sabato 23 febbraio 2013

470 - LASCIARSI TRASFIGURARE DAL SIGNORE GESÙ - 24 Febbraio 2013 – IIª Domenica di Quaresima

(Genesi 15,2-12.17-18 Filippesi 3,17-4,1 Luca 9,28b-36)

La pedagogia della Chiesa conduce dal deserto delle tentazioni al monte della trasfigurazione, dalla lotta alla festa: ma richiede movimento e disponibilità al cambiamento. È la grazia tipica di questo periodo quaresimale. Il problema è che spesso, invece di lasciarsi trasfigurare dal Signore Gesù, i cristiani rischiano di lasciarsi sfigurare da uno stile di vita non ispirato alle «opere buone del Vangelo», come suggerisce la CEI nel progetto pastorale di questo decennio. Ad esempio, ci si va gradualmente abituando alle brutture morali e alle bruttezze estetiche come pure alla superficialità e alla passività. Insicuri, frettolosi e sempre più ingolfati di cose e di impegni, si rischia di stringere tra le mani il nulla, diventando nani spirituali, spenti nell’anima. L’anelito ad amare e ad essere amati si è tramutato in competizione, conflitto e rancore; la vita di coppia si è ridotta a contratto a tempo; le relazioni interpersonali sono inquinate dalla legge «usa e getta».
È eloquente il settenario elaborato da Gandhi, secondo il quale l’uomo si distrugge: primo, con la politica senza principi; secondo, con la ricchezza senza lavoro; terzo, con l’intelligenza senza sapienza; quarto, con gli affari senza la morale; quinto, con la scienza senza umanità; sesto, con la religione senza la fede; settimo, con l’amore senza il sacrificio di sé.
Nel sacrificio di Gesù si supera la morte e tutto ciò che è vissuto nell’amore viene strappato dalla morte, che pare dominare tutto. Proprio nel dono totale di sé, Gesù rivela la vera immagine di Dio e trasfigura nel bene il male che lo ha colpito, perché diventa luogo della suprema rivelazione dell’amore. Nella morte, passaggio obbligato, noi veniamo ‘ricuperati’ da Dio in Cristo. Questo avviene nel Battesimo. Ogni atto di amore, di servizio e di offerta di sé richiede un percorso di morte e risurrezione e contribuisce a rendere più bella l’umanità. Ad un giovane, desideroso di imparare a dipingere le icone, il monaco disse: «Si comincia dalla vita; quando sarai ben iniziato alla ricchezza della vita nuova, della vita con Dio, potrai anche esprimerla». La santità è cogliere e lasciar trapelare la sacra mentalità della vita, delle relazioni e delle cose.
La trasfigurazione è la porta che immette i discepoli a ‘vedere’ e a ‘conoscere’ l’identità del Cristo risorto e vivo: non più un ‘personaggio’, ma una Persona, vivente e operante nello Spirito Santo. Paolo VI sosteneva che la Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste, di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. Invocare lo Spirito Santo, che grida in ciascuno «Gesù è il Signore», aiuta a trasformare la società con la proposta radiosa di una fede che fa vivere quotidianamente il volto di Dio. Questo comporta anche riattualizzare cristianamente il monito dei comandamenti. Ad esempio il «non uccidere» diventa «dài la vita» e il «non rubare» si tramuta in «diventa generoso»; il «non dire falsa testimonianza» equivale a «di’ la verità» e il «non desiderare i beni altrui» significa «coltiva la tua vita con desideri realizzabili». La bellezza non è assenza di rughe, ma lo sguardo tenero sugli altri e l’intensità delle emozioni è la capacità di continuare a stupirsi. Nei tempi di crisi la storia è costruita dai generosi di cuore, perché i ricchi disperano, mentre i poveri sanno solo sperare (G. Bernanos). Spesso le istituzioni e le leggi ci sono, è il cuore che non funziona. È necessario ‘rinnovare’, come esortava il beato don Luigi Sturzo: «Fate, rifate, non stancatevi!». Le comunità cristiane non esistono come nicchie protettive ed auto-gratificanti, ma per ridire la verità, ridare speranza e rifare la carità. Non si ha niente di nuovo da proporre, ma si esplicita che tutto può cambiare se si ritorna al Signore Gesù. Da che cosa si evince che il singolo, la famiglia, i gruppi, la parrocchia sono discepoli di Gesù, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3)?

PREGHIERA
Li hai chiamati con te, Gesù, perché vedano la tua gloria. Li hai portati sul monte perché siano coperti dall’ombra di Dio. Un’esperienza forte, la loro, e talmente bella che vorrebbero fermarsi per sempre in quel luogo.
Ma quella per te è solo una tappa: c’è una meta al tuo viaggio ed è Gerusalemme perché lì deve compiersi il disegno del Padre. C’è un esodo da compiere, un passaggio doloroso e difficile: una prova terribile ti attende e tu non ti tiri indietro, vuoi andare fino in fondo. Pietro, Giacomo e Giovanni dovranno ricordarsi in quei frangenti drammatici quanto è accaduto sul monte.
Quando sembrerà che Dio stesso ti abbia abbandonato, quando il fallimento apparente li porterà a dubitare e ad avere paura, allora li soccorrerà quanto hanno visto e inteso, allora sarà la tua parola a guidarli e a portare luce.
Sì, tu sei il Figlio di Dio, l’eletto, colui che sta per donare la sua vita, con un’offerta totale, completa, senza trattenere nulla per sé.

469 - LE TENTAZIONI

Per una pausa spirituale durante Iª Settimana di Quaresima

La strategia del Mentitore è destabilizzare, diffondere dubbi e sospetti per oscurare le certezze più cristalline. La grandezza, la bontà e la potenza di Dio vengono guardate con subdola ambiguità: «Se sei Figlio di Dio…». Tutto oggi si relativizza, persino Dio, e si può arrivare a negare l’esistenza stessa della tentazione, limitandosi a dire: «Ma, alla fine, che male c’è?».

• La prima tentazione riguarda il corpo e presenta il rapporto col cibo, nonché il modo con cui si mangia come rivelativi del proprio comportamento verso se stessi, gli altri e Dio. Pensare di potersi sfamare unicamente delle sole cose del mondo è pura follia. Il pane che sazia tutte le fami si trova imparando ad assimilare i desideri di Dio e ad alimentarsi del nutrimento di Dio. Tutto si può ottenere senza passare attraverso gli altri, in modo immediato ed egoistico, senza alcun cammino di comunione con gli altri e con Dio. È l’opposto della logica dell’eucaristia, sorgente di comunione e di condivisione, radice dell’umile invocazione «Dacci il nostro pane quotidiano» come pure del ringraziamento a Dio per il necessario. Gesù, che non ha mai compiuto miracoli per sé, ma solo per aiutare altri e rendere credibile la via intrapresa, rifiuta di accaparrarsi le persone col ricatto del nutrimento.

 • La seconda tentazione riguarda la mente: il senso di onnipotenza e il miraggio di essere come Dio, perdendo il contatto con la realtà; il possesso di beni e del tempo come garanzia di realizzazione di sé, nonché il potere come strumento di schiavitù degli altri. La madre di tutte le tentazioni è considerare Dio ciò che non lo è, e considerare l’unico Dio come superfluo per la propria esistenza. Ben sa, il Tentatore, che se non ci si prostra al vero Dio si è distrutti dai nostri stessi idoli. Gesù predica la carità nella verità, serve gli altri, ma non si serve di loro; si inchina davanti agli apostoli per lavare loro i piedi, ma non si inginocchia davanti a Satana. L’arroganza, l’ostentazione di potenza e la volontà di dominio universale rientrano nell’idolatria, sempre disastrosa nella storia.

• La terza tentazione riguarda la fede: è la sfida con la morte in modo miracoloso, per farsi vedere e valere; è la pretesa di andare oltre le leggi della natura, la ricerca dello spettacolo e non della rivelazione, la fiducia nelle apparizioni straordinarie e non nell’obbedienza a Dio. Satana cerca di separare da Dio attraverso la parola di Dio: è lo stravolgimento assoluto teso a far sì che le opinioni diventino verità, e la Verità un’opinione. Allora lo sballo appare un “di più di vita”, l’aborto una tutela della maternità, l’eutanasia un aiuto a morire con dignità, la sessualità distorta come il diritto alla libera espressione di sé, la miseria di miliardi di persone come un pedaggio necessario per il libero mercato… Oppure il ricorso alla magia, all’astrologia e all’occultismo è giustificato per assicurarsi salute, sicurezza e protezione di fronte al cieco destino.
L’avere immediato, senza faticare o impegnarsi; il potere gestito per dominare, non in vista del servizio e del bene comune; e infine l’apparire, in modo eclatante: sono le tre grandi forze che ci dominano e che stanno alla base dell’attuale emergenza educativa. Sono falliti la cultura del desiderio e il sistema etico utilitaristico, per i quali la persona umana ha come orizzonte ultimo delle sue scelte e del suo agire esclusivamente i propri interessi. Tale ripiegamento su di sé, favorito anche dal crollo delle ideologie, porta alla distruzione della natura, dell’uomo e della sua rete relazionale, determinando ingiustizie sociali e divisioni familiari, un mondo più triste e più arrabbiato. La grande sfida culturale che ci attende è ripartire dal personalismo, sia per il soggetto sia per il lavoro e la democrazia, la solidarietà e il bene comune. Non ci si salva da soli.
Incontrando le varie forme di povertà materiali, morali e spirituali, la Chiesa incontra il frutto maturo del male, i segni indelebili dell’egoismo e del peccato degli uomini, i capolavori dell’orgoglio, le conseguenze dell’assenza di coscienza e di etica, i semi di morte che sono l’opposto dello Spirito, il quale fa vivere ogni cosa.
Alcuni poteri desiderano mantenere gli uomini schiavi dei propri desideri e succubi dei propri istinti, un ‘branco’ di individui uniformati nei gusti, nelle idee e nelle scelte di vita. Le persone si rapportano agli oggetti come se fossero persone, e si relazionano alle persone – comprese se stesse – come se fossero oggetti. Senza umanità, intimità e speranza.
Nella formazione delle nuove generazioni è importante educare ad esprimere bisogni e desideri, che non sono da eliminare, ma da discernere e purificare, da dominare e orientare (ecco il senso del digiuno e del deserto). Vanno valorizzati tutti i momenti umani che passano dal sentimento all’emozione, dalla razionalità alla decisione, dalla volontà al dono, dal sacrificio alla gioia. L’altro, talvolta ritenuto ingombrante, diventa strumento di salvezza e unica occasione di comunione, perché fa uscire da se stessi, aiuta a superare l’indifferenza e consente un intervento più efficace nel rendere più umana la società. Più la fede è autentica e più lo stile del cristiano è alternativo agli idoli del mondo e viceversa. Tra le cause della diffusione dell’ateismo pratico il Vaticano II riconosce la non limpida testimonianza dei cristiani. Ad essi, infatti, spetta di tenere alta la fede nel Dio di Gesù Cristo, perché «a sbagliare Dio, è sempre l’uomo che ci va di mezzo» (D.M. Turoldo).

468 - L’UOMO È UN ESSERE TENTATO - 17 Febbraio 2013 – Iª Domenica di Quaresima

(Deuteronomio 26,4-10 Romani 10,8-13 Luca 4,1-13)

Nel suo cammino verso la maturità autentica di fede e di vita, ogni persona si viene a trovare in un regime di prova e di scelta. Senza tentazione non c’è libertà. La tentazione è sempre una scelta tra due amori: la seduzione di un mondo secondo Satana e l’attrattiva del mondo come Dio lo sogna. Diceva D. M. Turoldo: «Noi moriamo perché adoriamo cose da nulla, perché scegliamo amori da nulla». È importante non dimenticare di essere persone umane, non angeli. Per B. Pascal «chi vuol essere solo angelo finirà per essere bestia». Ma va anche ricordato che non si è nati per «viver come bruti».Chi si pone alla sequela di Cristo, deve sapere che incontrerà ad ogni passo la tentazione, perché niente infastidisce Satana più del lasciarsi guidare dallo Spirito e dal restare stretto a Dio. Come ricordano i Padri del deserto, la battaglia fondamentale è quella del cuore: presi per mano dallo Spirito attraverso i nostri deserti, si può giungere a quella autenticità di vita a misura di Cristo cui siamo chiamati.
La tentazione fa esercitare e verificare la propria fede come senso di appartenenza al Signore. Nel cristianesimo non vale il principio: «Prima convertitevi e poi sperimenterete la grazia di Dio», perché Dio per primo viene incontro all’uomo, amandolo in modo definitivo e incondizionato. Tale alleanza gli consente di fare un’esperienza nuova e lo rafforza contro il Maligno. Convertirsi è modificare i nostri meccanismi di pensiero e di azione, specchiandosi nella volontà di Dio, e credere significa affidare a Dio ciò che si ha di più prezioso: il cuore e la mente. È certamente doveroso passare dalla ‘conversione’ alle ‘conversioni’: quella personale (la propria coscienza) e familiare, quella ecclesiale e pastorale, quella sociale. La risurrezione è il ‘passaggio’ da una vita schiava e stanca, superficiale e vissuta nel compromesso, a una vita cristiana bella e libera, gioiosa e convinta.
L’esperienza insegna che non è possibile sostenere la fatica dell’ascolto, la corsa dell’annuncio del Vangelo, l’impegno della testimonianza senza mettersi alla prova, senza assaporare la sfida del ‘deserto’. Il silenzio e il deserto sono due grandi tabù dell’odierna società metropolitana. C’è un isolamento subìto e pesante e una solitudine scelta, creativa e feconda, che esige esercizio e audacia. Senza la solitudine e il silenzio, come si potrebbe conoscere se stessi, scavare nel profondo di sé e coltivare semi di comunione? Occorre il coraggio di ritirarsi dal quotidiano, di prendere distanza da impegni e legami, per crescere ‘dentro’, nell’amore. Perché «l’amore e la solitudine sono come i due occhi di uno stesso volto. Né separati né separabili».
I demoni che infestano la nostra esistenza si scacciano con l’ascolto della Parola, la preghiera e il dominio di sé. La Parola rende liberi e capaci di scelte liberanti, senza essere risparmiati dalla prova. Gesù stesso esorta: «Pregate, per non entrare in tentazione» (Lc 22,40).
Una prima indicazione concreta per la Quaresima, dunque, è quella di prevedere un po’ di ‘deserto’ nella nostra quotidianità. Carlo Carretto consigliava di creare «il deserto in città», cioè un posto tranquillo in casa nostra dove ritirarsi per trovare Dio nel silenzio e nella preghiera, «per imparare a riconoscere i segni di Dio e a riportare i nostri problemi al disegno della salvezza che la Scrittura ci testimonia».
La mèta cui tendere è la Pasqua, da cui tutto scaturisce per l’esperienza cristiana. Ma chi potrebbe dirsi degno di meritarsi la Pasqua? La Quaresima non è un percorso irto di prove, il cui superamento dà diritto a celebrare la Pasqua. I quaranta giorni, simbolo di un’intera esistenza, sono il dispiegarsi della misericordia di Dio, che raggiunge gli angoli più nascosti della persona umana, per rigenerarli e risanarli. È seguire, istante per istante, Cristo morto e risorto, vittorioso su ogni tentazione, Figlio amato dal Padre che compie la sua volontà, acqua viva che disseta il nostro cuore, luce che rischiara i nostri occhi, vita immortale che ci partecipa l’esistenza.
Gesù non si lamenta per la nequizia dei tempi, la caduta dei valori, la sfacciataggine del male. Egli non denuncia, come un riformatore religioso o un contestatore moralistico: opta invece per un ‘sì’ più grande all’amore, per una felicità che è dono di sé, per la guarigione della vita. La vittoria redentiva di Cristo tocca la nostra libertà in un modo del tutto umano e assolutamente ‘normale’, attraverso il sacramento della Riconciliazione (lode a Dio per i suoi doni, attento esame di coscienza, sincero pentimento, proposito di non peccare più). È responsabilità degli adulti cristiani incoraggiare e accompagnare i giovani ad esperienze alte, anche se non condivise dalla maggioranza.

PREGHIERA
È lo Spirito a guidarti, Gesù, mentre affronti la missione che il Padre ti ha affidato. Ed è lo Spirito che ti conduce proprio nel deserto, luogo di tentazione. Lì dove Israele ha imparato a fidarsi di Dio, del suo Liberatore, anche tu farai i conti con la solitudine, con la fame e con la sete, con la radicale povertà della condizione umana e sceglierai di essere il Messia secondo il cuore del Padre.
Le attese della gente si faranno sentire e tu dovrai decidere se assecondarle o rifiutarle, se rimanere fedele al progetto di Dio o cercare la popolarità, il consenso, la strada facile dei miracoli, dei gesti spettacolari, dei mezzi abbondanti a tua disposizione.
Nel deserto tu accetti di fidarti interamente del Padre, di mettere la tua esistenza nelle sue mani senza reti di protezione, senza corsie privilegiate. Sarai disarmato e non ricorrerai ad esibizioni di forza, sarai mite e senza il sostegno del denaro, del potere, della cultura. Sarai libero e quindi capace di donare amore a tutti, senza preclusioni, senza sospetti, senza pregiudizi, senza limiti.

sabato 9 febbraio 2013

467 - UN DIO CHE AMA E … CHIAMA - 10 Febbraio 2013 – Vª Domenica del Tempo ordinario

(Isaia 6,1-8 1ªCorinti 15,1-11 Luca 5,1-11)

Pensiamo sempre a Dio come a una entità lontana e fuori dalla vita, sempre che esista… La Scrittura lo annuncia come un Dio che irrompe, chiama e interpella nella quotidianità; ad esempio, in una giornata di pesca qualsiasi sul lago di Galilea; oppure dentro una situazione di incertezza sul futuro e quando tutto sembra bloccato, come per Isaia, chiamato a profetare dentro l’infedeltà di Israele al suo Dio e dentro le avvisaglie di una invasione vicina. Annunciamo anche noi che il Dio dei padri e il Dio di Gesù Cristo non è un Dio né estraneo né straniero alla storia degli uomini. È un Dio che si ‘accontenta’ di mediazioni e di mediatori, della voce dei suoi profeti e inviati che sceglie, associa a sé e purifica con il carbone ardente della sua rivelazione e della sua parola.
L’esperienza di essere chiamati e attirati dal Trascendente è sia purificazione (non si metterà nulla di profano e di lontano da Dio nel messaggio), sia esperienza di liberazione che ci fa diventare liberatori, perché come il profeta, così anche la gente alla quale è inviato potrà liberarsi dagli idoli, dai falsi assoluti, e trovare la libertà nel servizio del Dio unico. Anche i primi chiamati tra gli apostoli diventano tali (apostoli = mandati), proprio perché prima di tutto sperimentano la gratuità di una chiamata, inattesa. Ha come conseguenza il lasciare tutto, per affidare il proprio futuro (pesca di uomini vivi) al Messia che chiama e alla bellezza di un messaggio che si concretizza in una persona. La risposta alla chiamata è possibile quando si è avvolti gratuitamente dalla trascendenza di colui che chiama e che irrompe nella propria quotidianità («Allontànati da me, perché sono un peccatore», Lc 5,8) e che nello stesso tempo si fa vicino, si fa sostegno e garanzia («Prendi il largo e gettate le reti… Non temere…», Lc 5,4.10).
Possiamo e dobbiamo cogliere i segni dell’irruzione di Dio nella nostra vita, leggerne bene le orme nella quotidianità, percepire la consolazione che nasce dal fatto che qualcuno che non è noi (trascendenza) ci chiama, cioè entra in relazione con noi e si fida di noi tanto da affidarci il compito di parlare di lui, con labbra purificate, con una vita cambiata dall’esperienza della chiamata. Esperienza di Dio e vocazione allora ci accomuneranno, trasformando anche noi, come gli apostoli, da semplici soci a uomini «in comunione». 
Lasciamo che la Parola che ci ha chiamati, il pane e il vino che ci metteranno in comunione con il Maestro e tra di noi, ci trasformino in una comunità di fratelli. Una comunità che si sente chiamata da un unico Padre a vivere e testimoniare relazioni nuove, che scaturiscono dall’esperienza della gratuità di una chiamata, dall’esperienza di chi ha capito che la sua vita cambia quando è interpellata dall’Altro e allora va in cerca degli altri e cerca di ‘pescarli’, di convincerli che la vita cambia, quando ci si accorge che non siamo soli e non amati, ma che Uno ci ha scorti nella banalità della vita e ci ha chiamati ad essere suoi.

PREGHIERA
Del lago conoscono tutto: le zone pescose e le improvvise burrasche, le correnti e le anse tranquille, i venti che lo percorrono e il sole che picchia sulla testa. Conoscono la soddisfazione di tornare a riva con le reti piene e la delusione che afferra quando si è faticato una notte intera senza portare a casa nulla. Sanno che non bisogna insistere quando si incappa in una giornata sfortunata e che bisogna attendere momenti migliori.
Eppure quel giorno tu, Gesù, che di mestiere sei falegname-carpentiere, chiedi a Pietro di riprendere il largo, solo perché tu glielo hai domandato. Pietro accetta, confidando solamente sulla tua parola, su di te.
Rinuncia alla sua esperienza, a quello che gli hanno insegnato tanti anni passati a fare il pescatore e si trova davanti ad una pesca sorprendente e ad una proposta che disorienta: «diventerai pescatore di uomini». Un progetto che, per ora, rimane piuttosto misterioso, oscuro, ma che comporta immediatamente un distacco da tutto per seguire te, Gesù. È l’esperienza di ogni discepolo ed è il miracolo con cui dobbiamo fare i conti: la pesca abbondante non è tutto merito nostro, noi ci siamo solo fidati di te.

466 - I FALLIMENTI INEVITABILI

Per una pausa spirituale durante IVª Settimana del Tempo ordinario

La fase di crisi. Sempre più spesso si incontrano persone ferite e sofferenti che, nonostante la fede, si sentono fallite ed inutili e faticano a superare le crisi. Nella nostra società viene esaltato molto il benessere individuale, che rischia di sfociare in un narcisismo eccessivo e nel rifiuto delle fatiche. Eppure la crisi ed il fallimento fanno parte dell’esistenza umana. L’etimologia di ‘crisi’ deriva dal verbo greco krínō che significa separare, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare. Nell’uso comune ha spesso un’accezione negativa, che sta ad indicare il peggioramento di una situazione. In realtà essa può portare anche a qualcosa di buono, ad una crescita e ad un cambiamento. L’esperienza della sofferenza può aprire a strade diverse: la durezza e la rabbia, oppure la sensibilità e l’umanità, se accompagnata da riflessione, valutazione, discernimento. Vi sono passaggi cruciali nella vita (nascite, morti, malattie, passaggi evolutivi) ai quali non si può sfuggire. Gli eventi critici, prevedibili e imprevedibili, sono punti di non ritorno: si chiude un capitolo e se ne apre un altro. Le modalità precedenti non funzionano più. La crisi diventa allora quel terreno potenzialmente evolutivo da attraversare per poter trovare un nuovo equilibrio. L’evento critico, il fallimento chiedono alla persona, alla famiglia, di attingere alle proprie risorse per ristrutturare il proprio funzionamento. Conta molto come le persone hanno precedentemente risolto altre crisi. Nelle fatiche si può continuare a restare ancorati a ciò che era e non è più, oppure si può, stando dentro la fatica e senza la fantasia di cancellarla subito, ancorarsi ai propri punti di forza e alle relazioni importanti. Inoltre la persona, e tanto più il credente, deve saper attendere con la fiducia di chi sa di non essere solo. «Ed ecco io faccio di te come una fortezza… ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno» (Ger 1,18-19). Nel momento di grande fatica può essere utile la preghiera, la guida spirituale, le esperienze che alleggeriscono. Non tutto si riesce a spiegare subito; serve del tempo per rielaborare ciò che fa soffrire, ma serve anche «il proprio Io che lavora nel tempo».
Il pensiero corre a Dietrich Bonhoeffer, che seppe vivere la propria carcerazione, avvenuta perché anti-nazista, senza perdere la speranza. Attraverso la scrittura dava voce alle sue emozioni e ai suoi pensieri; attraverso i contatti epistolari manteneva un forte legame affettivo con la propria famiglia ed i propri amici; attraverso la preghiera e lo studio della Bibbia sentiva di essere accompagnato da Dio.
Reggere ai fallimenti della vita. Per reagire al dolore serve essere resilienti. La resilienza in fisica è la capacità di un metallo di resistere ad un urto senza spezzarsi; in ambito psicosociale è la capacità di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante l’aver vissuto situazioni difficili. Alba Marcoli parla di periodi nei quali la crisi non fa più riconoscere se stessi. «Il non riconoscersi più, il sentire che c’è stata una rottura nella propria sensazione di continuità è un primo segnale di crisi. Poi seguono tutta una serie di emozioni faticose: incertezza, angoscia, impressione di avere perso qualcosa». La capacità di reagire ai fallimenti dipende da vari fattori: individuali (temperamento, riflessione e attitudini cognitive), ma anche familiari (calore umano ricevuto, la coesione, l’interesse dei familiari) e da fattori di sostegno (l’avere amicizie, un gruppo di sostegno all’interno del proprio contesto di vita, della propria parrocchia). H. Nouwen scriveva: «Compresi che la guarigione inizia quando sottraiamo la nostra sofferenza al suo diabolico isolamento e capiamo che, qualunque essa sia, noi la sopportiamo in comunione con tutta l’umanità, anzi con tutto il creato».
I buoni samaritani. Le persone che soffrono non devono esserelasciate sole. All’interno della comunità cristiana devono trovare fratelli e sorelle capaci di dare aiuto. Stare nella sofferenza porta ad avere momenti di sconforto, di solitudine, di amarezza. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di sostegno quando si perdono le forze; sostegno che nasce da piccoli gesti come un caffè preso insieme, due parole scambiate, la disponibilità per piccoli aiuti materiali. Coloro che vivono i fallimenti hanno bisogno che qualcuno si faccia spazio di ascolto; dimora dove riporre ciò che pesa, sapendo che il proprio racconto verrà custodito con riservatezza. U. Galimberti scrive: «Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro là dove la parola conduce. Se poi c’è il silenzio allora ci si fa guidare da quel silenzio». Il dolore riesce ad avere una sua dignità quando viene ascoltato con rispetto, accolto con delicatezza e con gesti di speranza da parte di persone capaci di tessere relazioni. Gesù, nella lavanda dei piedi, mostra una strada che Santucci ben descrive: «Se dovessi scegliere una reliquia della tua passione prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca… girare il mondo con quel recipiente e ad ogni piede, cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso… verso i nemici e gli amici, il vagabondo, l’ateo, il drogato… finché tutti abbiano capito, nel mio, il tuo amore».

sabato 2 febbraio 2013

465 - LA CARITÀ NON AVRÀ MAI FINE - 03 Febbraio 2013 – IVª Domenica del Tempo ordinario

(Geremia 1,4-5.17-19 1ª Corinti 12,31-13,13 Luca 4,21-30)
“Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.* Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. **La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. ***La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”
È un brano che si sente molto spesso ai matrimoni … sarebbe bene impararlo a memoria per confrontarsi spesso con questa Parola che Dio ci dona … e sarebbe bene anche farne oggetto di preghiera e di riflessione in famiglia.
Paolo invita la comunità ad entrare nell’ottica di Cristo, assumendo il suo modo di vivere, di pensare ed agire (Fil 2,5). Il testo può essere organizzato in tre parti: 1) vv. 1-3: necessità della carità 2) vv. 4-7: bellezza della carità; 3) vv. 8-13: l’eternità della carità.
Vv. 1-3: in un crescendo Paolo focalizza l’attenzione dei lettori sulla ‘via per eccellenza’, dandole un nome: carità. Utilizzando i carismi più ambiti, perché più appariscenti, Paolo afferma la loro nullità se non scaturiscono dall’amore. Per enfatizzare il proprio pensiero aggiunge che persino il martirio, l’atto estremo di donare la vita, non ha nessun valore se non è dettato dall’amore. Notiamo che Paolo non qualifica l’amore – di Cristo, del Padre – ma lo considera una realtà assoluta. Utilizzando una bella espressione di Barbaglio, la carità è introdotta «come la grandezza che decide dell’essere e non-essere della persona».
Vv. 4-7: Paolo definisce la carità attraverso 15 verbi, in un’alternanza di termini positivi (2 volte), negativi (8 volte) e ancora positivi (5 volte). La carità non è dunque un atteggiamento passivo (non fare), ma una scelta costante, un discernimento continuo. Leggendo il testo possiamo intuire che carità per Paolo non è ‘qualcosa’, ma ‘qualcuno’: Cristo. Vivere la carità è dunque permettere a Cristo di vivere in noi: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Per mettere in rilievo questa realtà, vorrei accennare soltanto ai primi due tratti positivi: carità come ‘magnanima’ e ‘benevola’. Il primo termine indica uno sguardo aperto, libero, che si apre nell’accoglienza dell’altro senza pregiudizi: è lo sguardo che coglie nell’altro il suo essere ‘immagine e somiglianza di Dio’, anche se offuscato da un cammino di peccato. Per questo la ‘magnanimità’ produce ‘benevolenza’, suscita il ‘bene’ nell’altro. ‘Magnanimità e benevolenza’ sono seguite da un elenco introdotto negazione ‘non’ – «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio…» – dove Paolo presenta ciò che è incompatibile con la carità perché appartiene ad una modalità di vita «carnale», estranea a coloro che essendo «di Cristo Gesù» sono chiamati a «camminare nello Spirito» (Gal 5,16-24). L’ultimo versetto di questa sezione è contrassegnato dall’utilizzo del termine ‘tutto’: «tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta»: nulla può fermare l’amore perché come ricorda il Cantico, l’amore è più forte della morte (8,6).
Vv. 8-13: Dopo aver dimostrato che la carità definisce l’essere e lo stile di Dio, Paolo giunge alla conclusione che essa non avrà mai fine. Tutti i carismi funzionali alla missione scompariranno nel tempo della pienezza. Soltanto la carità permarrà, perché chi ama percepisce la realtà nella prospettiva di Dio. Nell’ultimo versetto, infine, l’apostolo afferma la priorità dell’amore persino rispetto alle altre due ‘virtù teologali’, la fede e la speranza: nella contemplazione faccia a faccia con Dio, infatti, la fede si trasformerà in visione e la speranza in certezza. Soltanto l’amore rimarrà perché Dio è, in essenza, carità (1 Gv 4,8).

PREGHIERA
Porti un Vangelo, un annuncio di gioia, di guarigione, di liberazione, di speranza e allora, Gesù, perché ti rifiutano, perché ti cacciano dal loro paese? Hai già offerto dei segni, ne parlano tutti i villaggi vicini, e loro stessi riconoscono le parole di grazia che escono dalla tua bocca, e allora perché ti riservano un trattamento così duro?
Forse perché non possono accettare che Dio si serva di uno di cui credono di sapere quasi tutto. Forse perché pretendono che Dio si comporti secondo le loro attese e faccia arrivare qualcuno che appartiene ad una famiglia nobile o alla casta sacerdotale, o comunque alla cerchia dei potenti…
E invece il Messia sei proprio tu, tu che hai passato trent’anni in mezzo a loro, senza segnalare la tua presenza con fatti straordinari, con imprese mirabolanti, tu che conosci – come ognuno di essi – la dura legge del lavoro, le avversità e la penuria, tu che hai condiviso con loro la preghiera nella sinagoga, ma anche la fatica quotidiana, le gioie e le speranze, i lutti e i dolori. Ed è per questo, paradossalmente, che ti rifiutano perché sei vicino a loro, uno di loro.

464 - C’È UNA LIBERAZIONE IN ATTO OGGI?

Per una pausa spirituale durante IIIª Settimana del Tempo ordinario

Gesù ha detto che è venuto a “proclamare ai prigionieri la liberazione” … e questo nel l’“oggi di Dio”: Questa liberazione passa prima di tutto nel cuore di tutti noi. Una persona è libera prima di tutto se lo è nel nostro cuore e nei nostri giudizi. Spero che le storie che seguono abbia a renderci più attenti nei confronti dei carcerati.
Marco P. - Leggo nella storia recente e mi incontro costantemente con due notizie: l’affollamento delle carceri italiane e l’alto numero di suicidi nelle medesime: nel 2011 i suicidi sono stati 186, dal 2000 al 2011 sono 1.960 i detenuti che si sono suicidati, sempre persone umane. È un dato allarmante, una vera e propria strage silenziosa. Nel 2000 ebbi la grazia di prestare servizio presso il carcere “Due Palazzi” di Padova, nella sezione Alta Sicurezza: ergastolani dunque, per la maggior parte. Incontrai un centinaio di persone, ma solo con alcune scattò il percorso di riabilitazione e tutto grazie allo stile di amicizia: presentarsi sorridendo, mostrarsi accoglienti, ascoltare tutto ciò che avevano da dire, non far trapelare mai un giudizio. I primi colloqui avevano uno stampo comune: incarcerati ingiustamente, per coprire qualcuno, l’avvocato si era sbagliato… Poi, solo con alcuni, pochi, scattava qualcosa di diverso: la fiducia li portava ad aprirsi, a confidare la verità, a chiedere perdono. Spesso era il pensiero dei figli a mettere in movimento queste persone, il desiderio che almeno loro potessero vivere in modo diverso. Ricordo in particolare Marco P., che aveva sparato al padre con il fucile da caccia, mentre questi abusava della figlia. Poi venne la droga, o forse c’era già. Marco era in dubbio se iscriversi al corso per avere la licenza media, ma era svogliato, demotivato. Lo attirava il fatto che avrebbe potuto godere di alcuni sconti pena. Lo incoraggiai, ma aveva avuto un’esperienza umiliante con la scuola: alle elementari, la maestra lo aveva ingabbiato in un doppio giro di banchi perché non disturbasse gli altri alunni. Alla fine Marco accettò, si iscrisse al corso e quello fu l’inizio della sua rinascita. Si compiaceva di essere il migliore della classe, composta da cinque allievi, lui era l’unico italiano, gli altri non sapevano né leggere né scrivere nella nostra lingua, figuriamoci studiare! Era una vittoria facile, ma per Marco era importante recuperare la stima di sé. Con gli anni prese anche il diploma di ragioneria e un corso di programmatore per computers gli permise di trovare lavoro a Mestre. Ora gode di un regime di semilibertà. È rinato. La verità lo ha fatto libero.
Cesare deve morire - Nel febbraio 2011 un film italiano, Cesare non deve morire, dei Fratelli Taviani ha trionfato al Festival cinematografico di Berlino, vincendo l’Orso d’oro. Il film è girato quasi per intero nel carcere di Rebibbia, dove da un decennio alcuni detenuti recitano Shakespeare, Dante ecc. Questo percorso nell’arte li aiuta a ritrovare la stima e ad entrare in contatto con la bellezza. Attraverso il testo teatrale esprimono se stessi, ritrovano la verità, la rielaborano e la integrano nella loro vita. Nel film dei Taviani il testo che la compagnia teatrale deve rappresentare è il Giulio Cesare di Shakespeare, dove vi sono la congiura, l’omicidio, il male. Chi recita il personaggio di Bruto deve ‘ripetere’ e rivivere ciò che ha compiuto nella vita. Tutto ciò aiuta a prendere contatto con se stessi e con la propria storia attraverso il linguaggio dell’arte. Dice in un intervista Salvatore Striano, ‘Sasà’, in carcere a Rebibbia per otto anni, protagonista del film dei Taviani e ora attore di successo: «Ho esitato un momento, ma lavorare con i Fratelli Taviani era un’occasione troppo straordinaria. Come in un sogno mi sono ritrovato Bruto su quello strano set, ho rivisto antichi compagni di pena, ho ripetuto con loro parole ed emozioni di un testo che pareva scritto sulla pelle di tutti noi. Dove si parla di amicizia e di odio, di potere e di libertà, di tradimento, di complotti e di omicidi… La famosa frase di Antonio davanti al cadavere di Cesare, “Bruto è un uomo d’onore”, nel braccio di Alta Sicurezza di Rebibbia affollato da cosiddetti “uomini d’onore”, risuona ben diversamente». Oggi ‘Sasà’ è attore affermato, che ha lavorato anche in Gomorra di Matteo Garrone e in diversi serial televisivi. La sua vita è rinata.
Ciro - L’amore buio è un film di Antonio Capuano del 2010, vi si narrano le storie di Ciro e di Irene, due adolescenti napoletani: lei appartiene al ceto borghese della città, lui a quello della camorra. Ciro, dopo aver bevuto, ferma Irene appena scesa dall’auto del fidanzatino e con i compagni compie su di lei violenza. Incarcerato a Nisida, Ciro inizia a chiudersi e a sentirsi diverso dagli altri, la sua rabbia la esprime con gesti violenti, ma poi attraverso alcune lettere e poesie (una scritta anche ad Irene), riesce a rielaborare il proprio gesto e a redimersi. L’arte, la bellezza, la poesia sono anche in questo film, che andrebbe proiettato in tutti i nostri oratori, una possibilità di redenzione. Ciro, figlio del suo tempo, troverà il coraggio di “annunciare” il suo cambiamento in una poesia recitata sul palco del carcere, poesia che egli stesso trasforma in Rap per renderla accessibile al suo linguaggio, che è anche quello degli altri ragazzi. Nel film di Antonio Capuano compare anche don Luigi Merola, sacerdote che ha girato più di 900 scuole in Italia a raccontare Napoli, i giovani e la camorra. Con alcune associazioni si occupa di prevenzione del mondo giovanile nei quartieri a rischio di Napoli e dintorni. Dal 1997 gira con la scorta perché la sua vita è in pericolo.
C’è una liberazione in atto oggi? C’è ed è operata da quei sacerdoti, da quei cristiani che hanno preso sul serio il discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth, sapendo che quelle parole chiedono di essere incarnate in vite concrete spese per gli altri, proprio come ha fatto Gesù dando vita alla parola del profeta Isaia.

463 - TANTE MEMBRA UN SOLO CORPO - 27 Gennaio 2013 – IIIª Domenica del Tempo ordinario

(Neemia 8,2-10 1ªCorinti 12,12-30 Luca 1,1-4;4,14-21)

La comunità cristiana sta alla Chiesa come la famiglia sta alla comunità. Leggendo e meditando questo brano possiamo scoprire le regole del vivere insieme. Paolo continua a dialogare con la comunità di Corinto per aiutarla ad assumere una nuova percezione della propria identità, passando dall’auto-affermazione all’offerta di sé. Paolo sfida la comunità a riconoscere la propria unicità, esemplificata dal dono di carismi diversi, come parte di un progetto più grande: la costruzione del Corpo di Cristo. L’apostolo sottolinea come doni diversi sono distribuiti da Dio ad un unico scopo: rendere una comunità umana prolungamento della presenza di Cristo nella storia, luogo dell’esperienza di Lui. È un progetto che sorpassa l’individuo senza però annientarlo.
Nei vv. 12-13 Paolo ricorda il senso del loro essere insieme: «e in un solo Spirito noi tutti in vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Per l’azione dello Spirito, nel battesimo, è generato un corpo che appartiene a Cristo. Per descrivere l’universalità di questo ‘corpo’ Paolo utilizza i binomi, giudei-greci; schiavi-liberi: l’appartenenza culturale, etnica; la distinzione sociale, tutto ciò che crea barriere ed è sorgente di conflitti nella società umana, è trasformata dallo Spirito in un’unità organica chiamata ad essere Cristo nella storia.
Nei versetti seguenti Paolo esemplifica un concetto importante: il ‘Corpo’ è uno ed insieme è ‘molte membra’. Le membra non sono semplicemente parti del corpo, ma sono il corpo. Rileggendo i vv. 14-20 notiamo la contrapposizione continua tra ‘non è’, ‘ma è’. Nessun membro isolato è il corpo, ma il corpo non sarebbe tale se mancasse una sola delle sue membra. Paolo è attento a riportare questa armoniosa complessità all’opera di Dio che ha ordinato le membra «come ha voluto».
Sfogliando la Bibbia, possiamo notare la ripetuta attenzione alla relazione problematica tra individuo e comunità. Nel racconto delle origini leggiamo che la relazione tra le persone è un costitutivo antropologico fondamentale: Dio non crea solo la persona, ma anche la relazione tra le persone. L’altro è dunque una presenza inevitabile, da abbracciare come ‘fratello’ o respingere come ‘minaccia’.
Utilizzando una nota espressione del filosofo francese J. Guitton: «In mancanza di un amore comune ci accontentiamo di una paura comune». La Scrittura svela l’origine della paura dell’altro nell’incapacità di articolare le differenze. La creatura rinuncia al suo essere immagine e somiglianza di Dio per porre se stesso come paradigma autonomo di umanità. L’altro è ridotto ad un’immagine riflessa e l’incontro inter-personale diviene strumentale alla soddisfazione dei propri bisogni. La storia sacra ci insegna che le relazioni tra persone sono spesso ferite, asimmetriche. Eppure, come ricorda Martin Buber: «Fuggire dall’altro è fuggire da me stesso». La Scrittura invita a superare la paura dell’altro attraverso l’educazione dello sguardo, per incontrare la differenza come ricchezza ed opportunità.
Quale rapporto deve dunque esistere tra le diverse membra? Paolo risponde a questa domanda nei versetti seguenti attraverso l’uso del termine ‘bisogno’: ogni membro deve riconoscere di ‘avere bisogno’ dell’altro ed insieme essere disponibile ad ‘andare incontro al bisogno dell’altro’. Questo equilibrio è concretizzato da Paolo attraverso alcuni esempi: protezione di ciò che è più debole; solidarietà; compartecipazione; consapevolezza che senza l’altro non sono; come ha espresso un noto teologo africano: «Io sono perché noi siamo e dato che noi siamo, io sono». L’essere Corpo di Cristo è dunque dono comune elargito dallo Spirito: lo stesso Spirito è l’origine della diversificazione operativa. In vista della missione lo Spirito con la creatività che gli è propria ha suscitato carismi diversi: ogni dono è essenziale ed insieme non sufficiente ad ‘esaurire’ la personalità del Cristo.

PREGHIERA
Gesù, tu sei venuto a portare un Vangelo, un lieto annuncio che rallegra tutti coloro che attendono, invocano un cambiamento decisivo nella loro esistenza. Ecco perché i tuoi primi destinatari sono proprio i poveri: quelli che non hanno nulla da difendere, né proprietà, né confini, e neppure gruzzoli consistenti. E non possono contare neppure su se stessi perché non ce la fanno nemmeno ad andare avanti, tanto pesano i carichi sulle loro spalle. Ecco perché tu ti rivolgi ai prigionieri, a quanti si trovano privati della loro libertà, incatenati ai loro debiti, schiacciati da una situazione impossibile. Ecco perché indirizzi la tua parola a tutti coloro che soffrono, condannati ad una vita di stenti, costretti a vivere di elemosina perché privati di un bene essenziale come la vista, l’udito, il movimento.
Tu dichiari che per ogni creatura, ma soprattutto per queste, si apre un anno di grazia: Dio prende nelle sue mani la loro sorte, le loro fatiche, i loro dolori e trasforma la loro oppressione in libertà e pienezza di vita.

462 - Per una pausa spirituale durante IIª Settimana del Tempo ordinario

1. La gioia è il bene della vita, il suo desiderio più intenso.

O forse il suo traguardo, il suo senso, la polarità che attrae i nostri passi nell’affannoso andare. Ne sentiamo più acuto il bisogno quando ci manca; non semplicemente in ragione del dolore del corpo o della tristezza del cuore, ma per un sentimento più profondo di privazione, che è impedimento alla fiducia, incapacità di sperare, esclusione dall’esperienza d’amore. L’assenza di gioia è lo smarrimento che rivela la nostra disperata povertà. Cerchiamo surrogati di gioia in modo incessante, frantumandone il gusto in ciò che sembra promettere momentaneo ristoro al vuoto dell’essere. In realtà, se il sogno è quello di uno stato dell’essere ‘colmato’, fino alla totale fiducia e all’abbandono dentro un abbraccio, fino alla speranza divenuta certezza d’un futuro, fino allo scambio dell’amore totale, ci accorgiamo che la gioia è la sintesi delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità. La gioia ha a che fare col divino.
Eppure nella storia umana c’è stato e c’è un sentimento ‘religioso’ che non si accompagna alla gioia, ma piuttosto a un’emozione paurosa del ‘sacro’, inteso come il ‘tremendo’. In essa ha potuto prender forma, invece che la gratitudine dell’essere, un oscuro sentimento del proprio nulla, l’angoscia di una incolmabile distanza, il timore opprimente di un minaccioso mistero. Nella vita concreta, che vorrebbe esplodere in creativa fantasia, la religione umana della paura è parsa maledire la gioia, rattrappire lo slancio e la libertà, inventare una precettistica inesauribile come una rete in cui lo spirito s’imprigiona, in divieto di gioia.

2. Gesù di Nazareth è venuto fra noi, e tutto si è capovolto.
Gesù dice che Dio è misericordia, cioè un grembo d’amore. Dice che Dio è gioia e vuole la gioia dell’uomo. Che ha mandato il Figlio nel mondo «a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (Gv 3,17). Che il Figlio di Dio si è dunque «unito in certo modo a ciascun uomo» (Gaudium et Spes, 22). Ora lo sguardo nell’oltre non incontra più un enigma minaccioso, ma il volto di un Padre. E la preghiera che sale dalla terra non è quella dei servi, ma dei figli (Gal 4, 6-7). Con la confidenza, con la gioia dei figli.
La gioia è il respiro stesso della fede. Sveglia dal sonno i pastori col canto che li guida al presepe, quando Gesù nasce. Arde nel petto dei discepoli di Emmaus, quando tutto è compiuto, e ravviva la loro morta speranza. Tutto il vangelo di Gesù è letteralmente un «annuncio lieto», è l’annuncio della gioia. È questo il Regno. La sua costituzione propone la sua legge e i suoi doveri sotto forma di ‘beatitudine’, traccia la gioia pur dentro le situazioni che noi troviamo disperate, dà al nostro pianto la promessa di una consolazione. Lo scarto fra la nostra miseria e l’infinita perfezione di Dio, fra le nostre ricorrenti viltà, gli errori e i tradimenti, la lontananza, la separazione, fra la tristezza del peccato e la speranza d’una salvezza, è colmato dal miracolo del perdono. Gesù ci chiama a convertirci alla gioia e ci rifà nuovi, come in una seconda creazione. E in essa il Cristo ‘vero uomo’ rivela la bellezza di ciò che è umano, uscito dalle mani gioiose di Dio; l’uomo vivente ‘gloria di Dio’. La fede in Gesù non deprime nulla di ciò che è autenticamente umano, anzi lo esalta. Lui è il primogenito, fra noi (Rm 8,29).

3. C’è un episodio della vita di Gesù nel quale la teologia della gioia si fa trasparente. 

 È la scena delle nozze di Cana, quando gli sposi non hanno più vino e Gesù compie il suo primo miracolo. E la gloria si rivela e la fede scintilla. Gesù va alla festa che celebra l’amore. L’amore umano, nella sua naturalezza, nella sua corporeità e spiritualità, nella bellezza iscritta dal Creatore nel corpo e nel cuore dell’uomo e della donna. La festa di una unione che è paradigma di conoscenza dell’amore di Dio, e sul quale Cristo pone il suo segno sacro.
Il vino è la gioia. Nella sua simbologia profonda, radicata in antico, il vino evoca anche l’immagine della prosperità, dell’abbondanza, della salute, della vitalità. Ma è la gioia il suo segno, è nella gioia che lo spirito trova la propria singolare ebbrezza (la «sobria ebrietas» degli antichi contemplativi).
«Non hanno più vino» è lo sconcerto improvviso di veder guastata la gioia. La privazione, o forse l’improvvidenza, il desiderio che non s’appaga, lo sperpero che si paga. Non c’è più gioia anche quando siamo estenuati dalla ricerca di gioie artificiali, disperdendo l’autentico bene. Ma ecco il miracolo della sollecitudine invocata, propiziata dalla madre: e col gesto obbediente dei servi il vino scintilla nelle giare della purificazione. Nelle giare dell’acqua rituale, sì, anche questo è un segno fra i segni. I rituali hanno il loro bravo rispetto, per l’amor del cielo. Ma son rituali: e nulla regge il paragone con il tuffo nella pienezza dell’amore. Qualche fariseo vuol correggere il Maestro, suggerendo una predica sull’astinenza, a metà del banchetto, per rispetto delle giare? No, il Maestro è più dei riti. Ed è anche più esigente dei riti, perché è l’amore più esigente. Il vino dell’amore può diventare sangue, e lo diventerà nell’ultima sera della sua vita, la sera in cui la confidenza con i discepoli traboccherà, insieme al dono supremo, nella grande parola di gioia: «vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11)

4. L’amore può arrivare fino al dono della croce.
La tribolazione della vita, la «nostra croce» come noi la chiamiamo, viene per tutti, ed è vano scansarla, finirebbe per schiacciarti. Ma accettare la croce per chi ha fede in Gesù non è disperazione, perché vita e morte hanno riscatto nella sua promessa: «Io voglio che là dove sono io siano anch’essi». Anche noi, in speranza, possiamo pregustare questa gioia.
Ha lasciato scritto Carlo Carretto: «Se tu bevi quel vino che Dio stesso ti offre, sei nella gioia. Dio è gioia anche se sei crocifisso. Dio è gioia sempre. Dio è gioia perché sa trasformare l’acqua della nostra povertà nel vino della Risurrezione. E la gioia è la nostra riconoscente risposta».
Mostrare la gioia cristiana, semplicemente, è fare della propria vita un catechismo vivente. Ciò che in noi è noioso e triste non corrisponde alla fede nel Maestro. Ma la gioia è essa stessa una grazia; una vocazione di grazia che assomiglia alla santità. Per questo i santi hanno irradiato la gioia. Per questo noi la invochiamo.

461 - IL VINO DELLE NOZZE DI CANA - 20 Gennaio 2013 – IIª Domenica del Tempo ordinario

(Isaia 62,1\-5 1ªCorinti 12,4-11 Giovanni 2,1-11)

Nel linguaggio profetico il vino esalta l’ebbrezza dell’incontro sponsale (Os 2,2-24; Is 62,5.8.9). Un rilievo particolare è dato dall’esultanza radiosa dei tempi escatologici: quel giorno saranno allietati da un vino straordinariamente abbondante (Am 9,13-14; Ger 31,12; Gl 2,19.22.24), di qualità sopraffina (Os 14,8; Is 25,6; Zc 9,17) e di intensa gratuità (Is 55,1). Il Cantico dei Cantici utilizza ripetutamente la metafora del vino per dichiarare l’attrazione che l’Amato e l’Amata nutrono l’uno per l’altra (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2). Poiché Gesù offre una quantità straordinaria di vino (più di 500 litri) nel contesto di un banchetto nuziale, comprendiamo che in Lui abbiamo l’avvento dei tempi messianici: colui che dà il vino è lo sposo-messia. Il vino rappresenta dunque il dono messianico per eccellenza, identificato con Gesù stesso: unicamente il suo vino è capace di purificare e di salvare. In altri termini, il vino offerto a Cana simboleggia la sua parola rivelatrice, definitiva, che porta a compimento la legge antica. Per questo le sei giare sono riempite «fino all’orlo».
A riprova di questa identificazione è interessante notare come nel testo la bontà del vino è descritta dall’aggettivo kalós, ‘buono/bello’, il medesimo utilizzato per descrivere la qualità di Gesù, buon pastore che realizza tutte le attese di Dio (10,1). L’abbondanza ed eccellenza del vino esprimono dunque l’abbondanza ed eccellenza del dono che Gesù è; il fatto che quel vino arrivi soltanto alla fine del banchetto svela che Gesù è veramente la «pienezza della grazia e della verità» (1,14). Gesù, la Parola fatta Carne, si gusta nell’acqua fatta vino. Quando ‘l’ora’ di Gesù si compirà nella sua elevazione sulla croce, quel vino avrà il sapore della sua vita immolata per la nostra salvezza. La seconda parte del v. 11 indica la ragione del segno: «i suoi discepoli credettero in Lui». Mi sembra opportuno approfondire il significato di questo verbo che ricorre ben 98 volte nel quarto vangelo, dove è stranamente assente il sostantivo «fede». ‘Credere’ per Giovanni non è uno stato, ma un processo dinamico. L’associazione costante con la preposizione eis suggerisce la dinamicità della relazione: credere è ‘rimanere’ nella relazione con una Parola che ci incontra, ci mette in discussione, si propone alla nostra accoglienza ed alla quale siamo chiamati a rispondere in un cammino di sequela perseverante. In questa prospettiva comprendiamo il significato della presenza di Maria: essa non si sovrappone al figlio; è disposta a lasciargli il campo. Non conosce la risposta, ma continua a camminare nella fede, educando alla fiducia incondizionata nei confronti di Gesù. Per questo, nel v. 12 è ribadita la sua presenza quando i discepoli muovono i primi passi seguendo il Cristo. La precisazione del narratore, che essi rimasero a Cafarnao «pochi giorni», evita la chiusura della narrazione. Essa rimane sospesa verso un compimento che sarà offerto al lettore ai piedi della croce, quando Maria ritornerà al fianco dei discepoli, per essere offerta dal Figlio come Madre e custode dei credenti.
A Cana, dunque, Gesù crea il popolo dei suoi discepoli: essi sono la primizia della comunità messianica fondata nella relazione con Lui. Le parole della Madre riecheggiano le parole di Israele, quando ai piedi del monte Sinai accolse il dono della Legge: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo» (Es 19,8; 24,3.7). Pronunciando il suo sì Israele diviene la sposa del suo Dio: «Io stesi il lembo del mio mantello su di te…, giurai alleanza con te… e divenisti mia» (Ez 16,8). A Cana, la madre invita anche noi, comunità dei discepoli del Risorto, a percorrere la medesima strada, per divenire amici dello sposo (3,29) ed essere introdotti alla mensa nuziale (Ap 19,7-9).

PREGHIERA
Nonostante i nostri preparativi, nonostante i nostri calcoli e le nostre sagge previsioni, accade inevitabilmente, Gesù, che venga a mancare qualcosa di essenziale. In quel frangente non ci resta che rivolgerci a te, Gesù, perché da soli non potremmo far fronte alle difficoltà. Le nostre energie hanno un termine e le nostre risorse si esauriscono. I nostri progetti, affidati solamente alle nostre capacità, sono votati al fallimento.
Anche quel giorno, a Cana, la festa di nozze stava per finire e in modo piuttosto miserevole. Com’è possibile nutrire l’allegria con bicchieri colmi d’acqua? Com’è possibile continuare, privi di quel segno di benedizione, di fecondità, di gioia, rappresentato dal vino?
Il tuo intervento, Gesù, permette al banchetto di continuare, ma non in un qualche modo, con un vinello di recupero. Sì, è sempre così, Gesù, tu ci offri il vino buono, il vino migliore, proprio quando pensiamo che tutto stia per finire male: così ci dimostri che vale la pena fidarsi interamente di te.