello Spirito, ma Gesù stesso ha pregato con il corpo. La persona prega con tutto quello che è, dunque, anche con i gesti del corpo. Un grande uomo di spirito come frère Roger diceva: «non saprei come pregare senza il corpo. In certi periodi ho coscienza di pregare più con il corpo che con la mente». Il forte razionalismo che si è insinuato nell’esperienza spirituale ha messo in ombra la dimensione fisica del pregare, ma le grandi tradizioni monastiche ne hanno sempre stimato il ruolo.
Un’ultima indicazione riguarda la dimensione comunionale della preghiera, soprattutto quella familiare. Quella piccola chiesa domestica, che è la famiglia, rappresenta il luogo privilegiato per la pedagogia spirituale. I figli imparano a pregare non per ‘istruzione’, ma per ‘imitazione’. Guardando i loro genitori pregare si aprono al mistero, imparano ad affrontare i tempi della vita quotidiana con la fiducia nell’affidabilità di Dio. Entrando nella notte con il conforto della preghiera comprenderanno che, nonostante le tenebre, il cuore rimane nella pace. Chi ha ricevuto fin da piccolo questa evangelizzazione, così incisiva anche sulla sfera emotiva, entra nella vita carico di fiducia. È necessaria, anche in questo caso, una saggia concretezza. La casa diventa memoria di Dio anche grazie ad alcuni segni. Nella tradizione dell’Oriente cristiano ogni famiglia predispone il cosiddetto angolo della bellezza – con una semplice icona, una Bibbia aperta, un cero o dei fiori – per indicare che Dio è presente. L’Emmanuele ha posto la sua dimora in mezzo a noi.
A pregare s’impara. L’umiltà di chi si mette alla scuola della preghiera mostra la serietà della richiesta fatta dai discepoli e riecheggiante nel cuore di ogni uomo.

503 - A PREGARE SI IMPARA (prima parte)

Per una pausa spirituale durante XVIIª Settimana del Tempo ordinario

La domanda che i discepoli pongono a Gesù mette a nudo un’ipocrisia sempre latente nell’uomo religioso: la presunzione cioè d’essere già capaci di pregare. La rivalsa contemporanea dello spontaneismo ha inoculato, infatti, l’idea che la preghiera ‘vera’ e ‘autentica’ sia solo quella che scaturisce naturalmente dal cuore dell’uomo. Si è mossa pertanto, in questa sfera, una vera e propria battaglia alle formule, alla prassi o agli esercizi di vario genere. Così, mentre ci si addestra a ogni tipo d’arte, facendo i corsi necessari, a pregare si vorrebbe già essere abili. In realtà la richiesta fatta a Gesù dai discepoli – «insegnaci a pregare » – stigmatizza un’incapacità radicale dell’uomo a vivere la ‘cosa’ che il pregare indica.
Più che il proprio ingegno, per apprendere un’arte è necessario mettersi alla scuola di buoni maestri. La preghiera, anche oggi, non può rinunciare alla comunione viva con chi ha pregato prima di noi e ora prega con noi. Mettersi alla sequela di uomini e donne spirituali costituisce il primo passo di quel tirocinio del discepolato che ci libera dall’illusione dell’improvvisazione. L’immagine della «scuola di preghiera», cui Anthony Bloom ha dedicato tempo e pazienza, la ritroviamo più volte espressa anche nel pensiero degli ultimi due pontefici. «Per una pedagogia della santità – afferma Giovanni Paolo II – c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera […]. Le nostre comunità devono diventare autentiche scuole di preghiera» (Novo millennio ineunte, 32). Lo stesso Benedetto XVI, parlando ai vescovi svizzeri, afferma: «È un compito fondamentale della pastorale insegnare a pregare. […] A questo scopo dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, dove si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni». Stabilite le premesse, diventa importante definire l’oggetto. Che cosa sia la preghiera è in apparenza una cosa evidente, ma appena si scava compare tutta la sua complessità. Essa rappresenta l’incontro di due desideri: quello dell’uomo e quello di Dio. In questo senso, «la preghiera è – come dice Isacco di Ninive – memoria costante di Dio nei cuori». Attraverso il dinamismo del desiderio si apre così una strada verso il suo luogo originario della preghiera: il cuore. In questo santuario interiore, l’uomo si raccoglie in sé e si rende presente a Dio, che è già lì ad attenderlo. «Da quando sei stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e del loro Spirito, Dio è in te, la Trinità respira in te» (Busca). La preghiera ci introduce nel mistero trinitario. È una partecipazione alla mensa dei Tre. «Lo Spirito viene ad afferrarti e ti dà al Figlio e il Figlio ti dà al Padre» (Ireneo). Pregare è essere commensali della Trinità. Comprendiamo così l’invito di molti maestri spirituali a volgere la preghiera all’interno, non verso un Dio del cielo e nemmeno verso un Dio lontano, ma verso un Dio più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Non a caso Gesù dirà nel vangelo di Luca: «il Regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), all’interno di quella stanza nella quale dobbiamo sostare se vogliamo pregare. «Quando preghi, fai in modo di scendere dalla testa al cuore, la vera preghiera è solamente quella che proviene dal cuore» (Teofane il Recluso).

502 - SIGNORE, INSEGNACI A PREGARE - 28 Luglio 2013 – XVIIª Domenica del Tempo ordinario

(Genesi 18,20-32 Colossesi 2,13-14 Luca 11,1-13)

Alla domanda dei discepoli Gesù risponde: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». La forma lucana è più breve di quella liturgica matteana, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il ‘tu’ del rapporto con il Padre ed il ‘noi’ dell’appartenenza comunitaria. La preghiera di Gesù inserisce il discepolo in una trama di rapporti: il rapporto con il Padre ed il rapporto con i fratelli. Pregare, dunque, è vivere nella relazione con Dio, come membro di una comunità umana.
Il termine greco patḗr traduce l’aramaico abbà (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). Mentre la forma matteana – «Padre nostro che sei nei cieli» – rispecchia formule giudaiche, l’abbà lucano esprime l’intimità, la libertà di rapporto con Dio che contrassegnava la persona di Gesù. L’uso di un termine così familiare crea un ambiente di fiducia, familiarità, vicinanza. Utilizzando un’espressione rabbinica, Dio si «restringe, si sveste della sua onnipotenza» per tornare ad essere semplicemente Padre, la radice della nostra esistenza. Il discepolo si rivolge a lui chiedendo che il suo ‘nome’ venga riconosciuto come ‘santo’. Nella tradizione ebraica, troviamo un testo molto simile: «sia esaltato e santificato il suo nome grande nel mondo da lui creato secondo la sua volontà». La prima richiesta del discepolo è dunque che ogni creatura possa riconoscere Dio come Dio, che la sua gloria possa essere resa incontrabile.
La seconda supplica riprende questo tema, dato che il regno indica la signoria di Dio nella storia umana. I discepoli di Gesù vivono nella consapevolezza che ormai il regno è vicino, anzi è percepibile nella relazione con il Figlio, e nei segni che loro stessi sono inviati a porre (9,6; 10,9): chiedono perciò che anche attraverso l’offerta della propria vita Dio possa divenire «tutto in tutti» (1 Cor 15,28). In sintesi, la sezione ‘tu’ chiede al discepolo un cambiamento di mentalità: non si tratta di ‘piegare’ la volontà di Dio, ma di assumerla come nostra prospettiva. Per questo pregare è chiedere a Dio di cambiarci, di formare in noi un cuore ed uno spirito nuovo, che nella luce dell’abbà iniziale può essere soltanto uno spirito filiale. È interessante notare che alcuni manoscritti sostituiscono la richiesta per la venuta del Regno con questa supplica: «Venga su di noi il tuo Spirito e ci purifichi»: è la richiesta di trasformarci in strumenti adatti all’annuncio purificandoci da tutto ciò che non santifica il nome di Dio.
«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»: sullo sfondo antico-testamentario, possiamo pensare al dono della manna, offerta da Dio giorno dopo giorno. Tuttavia, nella parola ‘pane’ possiamo comprendere ogni necessità della vita: i commentatori dibattono se si tratta di beni ‘materiali’ o ‘spirituali’. Personalmente ritengo che essi non possano e non debbano essere contrapposti: nella richiesta del pane è racchiusa la domanda per tutto ciò che rende l’esistenza ‘umana’, ‘buona’. Chiediamo al Padre di donarci un’esistenza degna dei suoi figli, in cui la preoccupazione per la sussistenza non divenga un impedimento al servizio del Regno.
In questa chiave possiamo comprendere la seconda richiesta: «e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». Nessuna esistenza è pienamente ‘umana’, se vissuta nella paura del giudizio, della punizione. Chiediamo al Padre di rigenerarci con la grazia del suo perdono perché possiamo servirlo nella libertà. La richiesta è legata ad una condizione. Diversamente da Matteo, Luca usa un verbo nella forma presente, presentando il perdono come un’attitudine di vita, non un evento occasionale: non possiamo quindi chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella continua disponibilità ad offrire il perdono al fratello.
L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», chiede d’essere compresa alla luce dell’esperienza di Gesù. All’inizio del suo ministero, condotto dallo Spirito nel deserto, Gesù vive l’esperienza della tentazione. Il termine peirasmós, nella luce antico-testamentaria, può essere utilizzato per descrivere due esperienze: – la prova a cui viene sottoposto ‘l’amico di Dio’: pensiamo al sacrificio del figlio per Abramo o all’esperienza della malattia per Giobbe; – il momento nel quale la persona si interroga su Dio: «Sei proprio tu o dobbiamo aspettare un altro» (Lc 7,19)? Si tratta dunque di tentazione in senso radicale, non morale. Gesù nel deserto è dunque «messo alla prova» come Abramo o come Giobbe, come il popolo d’Israele. Gesù sceglie di essere totalmente figlio e di vivere la propria identità messianica in rapporto a questa identità fondamentale. Invitato ad essere il Messia del pane abbondante, sceglie di essere il Messia della Parola (cfr. 4,4); invitato a farsi Messia politico/teocratico, sceglie di essere il Messia del servizio di Dio (cfr. 4,7); invitato a chiedere miracoli di protezione, sceglie la fiducia in Dio, anche nella sofferenza (cfr. 4,12).

PREGHIERA - A questa scelta si manterrà costantemente fedele. Siamo anche noi tra quelli, Gesù, che credono di saper pregare e non ci sfiora neppure il dubbio che i nostri tentativi di metterci in comunicazione con Dio siano votati all’insuccesso.
Pretendiamo, Gesù, di insegnare al Padre quello che deve fare, ci arroghiamo lo strano diritto di piegarlo alla nostra volontà, di farlo agire secondo le nostre richieste. Tu ci insegni che la preghiera parte da un gesto di abbandono, dalla nostra disponibilità a realizzare i progetti di Dio non ad imporgli i nostri, a metterci per le sue vie non a spingerlo per i nostri sentieri.
Riteniamo che il Padre debba corrispondere alle nostre attese e così gli appiccichiamo sul volto la maschera di nostro gradimento. Ci illudiamo di poterlo comprare con le nostre invocazioni, con le nostre offerte, con i nostri gesti di devozione. Ma Dio è sovranamente libero e ha rivelato la sua identità attraverso le tue parole e i tuoi gesti. Nessuno può essere così stolto da costruirsi un’immagine arbitraria, un pupazzo che non corrisponde affatto al Padre che ci vuole suoi figli e tra noi fratelli.

501 - COME RICONOSCERE CHE DIO CI VISITA NEL QUOTIDIANO E COME ACCOGLIERLO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario

Se, per la Bibbia, Dio è Dio perché fa visita all’uomo – ogni uomo – attraverso il volto anonimo dell’altro uomo, quali le conseguenze di questa prospettiva per il cristiano? L’attenzione a questa prospettiva biblica suscita e alimenta una parola che è – dovrebbe essere – fenomenologica ed ermeneutica.
Parola fenomenologica vuol dire rispetto e attenzione al vissuto di ciascuno e di tutti: parola che non cade dall’alto, non esclude, non giudica, non condanna e non parte dal presupposto che ci siano esistenze da Dio abbandonate; parola che, piuttosto, parte dal basso, dalla trama delle relazioni umane, dall’intrigo dell’esistenza quotidiana dove l’io – ogni io – è alla presenza dell’altro che a volte è il nostro ‘inferno’ (per rifarsi alla celebre affermazione sartriana), ma altre volte il nostro ‘paradiso’. Fenomenologica è la parola che nasce dalla consapevolezza, fonte di umiltà e di indicibile prossimità, che Dio è anonimamente dentro questa trama di relazioni e che è qui dentro e non altrove che egli sta al fianco di ogni uomo e di ogni donna e, come vuole il veggente dell’Apocalisse, bussa alla porta dell’io perché l’io gli apra per cenare insieme (cfr. Ap 3,20). Parola fenomenologica è quella che, consapevole della presenza di Dio nel quotidiano di ogni esistenza (prima che nello spazio della coscienza riflessa, dell’appartenenza religiosa o della pratica liturgica), aiuta a decifrarlo e interpretarlo.
Cosa aggiunge alla parola fenomenologica la parola ermeneutica? Se, come vuole il filone vincente della filosofia del Novecento, la realtà si dà solo come pluralità di interpretazioni, la parola biblica è quella che interpreta l’umano alla luce dell’alterità divina che, come ha affermato Lévinas, si iscrive nel «volto» di ogni uomo che, per questo, come vuole il libro della Genesi, è «ad immagine e somiglianza» di Dio. Ermeneutica è la parola che, nutrendosi della potenza del racconto biblico, in ogni volto che all’io va incontro o che l’io incontra sa leggere e aiuta a leggere la presenza divina che vi riluce e comanda: parola che coglie, negli uccelli del cielo e nei gigli dei campi, il sorriso dell’amore divino che li nutre e li riveste di uno splendore ineguagliabile dal re Salomone (cfr. Mt 6,26ss.) o che, per ricorrere al linguaggio di Pavel Florenskij, fa dono di uno «sguardo [che] accarezza teneramente e coccola il segreto della realtà» (P. Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet 2011, 76); soprattutto però è la parola che, nella nudità del volto e di ogni volto, sente risuonare la potenza di una voce – la voce divina dell’amore – che chiama l’io ad uscire dal suo io e ad amare l’altro con lo stesso amore gratuito con cui Dio «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45).
Il grande scrittore russo Vasilij Grossman, testimone della distruzione dell’umano nei Gulag, all’ideologia del bene ideale ha opposto la piccola bontà quotidiana: «A fianco del minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile un vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti del suo simile, è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale» (V. Grossman, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, 405).
Non c’è esistenza per la quale prima o dopo l’altro – l’altro estraneo o nemico, ma anche l’altro degli affetti – non appaia al proprio orizzonte come limite invalicabile di fronte al quale arrestarsi, se non per convinzione, per necessità o calcolo (si pensi a tutte le volte in cui si è come costretti a «chiudere un occhio»!). La Bibbia come parola ermeneutica vuol dire che l’altro, quando si erge di fronte all’io sottraendosi al suo potere, non è né l’intruso da cui salvaguardarsi né l’inaggirabile ostacolo con cui venire a patti, bensì il ‘varco’ attraverso il quale la parola divina raggiunge l’uomo anteriormente alla sua stessa consapevolezza e conoscenza, la trascendenza penetra nella sua esistenza e l’assoluto – il Dio dell’amore che comanda l’amore – appella l’io all’impensabile esodo da sé all’altro elevandolo alla bontà ‘piccola’ e ‘quotidiana’ che sorregge il mondo e che, nel regno della disumanizzazione, è il principio stesso della riumanizzazione. Dal punto di vista biblico ermeneutica è la parola che, instancabilmente e in ogni istante, richiama, sollecita e risveglia l’io a questa bontà piccola e quotidiana che è la vocazione più alta dell’umano.

500 - COME RICONOSCERE CHE DIO CI VISITA NEL QUOTIDIANO E COME ACCOGLIERLO (prima parte)

Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario

Per la Bibbia non è l’uomo che va alla ricerca di Dio, bensì Dio che va alla ricerca dell’uomo, irrompendo nella sua vita in modo imprevedibile e imprevisto. Nell’ambito cristiano è stato il teologo protestante K. Barth ad avere riscoperto, agli inizi del secolo scorso, con forza inaudita, questa dimensione di irruzione del Dio biblico, denunciando come idolatrico e inconcludente qualsiasi tentativo, da parte dell’uomo, di arrivare a Dio sia attraverso la via della ‘ragione’ che attraverso quella del ‘cuore’: «Dio, il puro limite e il puro inizio di tutto quello che siamo, abbiamo e facciamo, Dio che sta di fronte in infinita differenza qualitativa all’uomo e a tutto quello che è umano e non è mai e in nessun luogo uguale a quello che noi chiamiamo Dio, che sperimentiamo, presentiamo, adoriamo come Dio, Dio che oppone a ogni inquietudine umana un: “Alt!” incondizionato e a ogni umana quiete un incondizionato: “Avanti!”, il “Sì” del nostro “No” e il “No” del nostro “Sì”, il Primo e l’Ultimo, e come tale lo Sconosciuto, Dio che non è mai una grandezza tra altre nella sfera di realtà a noi nota, Dio il Signore il Creatore e il Redentore è l’Iddio vivente» (in H. Zahrnt [ed.], Dialogo su Dio, Queriniana, Brescia 1976, p. 17).
Lo voglia o non lo voglia, sia agnostico, credente o non credente, l’uomo, per la Bibbia, è alle prese con Dio che, a sua insaputa, irrompe e si intromette nella sua vita. Ma dove e come? Il capitolo 18 della Genesi, la prima lettura della liturgia odierna, offre la risposta: «Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». Il luogo dove Dio incontra Abramo – dove gli appare, secondo il testo biblico, dove cioè gli si rende riconoscibile e visibile – non è il ‘tempio’, lo spazio del sacro, e neppure l’‘accademia’, lo spazio del sapere, bensì il ‘quotidiano’, lo spazio dell’esistenza ordinaria: la quercia, che rimanda al deserto; la tenda, che allude all’intimità della casa e degli affetti, e «l’ora più calda», il momento della minore attenzione e vigilanza. Alla luce di questo testo, la risposta alla domanda dove Dio ci viene incontro è disarmante: non nel sacro, non nello straordinario, non nel fenomenale, non nel prodigioso, non nel miracoloso, non nel liturgico, non nell’eccezionale (esperienze mistiche, estatiche o rare), bensì nell’ordinario più ordinario, che rasenta il banale dove l’io, piuttosto che al vertice della sua lucidità mentale, versa in uno stato di sonnolenza, dormiveglia o incoscienza. Ma ancora più paradossale è la modalità con la quale Dio entra nell’esistenza di Abramo: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Si faccia attenzione all’incongruenza narrativa: «Dio apparve ad Abramo», ma Abramo, alzando gli occhi, non vede Dio, bensì tre sconosciuti: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Dio, per la Bibbia, si fa presente e visibile all’uomo non come Dio, non come potenza straordinaria, seduttiva o attraente, bensì sotto mentite spoglie: senza nome il cui nome è il non-nome di ogni uomo. Se nei tre uomini che Abramo scorge al posto di Dio la tradizione mistica orientale ha intravisto il Dio uno e trino (si pensi alla celebre Trinità di Andrej Rublëv), più realisticamente la tradizione ebraica, coerentemente con il testo biblico, in essi ha visto il volto di ogni uomo e di ogni donna in cui Dio si incarna e attraverso il quale, come vuole il filosofo francese E. Lévinas, egli «visita» l’uomo: «La sua presenza consiste nel venire verso di noi, nel fare ingresso. Il che può essere formulato in questi termini...: il volto è visitazione» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, T. Pironti, Napoli 1979, 35). Il senso di questa ‘visitazione’ è di sottrarre l’io al potere dell’io – all’io inchiodato a sé nella sua ‘caverna egoica’ – per elevarlo, come Abramo, all’altezza di un io dimentico di sé e ospitale: «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione […] si muta in resistenza totale alla presa […]. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento e conoscenza» (E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, 203).

499 - MARTA E MARIA - 21 Luglio 2013 – XVIª Domenica del Tempo ordinario

(Genesi 18,1-10a Colossesi1,24-28 Luca 10,38-42)

Le due sorelle sono tra i personaggi più noti dell’opera lucana. Marta è chiaramente la padrona di casa e il secondo personaggio, Maria, è qualificato in rapporto a lei: «sua sorella». L’ospitalità offerta a Gesù ed ai suoi pone Marta in una luce favorevole. Dopo il rifiuto dei Samaritani, l’apertura della propria casa a Gesù la pone tra coloro che collaborano alla sua missione. Il versetto 39 offre al lettore un’icona vivace e contrapposta delle due sorelle: Maria, «seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi». Sembra che le due sorelle abbiano diviso tra loro la responsabilità dell’accoglienza: mentre Maria intrattiene l’ospite, Marta gestisce le varie attività connesse alla preparazione del cibo. La posizione «ai piedi del Signore» pone Maria nell’atteggiamento del discepolo (cfr. At 22,3). L’unica azione riferita a lei è l’ascolto della Parola, non la parola di Gesù, ma del ‘Signore’. Nel suo ministero pubblico Gesù dichiara che la propria famiglia è costituita da «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,19-21). L’ascolto rende dunque Maria di Betania discepola, madre e sorella di Gesù. Aggiungo che in un contesto culturale ‘patriarcale’, in cui non era consentito ad un Rabbì di insegnare alle donne, la sottolineatura lucana indica l’avvento di una modalità nuova di rapporti: nella famiglia di Gesù giudei e gentili, uomini e donne, possono riappropriarsi della propria vocazione originale di immagine e somiglianza di Dio, possono tornare ad essere semplicemente figli nel Figlio. Forse proprio l’atteggiamento ‘fuori luogo’ di Maria attira l’ira di Marta che, avvicinandosi al Signore con brusca familiarità, rimprovera indirettamente la sorella, manifestando la convinzione che Gesù condivida il suo punto di vista: «“Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”» (vv. 40-41). L’uso del termine ‘Signore’ insieme alla doppia ripetizione del nome Marta, conferisce un tono solenne alla risposta di Gesù. La risposta di Gesù conferma che il confronto non è tra ascolto e servizio, ma tra «molte cose» e «una cosa». Si tratta dunque dell’opzione tra uno stile di vita frammentario, o unificato attorno a ciò che è necessario; un’esistenza divisa tra molte cose o ‘semplificata’, focalizzata in una persona: il Signore. Pensiamo all’esperienza di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). L’io di Paolo è Cristo: tutto il resto è considerato da lui ‘spazzatura’: «…ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8). Matteo definisce questa stessa realtà come «cuore puro»: si tratta di un cuore unificato, trasparente; coloro che vivono così sono beati perché «vedranno» Dio, lo riconosceranno presente in ogni situazione, realtà, persona (Mt 5,8). Per chi possiede un cuore puro, per chi ha fatto suo l’io del Cristo, non esiste distinzione tra attività diverse: il servizio esprime l’obbedienza alla Parola. In questa luce Luca descrive il servizio come la caratteristica del discepolo, in quanto condivisione dello stile di vita del Maestro: «Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cfr. Lc 22,24-27). Marta, dunque, non è invitata ad abbandonare il servizio per sedersi con Maria ai piedi di Gesù, ma a vivere il servizio con un cuore unificato. Non diverrà allora una sequenza di ‘molte cose’ capaci di ‘distoglierla’ dall’accoglienza del Signore, ma la risposta libera e obbediente al suo Signore, colui che può dare ad ogni istante un valore eterno. In questo senso, Maria sta già ‘aiutando’ Marta a donare ad ogni cosa il proprio valore: fissa lo sguardo sul Signore e servilo…
Possiamo comprendere meglio l’atteggiamento delle due sorelle, se ripercorriamo la parabola del seminatore. Pensiamo alla distinzione tra «coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione» (8,14) e «coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (8,15).
Non conosciamo la risposta di Marta: come spesso accade, Luca lascia alcune righe vuote dove ognuno di noi può scrivere la propria reazione all’invito di Gesù.

PREGHIERA - Ti aveva chiesto di condannare l’atteggiamento della sorella e proprio lei, invece, finisce nel mirino, oggetto dei tuoi rimproveri. Un modo davvero strano, Gesù, per ringraziare la donna che, in fin dei conti, sta faticando anche per te, per una cena degna della tua presenza. Ma il tuo comportamento non potrebbe essere preso come un incentivo alla pigrizia, come una dissuasione dall’impegno, come un pretesto per sottrarsi al sacrificio e al dovere? Di primo acchito restiamo sorpresi perché ognuno di noi, in fondo, tifa per Marta e per la sua laboriosità, per il suo desiderio di far bella figura a costo di ammazzarsi di lavoro.
Ci schieriamo facilmente dalla parte di chi non si tira indietro e non riusciamo a capire quelli che se ne stanno con le mani in mano, che hanno sempre una scusa buona per svignarsela dai turni e dalle incombenze. Ma tu oggi ci insegni a distinguere, a discernere ciò che conta veramente, a non cadere vittime degli affanni e dell’agitazione e a trovare il tempo per te, per sedersi ai tuoi piedi.
Tu inviti la Marta che è in ognuno di noi a non trovare sotterfugi per sottrarsi alla preghiera e all’ascolto della Parola.

sabato 13 luglio 2013

498 - CHI È IL MIO PROSSIMO - 14 Luglio 2013 – XVª Domenica del Tempo ordinario

(Deuteronomio 30,10-14 Colossesi1,15-20 Luca 10,25-37)

La prossimità non si riduce a una questione di denaro offerto o ricevuto. Si fonda su atteggiamenti che possono essere vissuti in qualsiasi condizione. Per essere il prossimo di qualcuno, in primo luogo è indispensabile saper vedere l’altra persona nella sua concretezza, cogliendo quanto sta vivendo. Non è raro infatti che si viva una contiguità abituale e non si ‘veda’. Non ci si chiede cosa passi nella mente e nel cuore di un altro. Non si notano i suoi stati d’animo che corrono appena sotto pelle, spesso celati per pudore o per orgoglio. Per superficialità, per comodità, per quieto vivere si passa oltre. Si giustifica il disinteresse, dichiarando che si tratta di rispetto della privacy. Si alimenta così una solitudine reciproca che si comprende soltanto quando si vive in prima persona una condizione di bisogno. Non è detto poi che la prossimità, che si manifesta come gentile interessamento e come condivisione, sia da riservare ai casi di dolore o di povertà. Si può essere prossimi anche a chi è nella gioia o gode di qualche fortuna, partecipando sinceramente e superando una serpeggiante invidia che talvolta sa spingere a mormorare o a seminare sospetti.
Corrisponde alla prossimità evangelica quell’atteggiamento che non si concentra su se stessi e sui propri vantaggi. Lo vive chi è libero da un egoismo miope, superandolo non per attitudine spontanea, ma per scelta e per le virtù tipiche di una personalità matura. Questa capacità ha un risvolto anche nel modo e nei sentimenti con cui si affrontano le situazione difficili o dolorose: non si può avere la pretesa né di dissolvere il dolore altrui né di trovare soluzioni radicali e definitive per i mali dell’umanità. Se la sensazione di insufficienza e di dolorosa impotenza sono sentimenti sani, possono essere talvolta dovuti a una sorta di desiderio di onnipotenza come se con la propria buona volontà si potesse mettere fine al disagio. In realtà ogni essere umano può fare sempre e solo qualcosa per gli altri e per il mondo. La consapevolezza della vastità dei problemi come le guerre, la fame, le malattie, le distruzioni o le ingiustizie deve restare sempre viva e pungente, ma come stimolo a non arrendersi e a mettere in gioco quel poco o tanto che si può.
A questo punto allora può intervenire qualche altra considerazione: tenendo conto che allungare 20 centesimi a un mendicante non solo è offensivo, ma non dà alcuna soluzione ai suoi problemi se questi sono veri, si può reagire in modo diverso dicendo con gentilezza ma anche con fermezza: «Hai fame? Ti accompagno in quel bar per un pasto o un panino»; «Devi comprare il latte o i pannolini per il bambino? Ecco là un supermercato. Facciamo la spesa»; «Non hai lavoro? Vieni sabato a tagliare l’erba del prato». Questi esempi vorrebbero suggerire sia di non umiliare coloro che per qualsiasi motivo chiedono sia di offrire loro un aiuto se il bisogno è autentico, senza farsi prendere in giro. In fondo si tratta di dedicare alla persona che chiede un momento in più di quanto occorre per allungare una moneta.
Rivolgendo la parola al povero in strada per prendere atto della sua richiesta, si tratta la persona da persona e non da disturbo da scacciare. Si dà a chi chiede un frammento del proprio tempo. Ci si colloca proprio nella direzione indicata dal racconto evangelico: il samaritano vede, interviene, porta a termine il soccorso immediato, ma non rimedia soltanto all’emergenza. Si prende cura del bisognoso anche per il futuro. È proprio la continuità a fare la differenza perché un intervento nell’emergenza è comprensibile e forse comune, ma un aiuto che si prolunghi oltre questo è una scelta ponderata, onerosa più di un soccorso occasionale.
Il vangelo non dedica una parola per dire se quell’uomo aggredito e abbandonato sulla strada fosse buono o cattivo, onesto, simpatico o saggio. Si deve quindi concludere che l’aiuto è dovuto non per le qualità della persona colpita, ma solo perché è nel bisogno. Ci sono poveri insistenti e testardi, fastidiosi e senza senso della misura che non rinunciano a tallonare il passante per ottenere un’offerta, ma ci sono altri poveri, spesso i più pressati dal bisogno. Non si riconoscono a occhio nudo e non stendono la mano. Sono i ‘nuovi’ poveri, persone che hanno perso il lavoro, padri separati che non riescono a mantenersi dopo aver versato gli alimenti, famiglie che hanno perso la casa per un mutuo o un affitto che non possono saldare, anziani che non possono più vivere con la pensione che percepiscono … In genere si nascondono perché si vergognano della loro situazione come se fosse una colpa. Accade così che nessuno veda e si lasci che il bisogno li schiacci. In questi casi è solo una rete di rapporti umani che può accorgersi della situazione: vicini di casa, amici, parenti. Spesso è proprio questo che si è indebolito o addirittura dissolto.
Il card. Carlo Maria Martini ha reso popolare la comprensione del testo evangelico di Luca, trasformando la domanda «Chi è il mio prossimo?» in invito a «Farsi prossimo». Ci sono mille modi e mille strategie per dar seguito a questo invito, mettendo in conto che scegliere di accostarsi a qualcuno in difficoltà, talvolta scomoda, riserva incognite e non dà il diritto di aspettarsi un grazie. Alla fine la scelta di farsi prossimo comprende anche quella di lasciar andare per la sua strada chi è stato soccorso senza avanzare pretese o coltivare attese di perenne gratitudine.

PREGHIERA 
Hai rovesciato la situazione, Gesù. e hai dato alla parola ‘prossimo’ un significato imprevisto. Solo così, in effetti, si può venir fuori da quel tunnel senza via d’uscita in cui ci portano i nostri sospetti, i nostri rancori, le nostre inimicizie, le reti mortifere dei nostri pregiudizi, delle nostre paure, delle nostre reticenze.
Finché il prossimo rimane una persona da aiutare mi posso sempre permettere di scegliere, di distinguere, di tener ben separati gli amici dai nemici, i connazionali dagli stranieri, i simpatici dagli antipatici, i benevoli dagli ostili, i collaboratori dai concorrenti.
Le cose cambiano quando il prossimo è colui che aiuta ed io mi trovo nella sgradevole posizione di chi ha un assoluto bisogno di essere soccorso, aiutato. Allora non importa se colui che si ferma è addirittura uno straniero, un eretico, un nemico dei miei, un samaritano. Ciò che importa è che mi raggiunga il suo gesto di compassione che mi salva.

martedì 2 luglio 2013

497 - LA FATICA DI SCEGLIERE: COSA SARÀ MAI “CHIAMATA”?- 30 Giugno 2013 – XIIIª Domenica del Tempo ordinario

(1ºRe 19,16B.19-21 Galati 5,1.13-18 Luca 9,51-62)

Due elementi caratterizzano la vita nel tempo dell’abbondanza: il desiderio di indipendenza, di autosufficienza e, conseguentemente, l’autoreferenzialità, l’individualismo che considera la persona preziosa in sé e non in relazione all’altro. Da qui derivano molte delle situazioni che ci mettono sovente in difficoltà: • il fascino dell’efficienza accresciuto dallo sviluppo tecnologico sempre più sofisticato; • la pigrizia nell’approfondimento della conoscenza, che ci fa usare delle cose senza scoprire e valorizzare la logica più interiore che sta dietro la facciata di ogni realtà; • la velocità nel cambiamento degli scenari, che accresce il senso dell’onnipotenza e rende difficoltosa la memoria attenuando il valore dell’esperienza personale; • la difficoltà nell’accreditare la testimonianza altrui e nel medesimo tempo l’ingenuità di entrare senza il filtro dell’esperienza nel castello fatato dei maghi della pubblicità; • la partigianeria accentuata dal desiderio di affermazione e dalla sottovalutazione del diverso da noi; • la paura del definitivo, del “sì” senza ritorno. È ciò che sovente provoca il fallimento del patto matrimoniale e mina le vocazioni più forti, destinate a cambiare il corso della vita; • il prolungamento indefinito del tempo dell’adolescenza, che si spinge fino alla giovinezza inoltrata e addirittura al tempo della maturità, sempre più ritardato; • il bisogno di sicurezza, di essere coperti alle spalle; ed ecco i figli che non lasciano la casa paterna pur prendendosi le libertà e le autonomie che li pongono in contrasto di ideali verso i genitori. Si valorizza la casa come luogo di rifugio e nel medesimo tempo non si vuole rivestire “l’abito” della casa (con i conflitti ormai classici: «Questa casa non è un albergo!»).
La fatica di scegliere, nella società dei consumi, si è fatta improba. Fatica di scegliere e anche fatica vocazionale: sia esistenziale che professionale. Si entra nella vita non dalla porta di servizio, dove ci attendono gli abiti da lavoro, il grembiule e un maestro che ci insegna l’arte di comporre le tessere del mosaico “esistenza umana”. Si pretende di entrare dalla porta principale (o meglio, gli adulti pretendono di fare entrare i figli da tale porta), aperta a tutti e spalancata, dove i servitori attendono e la tavola è sempre imbandita.
Il regno della libertà è sovente abitato da persone con gli occhiali dalle lenti deformanti. Si cerca una libertà intesa come “non scelta” e conseguentemente come “non vincolo”. La libertà non è ‘indifferenza’. La libertà più vera non è quella che ci libera dagli altri o dalle cose, ma da noi stessi.
In questo contesto risuona l’appello evangelico di Gesù: «vieni e seguimi». L’atteggiamento di Cristo che chiama è: • di rispetto totale della persona nel fare la proposta e nell’attendere risposta; • di pazienza perché la maturazione ha bisogno del suo tempo; • di rispetto anche per i ‘resti’ («Raccogliete i pezzi avanzati», «Non spegnete il lucignolo fumigante»); • di superamento delle barriere e delle differenze: chiamata rivolta a tutti, raccolta degli invitati tra i poveri “della strada”; • di superamento dei pregiudizi (Gesù tocca ammalati e impuri); • di tenacia nel perseguire la salvezza di tutti (in cerca della “pecorella smarrita”).

La risposta è differente: • ci sono persone in attesa di un messia che assecondi il loro desiderio di salvezza, ma che hanno già bene in mente quale salvezza debba essere; • altri sono liberi da precomprensioni e attendono il Messia come il Cielo lo invierà; sono disposti a leggere i segni dei tempi come i re magi, come i pastori, come Maria nel tempo dell’incarnazione, come i lebbrosi, il centurione, le donne accanto a Gesù nella vita pubblica, come gli apostoli risanati nello Spirito, i discepoli di ogni parte del mondo conosciuto nel tempo della Chiesa; • ci sono minoranze di integralisti che intendono la chiamata come un arruolamento militare, ‘talebano’, e si incaricano della salvezza del mondo facendo saltare le cervella al prossimo; • ci sono testimoni tiepidi in gran quantità, mossi dall’emozione appena sentono la voce che chiama, ma distratti ed in altre cose affaccendati, continuamente rivolti a guardare indietro; • ci sono testimoni coraggiosi, disposti a giocare la vita in una battaglia di risonanza pubblica con il rischio di subire il fascino del potere e di scambiare il coraggio con il desiderio di successo; • c’è poi l’esercito dei senza nome che accettano la vita come un dono e una responsabilità, che seguono il Signore in silenzio, talvolta senza distinguerne chiaramente la voce.

Un tempo i catechisti per indicare le possibilità di risposta alla chiamata del Signore dicevano: «Ci sono due vie: una stretta e scoscesa che sale verso il paradiso; una larga, comoda e lastricata che conduce, scendendo, all’inferno». Oggi la strada larga e lastricata, anziché essere quella del vizio e del peccato, rischia di essere quella dell’indifferenza, della non passione e della non identità. Forse non condurrà diritta all’inferno perché al Signore sta più a cuore la nostra vita di quanto non stia a cuore a noi stessi. Tra la morta gora dell’indifferenza e del qualunquismo e il muro dell’integralismo passa la via della responsabilità assunta con pazienza e tenacia, senza pretese di verità possedute o di chiavi messe in tasca (i ‘maestri’ d’Israele chiudevano la porta e ne nascondevano la chiave), umile e gioiosa, aperta al futuro e serena nelle sue memorie. Questa è la via del Regno, che ci indica il Signore Gesù quando chiama e dice: «Chi vuole essere il mio discepolo prenda la sua croce e mi segua», «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», «Se il seme caduto a terra non muore non porta frutto».

PREGHIERA
Il tuo percorso, Gesù, è giunto ad una svolta decisiva: tu vai verso Gerusalemme perché è lì che la tua missione trova il suo compimento, è lì che avverrà quel passaggio doloroso che sfocerà nella risurrezione e nella gloria.
Sarai giudicato e condannato, inchiodato ad una croce come un ribelle, un malfattore, ma il tuo sangue salverà l’umanità e costituirà il sigillo indelebile per un’alleanza nuova ed eterna tra Dio e tutte le sue creature.
Ti dirigi verso Gerusalemme, risoluto e fiducioso, anche se sai che ti attendono la sofferenza e la morte. Sei disarmato e privo di appoggi: non hai più un villaggio, non hai una casa tua, non hai persone votate alla tua incolumità, alla tua difesa. Conti solamente sull’amore del Padre che ti ha mandato, sulla presenza dello Spirito che non viene meno. Ecco perché chiedi a chi ti vuol seguire la tua stessa risolutezza, la tua stessa fiducia, la tua stessa povertà, nel vivere un distacco che è solo l’inizio di un cammino di sacrificio e di offerta.

lunedì 24 giugno 2013

496 - Per una pausa spirituale durante XIIª Settimana del Tempo ordinario

Il punto di partenza per l’elaborazione di una risposta all’interrogativo proposto dal titolo, è la riflessione sul modo con cui Gesù ha vissuto l’esperienza del soffrire. Se nei vangeli non vi sono tracce per concludere che il Cristo sia stato vittima di malattie, ciò non significa, però, che egli abbia evitato di pagare il suo tributo alla sofferenza. L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, definisce i giorni della vita terrena di Gesù «come i giorni della sua carne» (5,7). La carne parla della fragilità, dell’imperfezione della sua natura umana, non ancora nella gloria; carne che segna l’umanità di Cristo.
Come ogni essere umano, Gesù ha provato i quotidiani dolori, la fatica, la tentazione, l’insuccesso, il pianto. Il racconto delle tentazioni nel deserto, il turbamento di fronte alla sorte drammatica che l’attendeva, la difficoltà di far maturare negli apostoli la giusta comprensione della sua identità e della sua missione, le lotte sostenute con i numerosi avversari… parlano della sofferenza vissuta da Gesù per chiarire la sua vocazione e per rimanervi fedele fino alla fine. La tristezza e il pianto non gli sono estranei. Contemplando Gerusalemme, Gesù si commuove per la mancata corrispondenza del popolo al suo messaggio di salvezza. La morte degli amici lo racchiude nel silenzio e gli provoca le lacrime. Nel vangelo di Giovanni si parla del suo pianto per la morte di Lazzaro (Gv 11,33-35): «Gesù allora, quando la [Maria] vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere”. Gesù scoppiò in pianto».
È quindi possibile ritenere che le parole dell’autore della lettera agli Ebrei: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4, 15), siano applicabili non solo all’episodio culminante della croce, momento in cui ha sofferto le nostri notti più scure, la morte corporale e la notte della fede, ma a tutta la vita del Cristo.
Partecipe della condizione umana, anche nei suoi aspetti negativi, Gesù ha indicato il cammino da seguire per impedire che la sofferenza si trasformi in un elemento distruttivo della persona. Infatti, come ha scritto Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica Christifideles Laici, nell’essere umano che soffre «sono messe a dura prova non solo la sua fiducia, ma anche la stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre» (n. 54). Senza toglierne il carattere misterioso, con la sua passione Gesù ha fatto entrare il soffrire – come si afferma nella letteraapostolica Salvifici Doloris (n. 18) – «in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine», legandola all’amore, «a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male». Quanto Isaia affermava del Servo di Yhwh: «Per le sue piaghe siamo stati guariti» (53,5), ha trovato piena realizzazione in Gesù. Caricandosi delle nostre infermità e addossandosi le nostre malattie, come si legge in Matteo (cfr. Mt 8,17), il Cristo ha reso possibile dare un senso alle esperienze negative della vita, il senso cioè che hanno avuto per lui che le ha vissute come espressione del suo amore salvifico. La sofferenza ha cooperato ad aprire il cuore di Gesù, lasciando che la gente vi entrasse. Come afferma Urs von Balthasar: «L’apertura del cuore è elargizione, per un uso pubblico, di ciò che è più intimo e personale; lo spazio aperto e svuotato è accessibile a tutti».
L’imitazione di Gesù servo sofferente ha accompagnato innumerevoli persone a fare del soffrire una fonte di guarigione e di salvezza per sé e per gli altri. Grandi santi e comuni credenti hanno tratto dalla loro esperienza di dolore una generosa dedizione e un amore senza confini. Dalle loro testimonianze appare che le ferite che ci fanno soffrire non sono necessariamente destinate a distruggerci. Assunte, integrate e redente, esse possono contribuire alla crescita della persona, abilitandola a trasmettere, con accenti carichi di umanità, l’amore salvifico e sanante di Cristo. Tale operazione è resa possibile nella misura in cui il dolore è tolto dal proprio ambito egocentrico, individualista e privato, e unito con il dolore di tutta l’umanità, assunto dal Cristo. Quando ciò avviene, l’esperienza sofferente dell’uomo costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
La capacità di connettere le proprie sofferenze alla sofferenza di Cristo è un dono a cui l’uomo può aderire, accogliendolo con gratitudine. Infatti, «ancor oggi, come buon samaritano, Gesù viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza», soprattutto attraverso i sacramenti, simboleggiati dal sangue e dall’acqua effusi dalla ferita del suo fianco.
Evitando la tendenza deviante del dolorismo – consistente nell’interpretare il dolore come elemento che ha un valore in sé, a volte persino esaltandolo o, in casi estremi, persino ricercandolo – il credente è chiamato ad imitare il Christus patiens – che fa del suo soffrire un’espressione di amore – per potere così imitare anche il Christus medicus, divino samaritano delle anime e dei corpi.

495 - LA VIA VERSO LA VITA - 23 Giugno 2013 – XIIª Domenica del Tempo ordinario

(Zaccaria 12,10-11;13,1 Galati 3,26-29 Luca 9,18-24)

«Poi Gesù, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?”» (Luca 9, 23-25). Questa frase è stata interpretata in modi molto diversi, come richiamo all’ascesi, alla mortificazione, all’accettazione di umiliazioni spesso ingiustificate, ma presenti in ogni percorso umano. Talora è stata abusata per giustificare un atteggiamento passivo di fronte ad ingiustizie presenti in ambito civile ed ecclesiale. Nel tentativo di comprendere il testo, iniziamo ad analizzarne la struttura: si tratta di una condizionale in cui si prospetta la situazione di qualcuno che liberamente sceglie di seguire Colui che ha appena annunciato il suo destino di «Cristo di Dio», perseguitato, ucciso, risuscitato. Per seguirlo, il discepolo deve operare alcune scelte.

• La prima: «rinneghi se stesso». Il verbo, anche se talora indica apostasia, non ha di per sé una connotazione negativa. Indica la negazione di un dato o di uno stato precedente: se riferito ad un rapporto personale (in questo caso con se stessi), indica separazione. Si tratta dunque di quella che potremmo definire una presa di distanza da se stessi.

• Il secondo verbo prosegue sollecitando il discepolo a «prendere la sua croce ogni giorno». L’interpretazione del termine ‘croce’ ha assunto sfumature diverse: per qualcuno ricorda il ‘tau’ (Ez 9,4.6) posto come segno di protezione e sigillo di appartenenza sulla fronte dei fedeli (Ap 7,2). Nel linguaggio cristiano è divenuta segno dell’appartenenza a Cristo. Non penso dunque che in questo contesto indichi sofferenza accolta o autoinflitta, ma rappresenta il segno di un’appartenenza totale in cui la persona si gioca tutto. Il cambio di prospettiva implica una salvezza che non passa per la strada dell’affermazione di sé, della ricerca idolatrica della propria affermazione, ma nell’appartenenza al Messia crocifisso. La croce del Cristo di Dio diventa la ‘nostra’ croce, perché la scelta per lui è – e può essere – soltanto personale.

 • In questa luce il terzo imperativo «mi segua» indica distacco da se stesso e appartenenza a Cristo manifestato nella sequela. L’aggiunta di Luca «ogni giorno» sottolinea la perseveranza richiesta: non è una decisione presa una volta per tutte, ma è una scelta ripetuta istante dopo istante. Seguire Lui per divenire Lui, per fare dell’ ‘io’ del Cristo il proprio ‘io’. È quello che Paolo esprime in termini diversi: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più ‘io’ che vivo, ma il Cristo vive in me» (Gal 2,19-20). Ai discepoli non è dunque richiesto di ‘capire’, ma di ‘seguire’ il Cristo di Dio, un Messia crocifisso: i versi che seguono ne chiarificheranno la ragione.

 • Qui il discepolo mette in gioco la sua vita. Il termine tradotto con ‘vita’ è psychḗ, un termine greco che designa la parte dell’uomo che sopravvive alla morte, l’anima. Ma nel contesto semitico, dove non esiste distinzione tra corpo ed anima, indica l’esistenza concreta, la persona nella sua individualità. I due versetti si riferiscono dunque alla vita reale di una persona nel suo rapporto con il Cristo: «per causa mia». Salvare e perdere la vita indicano allora due opzioni: vivere in funzione di se stessi o vivere per Cristo, abbracciando la logica del Regno. L’opzione è tra la scelta di fare di se stessi lo scopo ultimo della propria esistenza, trasformando il sé in un idolo, o di offrire la propria vita come dono nella sequela del Messia, abbracciando la sua mentalità, i suoi valori, condividendo i suoi sentimenti e la sua passione per il Padre ed il fratello. È la migrazione da una vita chiusa in se stessi ad una aperta all’irruzione di Dio. Siamo dunque ben lontani dal distacco stoico dalla realtà, dall’ascesi fine a se stessa e auto-gratificante. Il testo indica che soltanto chi sceglierà di fare della propria vita un dono, di porre il Regno come ragione delle proprie scelte, scoprirà il significato ‘pieno’ della vita.

PREGHIERA
Sono in molti ad attendere il Messia, ma ognuno se lo raffigura a modo suo, illudendosi di pensare come Dio. Ecco perché, Gesù, tu non esiti, subito dopo la risposta di Pietro, ad evocare uno scenario imprevisto. Sognano la gloria e tu, invece, passerai attraverso l’umiliazione; pensano al potere, all’esibizione della forza, mentre vai incontro alla sofferenza; si immaginano un consenso strepitoso e tu, al contrario, verrai rifiutato, condannato dalle autorità religiose e dal rappresentante di Roma.
No, non sei decisamente il forte che scaccerà gli occupanti, il pio che restituirà il Tempio allo sfarzo dei tempi antichi e neppure il giudice implacabile che colpirà i malvagi.
Tu sei il servo, disposto a soffrire per la salvezza di tutti. Tu sei il Figlio, obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte di croce. Tu sei il misericordioso, che perdona anche quelli che lo uccidono. Tu sei il povero, che si dona interamente, sicuro che Dio non lo abbandona. Così tu salverai il mondo: ecco perché ci proponi la tua stessa strada, percorso di morte e di risurrezione.

494 - L’AMORE DI DIO VINCE IL PECCATO - 16 Giugno 2013 – XIª Domenica del Tempo ordinario

(2ºSamuele 12,7-10.13 Galati 2,16.19-21 Luca 7,36-8,3)

È ancora una donna a porsi oggi come mater et magistra per l’intera Chiesa. Una donna che, per ciò che è, e per ciò che fa, sfida l’onorabilità di una casa ed il rigore nell’osservanza della Thorà del suo proprietario. Da buon fariseo questi si indigna per una presenza tanto ingombrante da farlo persino dubitare sulla consistenza profetica di Gesù. A questo dubbio la pagina evangelica risponde sottolineando la capacità di Gesù, tipicamente divina, di conoscere i pensieri del cuore (cfr. Salmo 138), e di educare un popolo dalla dura cervice. Gesù non giudica né la donna né il fariseo. Semplicemente li prende per mano, li porta a fare un esame di coscienza, a lasciarsi giudicare dalla voce interiore di Dio, e a comprendere che l’etichetta è un fatto umano, mentre l’amore è l’habitat divino.
Dio, che è amore, si riconosce naturalmente nell’amore, non nel protocollo, e dove trova amore lo porta a compimento con un perdono che eccede qualsiasi misura umana. L’amore chiama amore, e l’incontro del povero amore umano con l’immenso amore divino non può che avere, come effetto, la salvezza della vita, la risurrezione della vita. Credere che questo amore vi sia, e sia possibile per qualsiasi essere umano, è ciò che, veramente, conferisce un volto nuovo, una consistenza inedita, alla vita umana.
Mentre il fariseo che ha invitato Gesù in casa sua rischia di continuare a portare sulle sue spalle il fardello dell’«uomo vecchio», a motivo della impenetrabilità in lui dell’amore e del perdono di Dio, la donna sperimenta, invece, la condizione dell’«uomo nuovo», poiché assume con i suoi gesti la cittadinanza del mondo dei salvati; constata su di sé la personale restaurazione e l’instaurazione di tutte le cose in Cristo; ritrova la perduta dignità creaturale; e si sente, a pieno titolo, appartenente alla famiglia di Dio. Il ‘metanoêite’ evangelico, il cambiare testa ed il cambiare comportamenti, può apparire intollerabile a chi lo riduce ad un puro sforzo etico, ma diventa estremamente facile, ed assolutamente necessario, se ci si lascia avviluppare da un amore che ci precede, ci accompagna, ci segue, e ci sovrasta. Se non si entra in questa logica del nuovo ‘essere’, prima che del nuovo ‘fare’, la conversione sarà sempre un itinerario ascetico pressoché impraticabile e, quindi, fatalmente ed inesorabilmente abbandonato al primo sforzo ‘eccessivo’ per un cuore abituato solo alle mezze misure. Come Simone è stato invitato a specchiarsi in questa donna, volgendo su di lei lo sguardo non del giudice minaccioso, ma del Dio misericordioso, così anche noi siamo invitati a specchiarci in questa salvata dalla misericordia, per verificare se, nel cuore di ciascuno, vi è almeno una scintilla dell’amore, capace di far scoccare questo felice incendio che lei ha sperimentato, oppure se ci troviamo ancora parcheggiati su una sorta di iceberg che impedisce a qualsiasi fiamma di prendere corpo.

PREGHIERA
Ne ha avuto di coraggio quella donna pur di raggiungerti, Gesù, nel bel mezzo di un pranzo. È una peccatrice, una che certo non gode di buona reputazione: del resto, con il suo stesso aspetto, con il suo trucco marcato, con i suoi abiti sgargianti, con i suoi capelli sciolti dichiara la sua identità.
Sa, dunque, di non essere bene accetta nella casa dei benpensanti, dei devoti, dei pii che osservano ogni regola con scrupolo e la considerano una creatura perduta. Ma a lei non importano i giudizi che fioccheranno alle sue spalle, la faccia offesa e risentita del padrone di casa e dei suoi invitati. A lei interessi tu: cerca proprio te e un contatto che avrebbe messo in imbarazzo ogni uomo.
Bagna i tuoi piedi con le lacrime, li asciuga con i suoi capelli, li copre di baci e li cosparge di profumo. Tu la lasci fare perché vedi quello che sfugge a tutti: il suo amore e il desiderio struggente di trovare pace e misericordia. Allora non ti tiri indietro e osi addirittura sfidare chi ti ospita: dichiari infatti che quella donna lo precede di gran lunga nei sentieri del Regno.
 

493 - DIO HA ANCORA COMPASSIONE DI NOI?

Per una pausa spirituale durante xª Settimana del Tempo ordinario

Dietro la madre del vangelo di domenica (Luca 7,11-17) vi è una lunga fila di madri come lei: quelle che hanno perso un figlio in un incidente stradale; quelle che l’hanno perduto, rapito da una malattia precoce e crudele; quelle che l’hanno perso perché le scelte della vita l’hanno portato sulle strade del prodigo, a buttar via la propria esistenza nell’illegalità, nel disordine, nella droga, nel non senso. Il pianto di una madre che ha perso un figlio può essere il simbolo di tutti i dolori che suscitano domande drammatiche, senza risposta ragionevole. L’unica risposta che accetterebbero è quella del gesto di Gesù: la restituzione del figlio alla vita!
L’esperienza del dolore, soprattutto di quello che ferisce negli affetti più cari, è fonte di tanti drammatici interrogativi, che sono quelli che si fa Giobbe davanti ad un Dio che lo ha privato di tutto e lo ha reso come un rifiuto di umanità: perché? Perché questa malattia? che cosa abbiamo fatto di male? perché proprio a noi? E poi le più difficili: se Dio c’è, perché permette questo? se Dio è buono, perché permette questo male che ci ferisce, che ci toglie la voglia di vivere, che rende la nostra esistenza amara e senza senso?
Forse qualcuno si pone questi interrogativi; qualche altro rimane muto, come svuotato da un dolore che sembra togliere la vita, anche a chi le sopravvive. Si vorrebbe vedere arrivare Gesù con il suo seguito di discepoli e di folla, e pronunciare anche per noi le parole che restituiscono la vita: «Dico a te: àlzati!». Ma Gesù non arriva in questo modo, e il racconto del vangelo di questa domenica potrebbe apparirci una bella favola: bella come tutte le favole, ma senza consolazione nella sua vacuità. Dio ha ancora compassione di noi? Non appare Gesù a restituire la vita, ma egli si presenta con un’altra immagine: quella di un uomo sfigurato dal dolore, che cammina verso il luogo del suo supplizio, che viene inchiodato ad una croce su cui agonizza per ore, in attesa che le leggi della natura facciano il loro corso e che il Padre lo accolga. Anche a noi viene da gridargli, come quelli che stavano ai piedi della croce: «Se sei figlio di Dio…» compi ancora un miracolo; scendi dalla croce, risana tutti i malati, vieni a risuscitare i nostri morti. Lui ci risponde con il suo silenzio, e poi con le parole dell’abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E noi siamo ributtati nella nostra lotta con Dio, a decidere se restare chiusi nella nostra rabbia amara contro la vita, o arrenderci facendo nostro l’atteggiamento di obbedienza e di fiducia di Gesù. Dio ha ancora compassione? La compassione di Dio oggi è quel Figlio appeso alla croce, carico della sofferenza di tutta l’umanità, quel dolore e quel male che solo l’amore possono vincere. Davanti al volto sfigurato e umiliato di questo Uomo è impossibile non provare compassione; e avvertire che il nostro cuore è preso da un sentimento che ci trafigge il cuore, come al centurione che davanti al modo con cui muore questo uomo innocente capisce che solo Dio può avere nel cuore un amore così grande da accettare la morte con tanta mitezza: «Veramente questo uomo era il figlio di Dio!», esclama. Anche i due che sono crocifissi con Gesù, uno alla destra e uno alla sinistra, stanno quasi a simboleggiare un’umanità che si divide davanti a lui: vi è chi è convinto dalla sua testimonianza di amore e chi sente che proprio questa morte accresce la sua rabbia e costituisce motivo di scandalo. Dio ha ancora compassione, ma tocca a noi decidere se vogliamo riconoscerla nel volto dell’Uomo della croce o se vogliamo respingerla. La lotta dell’uomo con Dio continua nel tempo e si distende, giorno dopo giorno, lungo i secoli. Ho conosciuto persone che davanti alla sofferenza si sono intristite nella rabbia e nell’amarezza verso la vita, verso Dio e verso gli altri, e hanno quasi smesso di vivere. Altri nelle stesse circostanze hanno trovato la compassione di Dio, immergendosi nella misteriosa compassione per Dio. Ricordo Alessia, un’adolescente che a quattordici anni ha scoperto di avere un tumore devastante. Ha passato i primi mesi a imprecare contro la vita, a piangere e a lottare, con coraggio e determinazione. Poi, a poco a poco, ha cominciato a entrare nel mistero del dolore, ha scoperto che vi è Dio che ama tutti, anche i giovani malati di tumore. Nelle ultime settimane di vita, a chi l’ha accompagnata nel suo calvario, confidava che aveva scoperto l’altezza, la larghezza e la profondità dell’amore di Dio e che viveva in esso. E provava compassione per tutti i giovani che avevano una malattia diversa dalla sua e per certi versi più grave: il cuore vuoto, la testa piena di cose futili e la mancanza di un senso alla loro vita. È morta indicando nell’arcobaleno, ponte tra cielo e terra, il modo per continuare a rimanere in comunione con le persone che aveva avuto care. E testimoniando che quando si prova compassione per gli altri, si riesce ad entrare nella compassione di Dio e ad esserne consolati.

492 - GESÙ CRISTO HA VINTO LA MORTE - 09 Giugno 2013 – Xª Domenica del Tempo ordinario

(1ºRe 17,17-24 Galati 1,11-19 Luca 7,11-17)

È veramente una notizia straordinaria, quella che la liturgia della Parola oggi ci comunica. Ancor prima, e ancor più, del fatto che Dio sa, può, e vuole, risuscitare i morti (cosa vi è di straordinario per Dio in ciò?), è rilevante e consolante la motivazione soggiacente: Dio freme di compassione per l’uomo che soffre e che muore.

LA COMPASSIONE DI DIO. Sì, Dio è esperto nell’arte di ‘com-patire’. Dio, cioè, sa soffrire insieme a noi, e sa amare noi e le nostre vicende. In lui la ‘passione’ è, insieme, sofferenza e slancio amoroso. La buona notizia sta appunto nel fatto che abbiamo a che fare con un Dio visceralmente compassionevole, totalmente partecipe delle nostre croci, assolutamente presente su tutti i nostri calvari, perennemente inchiodato a qualsiasi legno doloroso gravi sulle nostre spalle. Scrive in proposito il convertito André Frossard: «Se per salvare gli uomini la giustizia e la misericordia potevano benissimo fare a meno del Calvario, per l’amore non esisteva altra via».

IL LIBERATORE DA QUALSIASI TIPO DI MORTE. Ma la notizia ancora più significativa è che Gesù Cristo non si è rivelato fonte di risurrezione e di vita unicamente di fronte alla morte fisica, che, in taluni casi, è invocata da qualcuno, o attesa da chi riconosce che non vi è proprio più niente da fare e l’unica speranza rimasta è che venga presto la sera di certi drammatici e interminabili ‘venerdì santi’. Gesù Cristo, Messia e Signore compassionevole, è Colui che sa ridare vita a situazioni di morte spirituale e morale perduranti mesi e anni, ad agonie di umanità e di coscienza che rischiano di devastare non solo i soggetti che ne portano il peso, ma anche il contesto familiare o sociale che li circonda. Penso a menti, a coscienze, ad anime, a cuori, derubati di tutto ciò che è nobile e prezioso, e ricolmati dal ciarpame assurdo delle futilità che offendono la vita, perché la privano di senso, e la uccidono interiormente.
Gesù Cristo ci offre una lezione di umanità straordinaria e quanto mai necessaria per una società che si sta diseducando e disamorando alla compassione ed alla misericordia, una umanità che abbrutisce per il fatto di voltare le spalle al comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso», per abbracciare la logica infame della regola alternativa al comandamento di Dio: «frega il prossimo tuo, prima che lui freghi te!!!». L’epidemia di indifferenza – «il più grave di tutti i peccati» l’ha definita qualcuno – che sta dilagando nelle nazioni che tentano di aggrapparsi ai relitti del benessere, dichiara palesemente come la compassione vera e profonda non è una specialità umana, ma è un’arte divina tanto necessaria quanto pregiata, perché sa compiere autentici miracoli.

CHI È COSTUI?. Incomincia a delinearsi, grazie a queste pagine scritturistiche, l’identità di Colui che è risurrezione e vita, non solo per singole persone, ma per razze e culture, per popoli e società. Ovunque la morte regni incontrastata nelle coscienze personali e sociali, Cristo, scontrandosi con la morte, e vincendola, si rivela Signore della vita. Egli non ha bisogno, come i profeti veterotestamentari, di mediazioni operate mediante verba et gesta. Egli è la Parola forte che, una volta pronunziata, ha la stessa efficacia della parola di Dio effusa sulla creazione, anzi, di più, perché là era un infondere vita dal nulla, mentre qui è un suscitare vita addirittura dalla morte. Egli è il gesto di amore intenso che il Padre pone, e che possiede quella forza inaudita raffigurata ed immortalata in modo sublime da Michelangelo sul soffitto della cappella Sistina. Il problema, per noi, sta nel riconoscerlo per ciò che è, poiché ci sentiamo fortemente e direttamente interpellati da quella domanda cruciale che Gesù Cristo porrà alla sorella di un altro uomo da lui risuscitato: «Credi tu questo?». Ci aiuta a rispondergli l’anonima vedova di Sarepta di Sidone: «Ora so che tu sei» non semplicemente «un uomo di Dio», ma il Figlio di Dio! Tu sei Dio stesso. Lo sappiamo bene che, nel contesto socioculturale odierno, siamo rimasti in pochi a professare esistenzialmente questa fede e che, in mezzo a tanti cristiani, serpeggia la stessa radicale incredulità che regnava in Israele, o dilaga il fascino per teorie esotiche quali la reincarnazione, ma, proprio per questo, ancora di più, siamo sollecitati dall’Anno della Fede che stiamo celebrando e vivendo, a dichiarare apertis verbis, con franchezza, con coraggio, e con gioia, che Gesù Cristo è il Signore, il Crocifisso ed il Risorto, il Vivente per sempre, il Signore del tempo e della storia, dell’oggi e dell’eternità.

PREGHIERA
È la compassione a muoverti: tu, Gesù, partecipi al dolore straziante di quella donna che ha perso il marito e ora anche l’unico figlio. Tu, Gesù, ti lasci colpire dalla sua pena, dalla sua solitudine, dal suo dolore. E le mostri che niente, neppure la morte, risulta ineluttabile ai tuoi occhi. Le riveli che tu puoi sconfiggerla proprio quando essa appare nel suo potere devastante, proprio quando sembra che nulla possa arginare il suo dilagare nella nostra vita.
Quel giorno, sulla via del cimitero, tu ti sei manifestato per quello che sei veramente: colui che ama la vita e lotta, a mani nude, contro qualsiasi morte che deturpa e lacera, che colpisce tutti impunemente. Sì, tu l’affronterai la morte, e ne sperimenterai l’angoscia, offrirai il tuo corpo perché venga percorso dagli spasimi dell’agonia, e riuscirai a sconfiggere il nostro nemico mortale proprio mentre riteneva di averti sopraffatto.

491 - PER LA VITA DEGLI UOMINI - 02 Giugno 2013 – SS. Corpo e Sangue di Cristo

(Genesi 14,18-20 1ªCorinti 11,23-26 Luca 11b-17)

La festa odierna richiama la nostra attenzione sul mistero eucaristico. Chiediamoci da dove nasce la necessità di riflettere nuovamente sul dono del Corpo e Sangue del Signore, dopo averlo celebrato nel contesto del Triduo pasquale. Forse perché la quotidianità di questo mistero rischia di trasformarlo in routine. Forse perché una certa formazione catechetica ne sottolinea la componente intimistica, trasformandolo in un incontro ‘personale/sentimentale’ con il Cristo, da vivere nel silenzio e nell’adorazione. Tra tutti i sacramenti l’Eucaristia è certamente quello più frequentemente celebrato, perché il più necessario, ma, proprio per questo, il più a rischio, il più vittima dell’abitudine che logora il Mistero. Non è dunque per un desiderio di rievocazione storica del miracolo di Bolsena, che, ogni anno, celebriamo la solennità del Corpus Domini, ma perché abbiamo continuamente bisogno di concentrare la mente ed il cuore sul Mistero per eccellenza e per antonomasia.
È la parola di Dio che aiuta la Chiesa a scoprire e a ri-scoprire le mille sfaccettature di questo splendido ‘diamante’ eucaristico. E la nostra non può, non vuole, non deve essere una contemplazione avulsa dal vissuto, perché il motivo sostanziale per cui noi celebriamo il Mistero eucaristico sta nel fatto che desideriamo costruire una graduale conformazione a Cristo, componendo così il suo Corpo, che è la Chiesa, ed edificandolo. Una Chiesa che sia Eucaristia tanto quanto l’Eucaristia che celebra: questo è il fine del Sacramento eucaristico. L’Eucaristia è un mistero di rendimento di grazie. Lo svelarsi di questo tipo di Mistero, nella narrazione evangelica di oggi, è causato non solo da una oggettiva fame che attanaglia una folla sterminata, ma, ancor più, da una forma di grettezza dei discepoli, che ragionano in termini di puro assolvimento del dovere, in termini di «ministero a tempo», sancito da tabelle ‘sindacali’: scaduto il tempo, tutti a casa! Gesù, come sempre, coglie al volo la situazione e se ne serve per educare i discepoli, ancora lontani da una condivisione di mente e di cuore con i pensieri di Gesù e con l’amore di Gesù. Essi denotano sì la capacità di condividere le cose, ma non ancora il coraggio di condividere se stessi, mentre Gesù li porterà gradualmente al banchetto dell’ultima sera della sua vita, buttandoli a capofitto nel Mistero del donare se stessi sino all’effusione del sangue. E questo è l’unico e vero rendimento di grazie possibile per il dono della vita, di quella fisica e di quella spirituale, della vita dei figli, immeritatamente donataci e compresa come dono, solo nella misura in cui essa stessa diviene, a sua volta, dono.
Questo è il rendimento di grazie che si eleva nell’Eucaristia, per il dono che riceviamo e per il dono che diventiamo. Ogni Eucaristia ci ricorda e ci ammonisce che le cose che doniamo, se non comportano il dono di noi stessi, non sono donate, ma semplicemente poste in vetrina perché qualcuno ci elogi. In tal modo possono divenire la forma di più sottile egoismo, anziché di sincera e larga generosità. È solo il dono di se stessi che fa sgorgare dal cuore un ‘grazie’ immenso. È solo la carità, vissuta sui criteri di Dio, che diviene amore radicale e viscerale per i fratelli, nella certezza che ciò che doniamo è sempre poco, rispetto al molto che riceviamo in dono, quando abbiamo il coraggio di farci dono. È così che la moltiplicazione dei pani diventa possibile anche a noi e in noi.

PREGHIERA
La proposta dei Dodici è semplice: lasciare ad ognuno il compito di trovarsi il cibo necessario. Del resto il loro ragionamento appare del tutto sensato: la folla è troppo numerosa ed il luogo è deserto. L’onere di dare nutrimento a così tante persone chi se lo può permettere? Tanto più che le risorse a disposizione sono veramente esigue: cinque pani e due pesci!
La logica umana, in effetti, non fa neppure una grinza: peccato che abbandoni tutti ai loro problemi e li induca a cercarsi una soluzione ciascuno per conto suo.
Ma tu sei venuto proprio a mostrare che il contrario è possibile: che Dio prende la vita di ognuno nelle sue mani forti e sicure e apre ad una speranza inaspettata. Tu vuoi che la folla abbia un segno della compassione e della bontà di Dio e scopra che c’è un pane che non si guadagna con il sudore della fronte. Sei tu quel Pane offerto e spezzato, donato e condiviso, che nutre e sostiene nel nostro pellegrinaggio.

sabato 25 maggio 2013

490 - DIO SI FA CONOSCERE COME COMUNIONE DI AMORE - 26 Maggio 2013 – Santissima Trinità

(Proverbi 8,22-31 Romani 5,1-5 Giovanni 16,12-15)

Il mistero trinitario è la nostra identità ed esprime la nostra vocazione. In altri termini, nella Trinità c’è la ‘grammatica’, la chiave per interpretare e per impostare l’esistenza, per ripensare la vita sociale e le strutture in cui essa si organizza. La parola di Dio indica l’uomo nella sua finitezza, ed il suo mistero, come porta di accesso privilegiato al mistero di Dio.
Se rientriamo in noi stessi, infatti, ed abbiamo il coraggio di scendere nella caverna più nascosta della nostra anima, riusciamo a scoprire che nella nostra esistenza, pur deturpata dal peccato, vi sono ancora segni indelebili della sapienza e della bontà di Dio; riusciamo a scorgere ancora le vestigia di un amore che ci avvolge e ci accompagna, ci precede e ci segue, ci sovrasta e ci sostiene; possiamo ancora percepire quanto la fame e la sete di verità, di autenticità, di luce che rischiara e rasserena la vita, non sono altro che un frutto di quello Spirito, che la Verità la maneggia in modo ineguagliabile, tanto da condurre ad essa ogni uomo di buona volontà. Per comprendere e per gustare qualcosa di Dio e del suo mistero sarebbe sufficiente comprendere qualcosa in più dell’uomo e del suo mistero.
Come l’universo, stando a quanto ci dicono gli studiosi, contiene ancora l’eco del big bang iniziale, così il mondo creato reca in sé, nell’umanità e nelle culture che la caratterizzano, le tracce di quella Sapienza divina inesauribile che a tutto ha dato origine e senso. Una Sapienza che la Liturgia ancora invoca, il primo giorno della novena di Natale, con una delle mirabili antifone “O”: «O Sapienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo raggiungendo gli estremi confini del mondo e tutto disponi con soavità e forza, vieni ad insegnarci la via della prudenza».
L’amore di Dio, che il Figlio, Gesù, è venuto a rivelarci, non è un’astrazione, ma è sempre Redenzione, poiché realizza quella riconciliazione a 360° – impossibile alle forze umane –, che mette pace tra Dio e uomo, tra uomo e uomo, tra uomo e se stesso. Si tratta di una totalità e di una pienezza solo immaginabile, umanamente parlando, ma esperibile nella misura in cui la vita lascia spazio a questa irruzione di Dio. Quando l’umanità diventa casa accogliente e patria ospitale per l’Amore della Trinità, allora sperimenta la shalom …
Ma quanto siamo lontani, nel vissuto personale ed ecclesiale, da una tale qualità di rapporto! Al massimo sentiamo una affinità con Dio quando le cose della vita procedono secondo i nostri gusti, le nostre esigenze, la nostra volontà. Ma quando si tratta di mettere in conto la tribolazione, la croce, ci troviamo di fronte ad una vera e propria pietra di inciampo per la nostra fiducia nell’amore di Dio. Quanti hanno perso la fede a motivo di una difficoltà anche piccola. Eppure Paolo, nella seconda lettura di oggi, per parlarci di un itinerario di avvicinamento all’amore di Dio che redime qualsiasi dolore, parte proprio dalla situazione crocifiggente della tribolazione, causa di pazienza, causa, a sua volta, di discernimento, e da cui scaturisce, come da sorgente, la speranza. Non dimentichiamo che Cristo ha amato sempre e comunque e che, sulla Croce, ha toccato il vertice dell’Amore. Un itinerario arduo, quello tracciato dall’Apostolo, possibile solo a chi crede nell’Amore, a chi si fida dell’Amore e si affida all’Amore, facendo una speciale esperienza di Dio che, forse, nient’altro è in grado di incoraggiare fino a questo livello.
Parlare dello Spirito, Terza Persona della SS: Trinità, ed accorgersi dello Spirito, è forse la cosa più difficile nell’esperienza di fede. Se il Padre è riconoscibile nella storia della salvezza, ed il Figlio, narratoci dall’Evangelo, è Dio in carne ed ossa in mezzo a noi, lo Spirito appare quanto di più evanescente noi possiamo percepire. Eppure gli effetti ed i frutti dello Spirito sono talmente eclatanti che solo un cieco – o un non credente – sarebbe capace di ignorare. Egli è Colui che guida alla verità tutta intera – cioè a Dio e al suo Figlio Gesù Cristo –. Egli altri non è che il continuatore dell’opera di Gesù, perché lo sottrae alla contingenza di un tempo e di un luogo per renderlo contemporaneo a tutti i tempi, a tutti i luoghi, a tutte le persone. Egli è il testimone di Gesù, ed è Colui che prende le difese dei discepoli di Gesù. Egli è Colui che, non soltanto ne evoca la memoria, ma lo fa in modo performativo, così che quanto si proclama nella liturgia accade effettivamente, realmente e salvificamente. È così che il credente e la Chiesa entrano nel mistero di Dio e ne fanno indissolubilmente parte, rendendo persino inutile il raccontare il Mistero, perché basta viverne la Verità tutta intera.
 
PREGHIERA
Noi non possiamo entrare nel mistero d’amore che unisce te, Gesù, al Padre e allo Spirito, contando solamente sulla nostra intelligenza. La nostra ricerca è votata al fallimento e a terribili equivoci se non ci lasciamo guidare dalla tua Parola, se non accettiamo di passare attraverso il rapporto unico, l’esperienza profonda che ti lega al Padre, se non permettiamo allo Spirito di agire dentro di noi e di aprirci ad una comunione che trasforma questa nostra povera esistenza in un frammento di eternità.
Per questo ora vogliamo dar voce alla nostra gratitudine, esprimere la nostra gioia. Benedetto sei tu, o Cristo, Figlio di Dio venuto nella nostra carne per donarci una dignità sconosciuta e manifestarci quell’amore che libera e salva. Benedetto sei tu, o Padre, sorgente della vita e della misericordia, che ti sei legato per sempre all’umanità. E benedetto sei tu, o Spirito Santo, che continui a meravigliarci con le novità che provochi nella storia.

sabato 18 maggio 2013

489 - ACCENDI IN NOI IL FUOCO DEL TUO AMORE - 19 Maggio 2013 – Pentecoste

(Atti 2,1-11 Romani 8,8-17 Giovanni 14,15-16.23b-26)

Sono soprattutto tre le immagini con cui la Bibbia ci presenta lo Spirito Santo: la colomba, il fuoco, il vento. 
La COLOMBA è la metafora dello Spirito legata alla persona di Cristo, alla sua vocazione, alla sua rivelazione come colui che Dio aveva scelto e mandato nel mondo. Come una colomba, lo Spirito veniva dall’alto. Come la colomba che Noè aveva inviato dall’arca e che era tornata indietro con un ramoscello di ulivo, segno della nuova vita, nello stesso modo lo Spirito che era sceso in forma di colomba e si era posato su Gesù diceva che una nuova umanità s’inaugurava in Gesù.
Il testo di Atti 2 racconta che, il giorno di Pentecoste, la casa dove i discepoli erano insieme in preghiera fu riempita da un VENTO impetuoso. Il termine ebraico per vento è proprio lo stesso per indicare lo Spirito; Gesù stesso, parlando a Nicodemo della nascita per lo Spirito, aveva fatto riferimento all’effetto dello Spirito come all’effetto del vento: «Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». La metafora del vento richiama il soffio creatore di Dio. Giovanni rende esplicito questo riferimento quando anticipa la Pentecoste nell’atto del Gesù risorto che alita sui discepoli dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito di Dio, il suo soffio, crea e ricrea, dà vita nuova.
«Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro». Il profeta Gioele aveva detto: «Avverrà che io spanderò il mio spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni e i vostri vecchi sogneranno». Alla metafora del FUOCO che si divide e si posa su ciascuno è affidato il significato più rivoluzionario della Pentecoste. Lo Spirito tocca la vita, il corpo di ogni persona. Persone di età, di genere, di condizioni sociali diverse ricevono il fuoco dello Spirito, il coraggio, la forza di diventare testimoni di Cristo risorto nel mondo. Non uno spirito esclusivo ed escludente, ma uno spirito che non fa alcuna distinzione fra le persone. Chiunque si apra all’opera dello Spirito, chiunque creda nell’azione rigeneratrice dello Spirito Santo, chiunque si lasci riscaldare dalla presenza del Risorto e della sua Parola diventa testimone, profeta. Noi abbiamo più che mai bisogno di una lingua capace di abbattere le barriere che ancora dividono popoli e culture, abbiamo bisogno che ai giovani si restituiscano speranze, che gli stanchi ritornino a sognare, abbiamo urgenza che uomini e donne umiliati siano restituiti alla vita e che tutti possiamo gioire della grazia. Abbiamo bisogno di una nuova Pentecoste che ci scompigli, ci faccia ardere il cuore, ci doni la semplicità della colomba e ci restituisca la dignità, la grazia, la libertà dei figli di Dio.

PREGHIERA - Tu hai mantenuto quella promessa formulata nel Cenacolo, prima di scendere all’orto degli Ulivi dove sarebbe cominciata la tua passione. In quel momento drammatico tu hai annunciato che il Padre avrebbe mandato un altro Consolatore.
I tuoi discepoli non sarebbero rimasti soli, ma su di loro sarebbe discesa una forza dall’alto: una forza per cogliere il senso degli eventi della storia, una forza per intendere e comprendere la Parola, una forza per lasciarsi guidare dal Vangelo, una forza per prendere le decisioni migliori, secondo il cuore di Dio, e per realizzarle, senza desistere. È questa forza che ancor oggi spinge a darti testimonianza anche nell’ora terribile della prova, dona il gusto di una nuova saggezza che ci sottrae alle seduzioni del mondo e ci permette di vivere l’esistenza buona e bella del cristiano.
È questa forza che fa cadere i muri che ci separano e rende possibile una nuova fraternità e ci consente di costruire una terra più solidale e generosa, secondo il piano del Padre.

venerdì 17 maggio 2013

488 - IO SONO CON VOI TUTTI I GIORNI - 12 Maggio 2013 – Ascensione del Signore

(Atti 1,1-11 Ebrei 9,24-28;10,19-23 Luca 24,46-53)

Con la festa dell’Ascensione il ciclo liturgico pasquale arriva al culmine. Ci troviamo di fronte al destino finale di quella persona straordinaria che è stato il falegname di Nazareth, crocifisso dai Romani, sperimentato risorto dai suoi amici. Gesù passa dal tempo all’eternità, dalla limitatezza all’infinito, dall’umiltà della condizione umana, che aveva rivelato e velato il suo splendore di Verbo del Padre, alla trascendenza della divinità. Gesù introduce, per sempre, nella vita misteriosa della Trinità un’umanità redenta. Qui siamo di fronte ad una figura del destino di ogni uomo; siamo nati dall’amore e da quest’amore di Padre saremo circondati e custoditi per sempre.
Dopo l’Ascensione si apre il tempo della Chiesa. Gesù dice che si tratta di andare incontro «a tutte le genti», chiamandole a un cambiamento totale nella vita. Si tratta di dire a tutti che Dio è Padre-Madre che ama, che perdona gratuitamente, che ha a cuore la nostra pienezza di vita, che vuole la pace per tutti i suoi figli. Tempo della Chiesa, il nostro, tempo di uomini falliti. Non abbiamo bisogno sempre, di nuovo, di uomini in bianche vesti che ci ricordino la terra e la nostra missione di percorrerla tutta perché la bontà, la bellezza e l’amore nascano in mezzo agli uomini? Cosa può significare, oggi, vivere la pienezza della vita del Risorto che «è salito al cielo e siede alla destra del Padre»? Ce lo ricorda padre David Maria Turoldo in un verso poetico splendido: «Sentire la dolcezza dell’acqua e del pane e del vino che è sangue! (questa è la pace con Dio). E vivere in pace con le creature amate» (vivere in pace con gli uomini).
La terra e il cielo, quando vivono non separati, né, tanto meno, contrapposti, ma integrati fra loro hanno la pienezza della vita. Questa integrazione racchiude tutta la vita di Cristo; lo professiamo ogni domenica: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo». Al termine di questa vita incarnata per noi, si compie la grande avventura umana-divina di Gesù: «È salito al cielo e siede alla destra del Padre».

PREGHIERA
La tua ascensione al cielo non segna, Gesù, un distacco dalla terra, ma piuttosto un compimento, una situazione tanto attesa. Perché solo ora gli apostoli cominciano la loro missione? Perché proprio in questo frangente li spedisci in un’avventura folle: portare dovunque il tuo Vangelo, offrire il perdono di Dio, trasformare l’esistenza di chi crede? Adesso, salendo al cielo, tu sei veramente vicino a tutti, senza alcuna barriera, senza limiti di tempo e di luogo. Adesso tu accompagni i tuoi discepoli con la forza del tuo Spirito. Non si sentiranno mai soli, abbandonati a se stessi, in balìa delle forze avverse che pur dovranno affrontare.
Tu sei con loro, tu sei con noi, oggi. Anche se non ti vediamo, tu sei presente ed agisci attraverso la tua parola, attraverso i santi sacramenti. Tu continui a visitarci nei poveri che incontriamo. È questa la sorgente della nostra gioia, questa la certezza che non ci abbandona: qualunque cosa accada, tu ci sei vicino.

487 - IL FRUTTO PASQUALE DELLA PACE - 04 Maggio 2013 –VIª Domenica di Pasqua

(Atti 15,1-2.22-29 Apocalisse 21,10-14.22-23 Giovanni 14,23-29)

Lungo tutto il Vangelo di Giovanni, alcune parole vengono ripetute con insistenza. Il Vangelo di oggi presenta diversi di questi termini: amare, osservare, Parola, Spirito e vi appare anche un verbo che l’evangelista usa soltanto questa volta: ricordare. «Lo Spirito Santo vi ricorderà tutto ciò che Io vi ho detto». Lo Spirito porta alla memoria la parola di Gesù. Il Vangelo di Giovanni approfitta degli ultimi momenti di Gesù per esortare alla memoria, non come rituale da ripetere, ma come risonanza di tutto quello che si è ascoltato; non come iniziativa dei discepoli, ma dello Spirito. Osservare e fare memoria sono termini che rimandano all’atteggiamento di vegliare affinché qualcosa non si perda. «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola». «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte». Chi fa memoria, non vedrà mai la morte. Curiosa funzione della memoria! Di solito, quando qualcuno muore, diciamo che continua a vivere nella memoria dei suoi. Gesù amplia la funzione della memoria. «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte». Colui che ricorda la Parola vive nell’oggi, non nel passato. La memoria è esaltazione della vita nel presente. Ricordare la Parola è non morire. Di fronte all’esortazione di Gesù a far memoria, mosso dallo Spirito, non posso non leggere il testo a partire dalla mia realtà. Ci giunge in modo particolare questo mandato del Maestro, di far sì che la sua Parola non si perda. Quante volte abbiamo inteso l’osservare in senso contrario a quello voluto da Gesù. Poniamo tanti ostacoli alla Parola, fino al punto da renderla separata, arida per il popolo di Dio.
Il frutto pasquale della pace è il dono del Risorto agli apostoli, alla Chiesa e al mondo intero. Un fatto nuovo che attribuisce allo shalom una dignità insospettabile. Per dirla con don Tonino Bello, la pace che ciascuno di noi è chiamato a costruire per vocazione, è una pace D.O.C., a denominazione di origine controllata. Profumata di risurrezione, porta impressa le stimmate della croce, chiede sempre un tributo di sofferenza e di fatica con tutto il sovraccarico d’incomprensioni, derisioni, scetticismi.
Su un valore come quello della pace non si possono immaginare concessionarie esclusive. La pace ha valore di virtù teologale e va impetrata come dono. Il cammino da compiere, come comunità cristiane, è ancora lungo! Eppure Cristo non poteva essere più chiaro al riguardo: «Non come ve la dà il mondo…»; non con gli equilibri prudenti delle cancellerie diplomatiche, non generata come concessione benevola dell’ultimo feudatario del mondo globalizzato. La pace del Risorto non si limita a rimuovere i conflitti; la pace dono del Crocifisso-Risorto ha impressa la filigrana della non-violenza e del perdono che le conferiscono la certezza di essere autentica e duratura.

PREGHIERA
Quando veniamo invitati a scambiarci un segno di pace durante l’Eucaristia, forse non pensiamo abbastanza al gesto che stiamo compiendo. E forse la prendiamo per un’occasione destinata solamente ad esprimere e a rinsaldare i legami che ci uniscono.
Ma quale pace tu ci offri, Gesù? A quale pace facevi riferimento mentre stavi per affrontare la passione e la morte? Certo non una pace che trova origine in una generica disponibilità a mostrarsi benevoli e neppure in regole di galateo che assicurano rapporti rispettosi.
La tua pace, comunque, non ha niente a che fare con una buona dose di tranquillità, con l’assenza di problemi e di conflitti, e dunque con una serenità a poco prezzo. La tua pace viene proprio, paradossalmente, dal momento terribile a cui vai incontro, per amore. È col tuo sangue, infatti, che tu ci rigeneri ad un’esistenza nuova, ci liberi dall’odio e dal rancore, ci dai la gioia di essere amati e la forza di amare come te. È col tuo sangue prezioso che tu abbatti ogni barriera e ci doni la dignità dei figli di Dio.

486 - L’ESEMPIO DI GESÙ DIVENTA VITA CONCRETA NELL’AMORE FRATERNO 28 Aprile 2013 – Vª Domenica di Pasqua

(Atti 14,21-27 Apocalisse 5,1-5a Giovanni 13,31-33a.34-35)

Dentro il tempo pasquale pasquale possiamo enucleare, oggi, il tema delle virtù teologali capaci di rendere attuale la Pasqua del Signore.
 
La fede emerge dal brano degli Atti che ci consegna l’azione missionaria di Paolo e Barnaba: «confermavano i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede». Questa fede non è caratterizzata dalla staticità, ma dal dinamismo tipico di ogni trasformazione in meglio della storia. Sempre la fede deve essere vissuta come un passaggio ineludibile tra un già e un non ancora. Sono ancora Paolo e Barnaba a ricordarlo: «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
La speranza: questa storia tribolata necessita di un supplemento d’animo che scaturisce dalla speranza che si radica nella visione narrataci da Giovanni nell’Apocalisse: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini». Egli sarà il Dio con loro con lo scopo dichiarato: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Così contestualizzata, la speranza si configura come passaggio dal limite alla pienezza. Tutto, infatti, si trasformerà perché dove il Risorto si manifesta, lì s’incontra la novità della storia redenta: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno».
La carità: questo mondo nuovo trova insediata in sé la dimensione evangelica della carità richiamata apertamente dal Vangelo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi». Questa consegna attua la realizzazione del nostro io in Dio. Ce lo assicura Cristo promettendo, alla fine, l’autenticità del discepolato oltre ogni compromesso della storia: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Sant’Agostino, nella Città di Dio, lo dice con chiarezza ineccepibile: «Due amori sono all’origine delle due città: nella città terrena, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio; nella città celeste, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Quella si gloria in se stessa, questa in Dio. In quella, nei suoi principi e nelle nazioni che sottomette, domina la libidine del potere; in questa, i capi consigliando e i sudditi obbedendo, ci si serve scambievolmente nella carità». È vero, l’amore di Cristo è architettonico, cioè destinato a modificare la realtà, non a passarvi sopra. Il Risorto è il pieno e perfetto compimento dell’amore.

PREGHIERA
Non sarà un’etichetta particolare, né una divisa specifica, né un linguaggio codificato a rivelare la nostra identità. Non saranno riti significativi, né dottrine ben precisate, né professioni di fede sicure e neppure abitudini consolidate a designarci come tuoi discepoli.  Tu, Gesù, ci affidi un criterio che guiderà la nostra ricerca: l’amore che avremo gli uni per gli altri. Ecco ciò che è determinante ai tuoi occhi.
Del resto senza questo amore ogni cosa perde sapore e senso. La tua stessa parola diventa oggetto di disquisizioni dotte, di indagini scientifiche e di spiegazioni senza cuore. I gesti santi che ci hai affidati generano un pietoso equivoco e costituiscono una sorta di pedaggio pagato all’ambiente e alla tradizione.
La comunità a cui apparteniamo prende i connotati di uno dei tanti gruppi, con una struttura ben definita e con un funzionamento disciplinato. Per te, dunque, ciò che conta è l’amore: l’amore che ci induce a trattare ogni persona come un fratello, l’amore che ci porta sulle strade del Regno e ci fa vibrare della tua stessa vita.