sabato 30 giugno 2012

406 - LA VITA IN RELAZIONE A CRISTO - 01 Luglio 2012 – XIIIª Domenica ordinaria

(Sapienza 1,13-15;2,23s  2ª Corinti 8,7-15  Marco 5,21-43)

Le letture sono concordi nel dare risalto alla vita. La riflessione della Sapienza guarda al disegno originario del Dio della vita che ha creato l’uomo a immagine del Creatore. Il canto di ringraziamento del Salmo 29 trae origine dall’intervento di Dio che ha risollevato chi si trovava in cammino verso la morte. Il Vangelo non solo presenta la donna guarita e salvata, dopo lunghi anni di tentativi andati a vuoto, ma anche la risurrezione della figlia di uno dei capi della sinagoga. Il racconto è costruito per porre in evidenza il contrasto tra l’azione di Dio e la condizione umana. La richiesta di aver fede posta al papà della bambina e l’intervento di Gesù che opera donando la vita quando tutto sembrava impossibile mostrano la grandezza della potenza di Dio.

La guarigione della donna affetta da perdite di sangue va colta come la guarigione totale della persona. La malattia coinvolgeva la sfera sociale e religiosa. La donna non poteva avere alcun contatto con le persone perché le avrebbe rese impure, impossibilitate a rendere culto a Dio senza passare attraverso i riti di purificazione. Gesù le ridona vita perché riconosce la sua fede e nello stesso tempo la reintegra nella società. È tornata alla vita di relazioni interpersonali e Gesù ha posto fine al suo lungo tempo di malattia e di impurità.

Almeno due itinerari parlano oggi di vita: la speranza e la solidarietà. Mentre si guarda al futuro con accentuazioni negative e ci sono tante motivazioni legate al poco senso di responsabilità verso tutto ciò che non interessa direttamente e di cui non valutiamo le conseguenze se non nell’immediato, avere la forza per sperare significa credere nella vita.

Inoltre uno sguardo all’intero mondo e alle condizioni di indigenza di intere popolazioni ci induce alla solidarietà. Solidarietà come aiuto nell’emergenza alle persone colpite da calamità naturali, ma anche come assistenza agli ammalati, agli anziani, a tutti coloro che si rivelano incapaci di gestire la propria vita. In questo tempo di ristrettezze economiche per alcuni è difficile saper amministrare le limitate risorse a disposizione. Educare ad usare al meglio il poco che si ha: anche questo è un gesto di solidarietà. Speranza e condivisione ci permettono di superare le nostre visioni limitate e sono espressione della nostra adesione di fede al Dio della vita.

Per un cristiano la vita ha senso e significato in relazione a Cristo. L’espressione che nella preghiera liturgica ricorre sovente «Per Cristo nostro Signore» è estremamente significativa. Ipotizzare di vivere la vita contando soltanto sulle qualità umane è un’impresa che non produce alcun frutto. Di fronte a qualsiasi imprevisto negativo e ancor più confrontandosi con la malattia e con il mistero della morte – che umanamente segna la fine – senza avere alcuna apertura ultraterrena l’unico esito possibile è la frustrazione che consuma la vita della persona umana. Nella relazione con Cristo anzitutto non si vive abbandonati a se stessi: il Signore risorto ci accompagna momento per momento nella nostra esistenza terrena. In riferimento alla sua croce qualsiasi evento, compresa la morte, non può più essere la parola definitiva, ma apre sempre a qualcosa di nuovo in una relazione che non finisce mai. La comunione con Cristo è il senso della vita e ogni nostro tentativo di toglierci e negare questa realtà viene superato dal perdono di Dio.

PREGHIERA - Nulla può resistere, Gesù, alla forza del tuo amore. Non c’è malattia o sofferenza oscura da cui tu non ci possa liberare. Tu puoi sconfiggere anche la morte, che ci appare come ineluttabile, basta che noi riponiamo in te la nostra fiducia,

che ci mettiamo risolutamente nelle tue mani, che ci abbandoniamo senza remore alla salvezza che ci offri.

È la fede, dunque, che ti permette di operare in noi, senza intralci. È la fede che ti consegna la nostra esistenza perché tu la possa guarire nel profondo e trasfigurare rendendola un segno incandescente della tua bellezza.

Permettimi, allora, di far cadere tutto ciò che mi separa ostinatamente da te: l’attaccamento sconsiderato al mio modo di vedere e di giudicare, la vergogna nell’ammettere la mia fragilità, la mia debolezza, la presunzione di poter sempre farcela da solo, senza il tuo aiuto, l’orgoglio che mi trattiene dal cercarti con la semplicità di un povero. E apri le profondità del mio cuore alla tua tenerezza benefica.

405 - ZACCARIA, ELISABETTA E GIOVANNI

Per una pausa spirituale durante la XIIª Settimana del Tempo ordinario

 Leggendo il concepimento (Luca 1,5-25) e la nascita di Giovanni (Luca 1,57-80) ci incontriamo con una famiglia molto particolare. Elisabetta e Zaccaria sono due anziani dalla spiritualità ricca, nutrita dal prolungato ascolto della parola di Dio e dall’irreprensibile osservanza della legge (v. 6). La prolungata fedeltà a Dio li ha allenati a riconoscere l’opera insolita che Dio ha svolto nella loro famiglia. Elisabetta interpreta la nascita del figlio come manifestazione della misericordia di Dio in lei (cfr. v. 58), una nascita che porta gioia in tutto il vicinato. Quanto a Zaccaria, egli è stato inizialmente incredulo, ma ora mostra di aver superato l’incredulità. Entrambi, pur diversi nel modo di reagire al dono di Dio, sono concordi nel dare al bambino il nome deciso da Dio (vv. 60-63). Quel nome è un programma, infatti, Giovanni significa «Dio fa grazia». Il bambino non porterà il nome proposto dai parenti, ma quello che la bocca del Signore ha pronunciato; non rifletterà solo la storia e i desideri della famiglia cui appartiene, ma sarà ricordo perenne di un progetto più grande. Nella disputa sul nome non è in gioco solo una piccola bega familiare sulle usanze da rispettare, ma si confrontano due modi di vedere la vita: quello di chi si limita a registrare i fatti che accadono, e quello invece di chi ha scoperto che la vita e la storia degli uomini sono guidate e orientate da Dio. Il nome che dovrà essere dato al bambino è quello che Dio ha stabilito perché ha un progetto preciso sul bambino.

Il clima di fede che avvolge la casa di Zaccaria ed Elisabetta si manifesta anche nella puntuale osservanza della pratica della circoncisione, segno che il nuovo nato entra nell’alleanza di Dio e diventa partecipe delle benedizioni di cui il popolo di Abramo è depositario (v. 59).

Non appena Zaccaria ricupera l’uso della parola, non si ferma a spiegare quello che è successo, ma apre la bocca per lodare Dio, fondendo insieme due aspetti: lode al Dio di Israele che ha benedetto il suo popolo e profezia sulla vocazione speciale riservata al bambino (vv. 67ss.). La preghiera di lode di Zaccaria apre gli occhi e la bocca anche dei vicini, che incominciano a parlare di quanto avvenuto; così, per la fede di alcuni che hanno creduto, molti si preparano a conoscere le opere di Dio, custodendo nel cuore le parole udite.

«Che sarà mai di questo bambino?», si chiede la gente (v. 66). La vita di quel bambino è in un certo senso ancora tutta da inventare; quel che si sa è che Dio si aspetta cose grandi da lui, ma “che cosa” è ancora ignoto, e lo stesso Giovanni dovrà ancora apprendere molto, anche passando per lo scandalo di un Messia diverso rispetto alle sue attese. Serve comunque una lunga preparazione prima che possa presentarsi a Israele come il rude e affascinante profeta del deserto. L’evangelista non lascia trapelare nulla del tempo della formazione del Battista, non dice nulla nemmeno del tempo trascorso nel deserto. Sappiamo solo che anche per lui c’è stato bisogno di un tempo di rafforzamento interiore prima che giungesse il tempo di parlare a nome di Dio; soprattutto di una lunga familiarità con quel deserto che tanta parte avrà nella sua predicazione.

«Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno...”» (At 13,25): così Luca sintetizza la vita e la predicazione del Battista, con l’immagine di una missione portata a termine; del resto la definizione più classica con cui è conosciuto è quella di «precursore», di uno che corre davanti a un altro. Una corsa che, diversamente da altre, non mira al premio del primo posto, ma soltanto di giungere alla meta per dire: «Non io, ma viene dopo di me uno». Giovanni è un dito puntato che indica il Messia; egli è stato uno dei personaggi più popolari nella Chiesa dei secoli passati e merita anche oggi una grande attenzione: è stato certamente grande per il rigore morale unico che lo ha caratterizzato, ma lo è stato in primo luogo per la sua vocazione a indicare sempre e solo Gesù.

Chi è stato Gesù per il Battista? Con il quarto vangelo si può dire che Giovanni Battista ha guardato Gesù come il supremo e definitivo rivelatore di Dio, l’unico che ha visto il Padre. Proprio per questo di fronte a lui ha provato gioia, la gioia dell’amico dello sposo che non è geloso per il fatto che tutti gli sguardi siano rivolti verso lo sposo, e che anzi conosce quella forma paradossale di gioia che consiste nello scomparire quando lo sposo ha ormai unito a sé la sua sposa (cfr. Gv 3,28-30). Questa gioia non inizia con l’arrivo dello sposo, è presente già nella predicazione penitenziale con cui Giovanni prepara la venuta di Gesù. La gioia è anche quella di chi aspetta una visita importante e vi si prepara con trepidazione. Gesù è l’unico da attendere, ma è necessario accorgersi della sua venuta, di qui la necessità di preparare l’animo ad accoglierlo. Per questo la Chiesa trova ancora oggi nel Battista un’immagine efficace di quello che è il suo compito e di quello che essa stessa è, e deve essere.

A proposito del Battista, Gesù affermerà: «Fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni» (Lc 7,28). Non è facile trovare un criterio in base al quale valutare la grandezza di una persona. Oggi una persona è grande quando ha tanti soldi in tasca, una posizione sociale di prestigio, quando detiene il potere politico, economico, quando è intraprendente e intelligente. Ma per nessuno di questi motivi Gesù ha definito grande Giovanni Battista, egli è stato «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore… » (Mc 1,3). Il Battista è stato grande perché ha messo la sua vita a servizio di Dio, è stato segno della presenza di Dio. Ciò che rende grandi dinanzi a Dio, è vivere per lui, riprodurre nella propria vita la sua fisionomia, portare nel nostro ambiente di vita la gioia che viene da lui, unico vero amico che non delude mai.


sabato 23 giugno 2012

404 - UN UOMO MANDATO DA DIO - 24 Giugno 2012 – Natività di Giovanni Battista

(Isaia 49,1-6  Atti 13,22-26  Luca 1,57-66.80)

 La Natività di San Giovanni Battista ha la precedenza sulla domenica del Tempo per annum. Oltre che per la nascita, Giovanni è ricordato anche per il suo martirio il 29 agosto col grado di memoria. Questi pochi dati dicono già l’anomalia della memoria liturgica che si compie del Precursore: è l’unico santo, assieme alla Vergine Maria, di cui si celebra anche la nascita; questa inoltre assume maggiore rilievo rispetto alla sua morte, per giunta avvenuta col martirio, mentre comunemente i santi sono venerati nel giorno della loro nascita al cielo. Queste particolarità sono giustificate con l’unicità di Giovanni Battista, colui che lo stesso Gesù ha indicato come il più grande tra i nati di donna, che al Messia ha preparato la strada. Non solo: la sua nascita ha un significato profetico in riferimento al Signore, come l’evangelista Luca mostra bene con i due cicli paralleli, eppure differenti, dell’annunciazione e nascita di Giovanni prima e di Gesù poi.

Il nome di Giovanni indica il suo stesso programma di vita. Il significato “Dio fa grazia” è già l’annuncio della presenza di Dio che sceglie un uomo per renderlo strumento della sua azione: Giovanni è venuto nel mondo per guidare alla grazia della conversione e soprattutto per mostrare che la grazia di Dio si fa persona in Gesù Cristo, che egli riconosce come il Messia atteso e l’Agnello che sarà immolato.

La vicenda del nome di Giovanni, che rompe la tradizione familiare ed è fermamente voluto dai genitori contro le pressioni dei parenti, pone ancora in evidenza che questo bambino va oltre i confini della sua famiglia per essere un segno di Dio per l’intero popolo e per tutta la famiglia umana. Egli fa parte di quel progetto più grande che è la storia di salvezza di Israele e dell’umanità intera, per il quale Dio chiama e manda.

Giovanni Battista prepara la strada a Gesù. I vangeli lo presentano come ‘Voce’, una voce che chiama a conversione, che invita a penitenza, che sollecita ad aprire il cuore a colui che viene. Poi si ritira dalla scena. Il suo scopo è orientare a Gesù. Giustamente il vangelo di Luca può commentare: «E davvero la mano del Signore era con lui».

PREGHIERA - C’è stata una straordinaria convergenza quel giorno tra le parole del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta, sua moglie. Il loro figlio è sicuramente un dono del tutto inatteso che ha raggiunto una coppia anziana e per di più una donna sterile. E dunque non può inserirsi nella storia delle generazioni riproducendo il nome del padre. Si chiamerà, dunque, Giovanni perché Dio vuole così: in quel nome è racchiusa già tutta la sua missione.

“Dio fa grazia” e lui, il Battista, dovrà annunciare, Gesù, la tua venuta in mezzo agli uomini e indicarti presente perché ti ascoltino e ti seguano.

“Dio fa grazia” e lui, il Battista, consacrerà la sua voce e tutta la sua vita a ridestare l’attesa, a domandare conversione, a preparare i cuori.

“Dio fa grazia” e lui, il Battista, non farà nulla per occupare la scena perché chi fa la volontà di Dio sa che ha una missione da compiere e la onora fino in fondo. Ma poi si fa da parte perché Dio possa manifestarsi senza intralci.

403 - GRAZIA DI DIO, LIBERTÀ DELL’UOMO

Per una pausa spirituale durante la XIª Settimana del Tempo ordinario

 Si attribuisce a Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dell’Ordine dei Gesuiti, questo detto: «Da parte tua agisci come se tutto dipendesse da te, poi lascia alla Provvidenza divina come se tutto dipendesse dal Signore». I nostri genitori e nonni ci ripetevano sovente, in modo analogo: «Aiutati, che Dio ti aiuta».

La Chiesa cattolica, nello sviluppo del suo insegnamento dogmatico, ha continuamente affermato che l’inizio della fede e della stessa inclinazione a credere, come la crescita e il compimento della salvezza, sono dono della grazia e non semplicemente opera nostra. Non senza la grazia, infatti, può l’uomo liberamente acconsentire all’azione di Dio.

Per comprendere come grazia e libertà interagiscono tra loro si sono utilizzate immagini tratte dal mondo naturale. C’è l’immagine tradizionale dei due uomini caduti nel pozzo: a tutti due Dio tende la mano, ma dipende dall’uomo volgere o no la sua mano a Dio. La scelta della salvezza dipenderebbe dall’uomo.

C’è l’immagine del gattino e della scimmietta. Quando i due sono in pericolo, nel primo caso arriva la gatta che afferra il gattino e se lo porta via; nel secondo caso, invece, la scimmietta salta nel seno della mamma e tutte due fuggono via. C’è anche l’immagine di due locomotive che vanno sullo stesso binario: quanto più la prima avanza, tanto più l’altra deve ritirarsi e viceversa. In tutti questi casi vediamo che Dio e uomo, grazia e libertà dell’uomo, vengono visti come due grandezze concorrenziali.

Quanto più Dio opera, tanto meno l’uomo; e viceversa. C’è poi l’immagine dei due cavalli che sulle due sponde del fiume trascinano ciascuno un battello. Questa immagine viene usata frequentemente per indicare come la salvezza sia un atto in cui Dio e uomo cooperano, ma dove ciascuno è solo causa parziale della salvezza. Mentre grazia e libertà dell’uomo sono cause integre e totali della salvezza.

Dal punto di vista storico e teologico, il dogma dell’immacolata concezione di Maria è una splendida immagine di come grazia e libertà dell’uomo, azione divina ed impegno umano, cooperano tra loro. «Dio può volere da sé, cioè antecedentemente alla effettiva decisione libera dell’uomo, in maniera assoluta ed efficace una determinata azione libera e buona dell’uomo. Con ciò questa non cessa di essere libera e non ne segue che a causa della libertà Dio preveda l’azione libera solo perché essa avviene e non perché Egli la vuole. Dio raggiunge così ciò che vuole e l’uomo fa liberamente ciò che Dio da sé ha voluto in maniera incondizionata. Dio, infatti, proprio perché è Dio, può donare alla creatura anche il libero agire davanti a lui. Perché Egli lo possa, come Egli lo faccia, è un mistero di tenebra accecante. Per dirla in breve, chiamiamo questo fatto la predestinazione, escludendo da questo concetto ogni fatalismo, ogni mancanza di libertà e ogni determinismo» (K. Rahner).

Grazia di Dio e libertà dell’uomo non sono inversamente proporzionali, ma direttamente proporzionali: quanto più Dio dona la grazia alla creatura, tanto più la creatura è libera. «L’onnipotenza divina e la libertà della creatura crescono in maniera uguale e non in maniera opposta; la libertà onnipotente di Dio rende l’uomo non meno libero, ma è la condizione per la sua libertà; l’onnipotenza di Dio non costringe la creatura, ma fonda la capacità della creatura» (G. Greshake). La grazia di Dio non ostacola la libertà dell’uomo, anzi la suscita e la attiva. La pone e la dispone. Il peccato, invece, interrompe questa graziosa proporzionalità diretta, e l’uomo opera da solo senza Dio. «L’uomo compie un’opera propria quando rifiuta, ma deve invece ritenere un dono di Dio il suo libero sì» (K. Rahner).

Specialmente nella preghiera verifichiamo quale tipo di proporzionalità stiamo vivendo con Dio. Pensiamo che Dio potrà esaudire la nostra preghiera, solo se rimaniamo passivi nel nostro agire. Se chiedo a Dio una grazia, aspetto che mi sia concessa. Le immagini bibliche, invece, ci suggeriscono, da un lato, che è Dio colui che getta il seme e lo pianta nella terra; da un altro lato, è la terra che produce spontaneamente (automátë: cioè automaticamente, che «si muove da solo») prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga.

Tra la grazia e la libertà umana, l’opera divina e il nostro impegno, la preghiera e l’azione, non c’è un rapporto di sostituzione (l’una senza l’altra); non c’è un rapporto di coordinazione (l’una agisce con e accanto all’altra); ma c’è un’identità relazionale. Dio agisce non senza di noi, nel senso più intimo, cioè, attraverso e in noi. Quanto più cresce la grazia, tanto più aumenta la mia capacità di rispondere a Lui e quindi la mia libertà; quanto più mi affido a Dio, tanto più si fa sentire in me il desiderio di agire e prendo consapevolezza della mia responsabilità per gli altri. Quanto più compio la volontà di Dio, tanto più la mia volontà è la sua. «Non consiste forse il digiuno che voglio nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”» (Is 58,7-9).

La preghiera diventa così un radicale affidamento a Dio, in cui chiediamo a Dio non tanto di agire al nostro posto, ma diveniamo consapevoli di noi stessi, delle persone che ci circondano e degli avvenimenti che ci accadono attorno. Invece che demandare a Dio i nostri doveri, deresponsabilizzando così la fede, nella preghiera sentiamo che la nostra responsabilità e la nostra azione preparano il Regno di Dio.

Una storia sufi così racconta: «Un uomo sconvolto da tutto il dolore e la sofferenza che vedeva intorno a lui alzò il suo grido a Dio. “Guarda tutto questo dolore e sofferenza. Guarda tutti questi omicidi e queste tragedie. Oh mio Dio, come mai non sei intervenuto?”. Allora Dio gli disse: “Ma io ho mandato te!”».

domenica 17 giugno 2012

402 - GRAZIA DI DIO E LIBERTÀ DELL’UOMO - 17 Giugno 2012 – XIª Domenica ordinaria

(Ezechiele 17,22-24  2ª Corinti 5,6-10  Marco 4,26-34)

 Gesù annuncia l’avvento del Regno e a più riprese con i suoi discorsi ne vuole illustrare le caratteristiche. Le due parabole di oggi indicano che il Regno è presente nel mondo grazie all’impulso di Dio.

PRIMO MOVIMENTO: DIO SEMINA E COLTIVA. Dio semina «a piene mani» ma lascia che la crescita avvenga da sola, senza il suo impegno di agricoltore che cura i propri campi. Il seme gettato è stranamente molto piccolo. L’inizio del Regno, quindi, viene da Dio in proporzioni minuscole e la sua crescita sembra quasi lasciata a se stessa.

In questa fase della parabola si presenta l’azione di Dio come nascosta, non assente, presente in modo misterioso, spesso invisibile, ma non per questo meno reale ed efficace. Certo, agli occhi umani l’operosità divina non appare, anzi talvolta sembra proprio che Dio abbia abbandonato il mondo al suo destino. Occorre qui saper dare una lettura sapienziale della storia umana, facendo riferimento a quelle domande che spesso rimangono senza risposte: perché il male nel mondo? perché la malattia, la sofferenza, la morte, soprattutto dei giovani e degli innocenti? Perché le disgrazie naturali? perché i malvagi trionfano sui buoni? Dov’è il regno di Dio che Gesù ha annunciato nel vangelo? È lo stesso vangelo che risponde, quando mostra che «il seme germoglia e cresce», quasi a insaputa dello stesso contadino. Il seme è gettato e agisce, misteriosamente e nascostamente, in attesa del frutto maturo che giunge secondo i tempi, altrettanto misteriosi, della provvidenza di Dio.

SECONDO MOVIMENTO: IL FRUTTO DEL REGNO DI DIO NELLA STORIA. Allora quale sarà l’atteggiamento del cristiano? Non certo quello del disinteresse da tutto, mascherandosi dietro l’alibi-pretesto che il seme cresce comunque; ma neanche l’atteggiamento attivista di chi pensa che i frutti dipendano solo dal suo impegno. Il vangelo invece suggerisce un atteggiamento di fiducia e di attesa, che con sapienza e pazienza sa aspettare il tempo maturo e, nel frattempo, sa cogliere i segni discreti, a volte piccolissimi, della presenza del regno di Dio nel mondo.

Certo, questi segni a volte sono davvero piccoli se non addirittura invisibili, ma la fede del discepolo di Gesù sa che anche nel silenzio dell’inverno sotto terra c’è la vita, sa che anche nel silenzio di Dio egli agisce. La seconda parabola evidenzia questo paradosso con il contrasto della grande pianta che ha origine dal piccolo granello di senape, tra un inizio umile e una conclusione grandiosa. Così è il regno di Dio.

L’atteggiamento del cristiano è quello di una attesa fiduciosa, ma anche operosa, come interpreta la seconda colletta in riferimento al «germe della verità e della grazia» che Dio semina a piene mani: «Fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica». È il classico rapporto tra grazia e libertà, sviluppato dal contributo dell’attualizzazione e che qui potrebbe essere opportunamente ripreso. Mentre il vangelo sottolinea soprattutto l’accoglienza del seme di Dio che agisce, la seconda lettura pone l’accento sul contributo operoso dell’uomo, che delle proprie azioni dovrà rendere conto «davanti al tribunale di Cristo». I due aspetti vanno correttamente armonizzati  senza esagerazioni unilaterali.

La conclusione può essere affidata al detto attribuito a S. Ignazio di Loyola: «Da parte tua agisci come se tutto dipendesse da te, poi lascia alla Provvidenza divina come se tutto dipendesse dal Signore».

PREGHIERA - Attraverso la tua parola, Gesù, attraverso le tue azioni Dio opera nel cuore della storia. Il piano di salvezza che tu ci hai svelato è veramente portentoso: strappare l’umanità al male e al peccato ed offrire la possibilità di un’esistenza nuova, una vita buona e bella, ispirata dal Vangelo, sostenuta dallo Spirito.

Sì, è un progetto meraviglioso e proprio per questo noi ci attenderemmo un gran dispiegamento di forze, mezzi a profusione, l’esibizione impressionante della forza che viene da Dio e alla quale nessuno può resistere. E invece … invece la strada che tu hai scelto è del tutto modesta, quasi banale. È una storia simile a quella del seme affidato alla terra, che scompare al suo interno prima di far germogliare un frutto abbondante.

È la storia del chicco di senape, il più piccolo fra tutti, un puntino nero quasi invisibile, che fa nascere la pianta più grande, un rifugio per gli uccelli del cielo.

Signore Gesù, liberami dal bisogno di mezzi appariscenti e ridesta la mia fiducia nella bontà del seme che hai piantato.

sabato 16 giugno 2012

401 - NEL MIRABILE SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA

Per una pausa spirituale nella settimana della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo

 IL TUO POPOLO RADUNATO INTORNO A QUESTO ALTARE – Ogni azione liturgica è un atto ecclesiale e un gesto comunitario, non invece una preghiera individuale o privata. La Sacrosanctum Concilium ricorda questo principio tradizionale e lo pone tra i fondamenti della riforma liturgica: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento dell’unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano» (n. 26). Tale principio è ancor più evidente per la celebrazione eucaristica, cuore della vita liturgica della Chiesa, in quanto sacramento di comunione tra Dio e l’uomo e sorgente di unità nella comunità dei fedeli.

Lo sviluppo rituale della messa è ricco di elementi che richiamano la dimensione ecclesiale e comunitaria dell’eucaristia: a cominciare dallo stesso atto dell’essere radunati, risposta alla convocazione di Dio, sino a giungere alla comunione sacramentale al pane e vino, con in mezzo tanti altri riti e atteggiamenti rituali che coinvolgono la preghiera del singolo nella preghiera di tutto il corpo ecclesiale. Dobbiamo  richiamare alcuni di elementi per educarci a essere veramente assemblea liturgica; non è raro infatti che diversi fedeli, anche animati da un profondo spirito di preghiera, prendano parte alla messa accentuando una partecipazione individuale che risulta quasi staccata dal resto della comunità radunata.

L’eucaristia invece è un gesto comunitario dove Dio Padre convoca in unità i suoi figli nello Spirito Santo, per nutrirli alla mensa della sua parola e del corpo e sangue di Cristo. Sono da richiamare, ad esempio, le parole della seconda epiclesi della terza preghiera eucaristica: «A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito», dove l’unità è donata proprio in forza della partecipazione alla mensa eucaristica.

NEL MIRABILE SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA CI HAI LASCIATO IL MEMORIALE DELLA TUA PASQUA -  La preghiera eucaristica si rivela maestra di spiritualità e di preghiera anche in riferimento all’eucaristia come memoria: memoria della morte e risurrezione di Cristo e quindi presenza di quel sacrificio nel suo valore salvifico. Le parole, per esempio, del Canone romano sottolineano chiaramente il rapporto tra la pasqua del Signore e la celebrazione della messa, che di quell’evento è memoria e attualizzazione: «In questo sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti e della gloriosa ascensione al cielo del Cristo tuo Figlio e nostro Signore».

Così nella messa non è da privilegiare in modo esclusivo la presenza del Signore Gesù nel pane e nel vino, ma questa stessa presenza è da porre in collegamento con l’evento storico-salvifico che la genera, cioè la morte e la risurrezione di Cristo. È evidente che non c’è opposizione tra i due aspetti, come se ci fosse concorrenza tra presenza e memoria, che invece vanno posti in un corretto rapporto reciproco, come lo troviamo nelle preghiere eucaristiche.

ADORIAMO CON VIVA FEDE IL SANTO MISTERO DEL TUO CORPO E DEL TUO SANGUE -  L’eucaristia che ci è donata per il nutrimento come cibo e bevanda è presenza del Cristo vivente in mezzo al suo popolo. Da qui nasce l’atteggiamento di stupore e adorazione che fin dall’antichità i cristiani hanno sempre nutrito davanti a questo sacramento. Il senso e la pratica dell’adorazione eucaristica hanno conosciuto diverse modalità nel corso della storia, ma non si può dire che sia mai venuto meno. Un testo di Cirillo di Gerusalemme, molto noto a proposito della comunione nella mano, testimonia l’atteggiamento adorante anche nell’antichità cristiana: «Fa’ con la tua mano sinistra un trono per la tua destra, poiché sta per accogliere il Re, e nel cavo della mano ricevi il corpo di Cristo rispondendo: “Amen”. […] Infine, dopo aver comunicato al corpo di Cristo, accostati anche al calice del sangue, non stendendo le mani, ma inchinandoti e dicendo con un gesto di adorazione e di venerazione: “Amen”». Sullo stesso tenore scrive Agostino: «Nessuno mangia quella carne (di Cristo) senza prima averla adorata. [...] Non soltanto non si pecca adorando, ma commetteremmo peccato non adorando».

La solennità del Corpo e Sangue di Cristo, è l’occasione per ribadire l’importanza dell’atteggiamento adorante come parte della celebrazione eucaristica, certamente non l’unico ma ugualmente da non trascurare. Allo stesso tempo è da incoraggiare questo atteggiamento anche nella preghiera personale, soprattutto in chiesa al di fuori delle azioni liturgiche. La processione eucaristica, propria della solennità odierna, è come un’adorazione continuata nelle strade delle città e dei paesi; questo gesto afferma la fede della comunità cristiana in Cristo morto e risorto, sempre presente in mezzo al suo popolo. La processione con il SS. Sacramento unisce due movimenti importanti delle azioni liturgiche, il camminare e il sostare in preghiera: camminare come simbolo della vita che compie i suoi passi con la forza dell’eucaristia, sostare in preghiera per adorare il Signore presente nei segni sacramentali.

sabato 9 giugno 2012

400 - IL SIGNORE NUTRE IL SUO POPOLO - 03 GIUGNO 2012 – Solennità del Corpo e Sangue di Cristo

(Esodo 24,3-8  Ebrei 9,11-15  Marco 14,12-16.22-26)
Nel dono del suo corpo e del suo sangue Gesù rinnova l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Ciò che il Signore Gesù ha compiuto nell’ultima cena con i suoi discepoli porta a compimento il desiderio universale di vita e di salvezza. Ciò che questa solennità oggi ricorda e celebra è il mistero della sua perenne presenza in mezzo a noi, come pane che nutre la nostra vita interiore e fa di noi un solo ‘corpo’. La memoria eucaristica unisce infatti la comunità in un vincolo di fede, di speranza, di amore e di azione concreta per trasformare la storia degli uomini secondo il progetto di Dio: l’alleanza che salva. Quale risposta alla sua iniziativa egli chiede a noi fedeltà, mentre continua a nutrirci col dono di sé.
Il vangelo presenta il racconto dell’istituzione dell’eucaristia. Non era la prima volta che Gesù celebrava la pasqua con i discepoli. Mangiando con loro il pane, le erbe, la salsa, l’agnello e bevendo la coppa della benedizione, aveva già altre volte ringraziato insieme con loro Dio per la liberazione e la salvezza passata in attesa di quella definitiva. Dio, che si era manifestato come salvatore, non poteva non intervenire ancora.
Questa pasqua si presentava però con un’atmosfera tutta speciale. C’era attesa di vera liberazione e salvezza. La cena è celebrata il primo giorno degli Azzimi, cioè quando era immolato l’agnello identificato con la Pasqua (v. 12). L’evangelista Marco durante la cena non nomina mai l’agnello. La sostituzione è chiara: Gesù è l’agnello pasquale che sta per essere immolato. In quell’ultima cena con i suoi il Maestro non celebra solo la liberazione di Israele, ma quella di tutti gli uomini, che avverrà versando il suo sangue sulla croce. Durante la cena Gesù ripete il rituale tipico della pasqua, ma cambia le parole che ne spiegavano i riti: «Prendete, questo è il mio corpo» (v. 22) […] «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (v. 24). Alla duplice benedizione sul pane e sul calice Gesù dà un nuovo significato: è una pasqua nuova, celebrazione di una festa in cui Gesù è la vittima che offre la sua vita in riscatto per molti. In aramaico il termine «corpo» equivale a «persona», e il termine «sangue» equivale a «vita». Gesù offre se stesso, la totalità della sua persona e della sua vita. Con questi gesti e queste parole è rivelato ai Dodici il valore salvifico della sua morte che siglerà la nuova ed eterna Alleanza. La pasqua ebraica cede il passo alla pasqua cristiana, perché l’Agnello non è più immolato nel tempio, ma in mezzo alla comunità dei discepoli, una comunità povera, peccatrice, chiamata a ripetere il gesto di Gesù nell’attesa del momento in cui berrà il frutto della vite con lui nel suo regno (cfr. v. 25).
Gesù, accompagnando il dono del pane con le parole «Prendete, questo è il mio corpo» (v. 22), vuol dirci: questo sono io, questo è un segno vivo ed efficace della mia persona e della mia presenza. Nel segno del pane Gesù ha racchiuso il mistero della sua incarnazione: in lui Dio si è fatto uomo, ha assunto e condiviso fino in fondo la condizione umana. Donando se stesso nel segno del pane, Gesù entra nella vita dell’uomo come sostegno, aiuto del corpo e dello spirito, compagno di viaggio nel cammino della vita.
Con il calice del vino e con le parole che pronuncia su di esso: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (v. 26), Gesù parla della sua vita donata fino alla fine. Le parole di Gesù interpretano la sua morte come sangue versato in riscatto per tutta l’umanità. È questo il mistero della redenzione: un mistero di morte, ma soprattutto un mistero di vita. In Cristo, obbediente al Padre, si fonda l’alleanza nuova ed eterna fra Dio e l’umanità. L’antica alleanza, siglata al Sinai con l’aspersione del sangue, era stata troppe volte infranta da un popolo fragile e infedele; Gesù, uomo nuovo, si fa obbediente a Dio fino alla fine e, in quest’obbedienza, fonda l’alleanza definitiva e irrevocabile. Gesù ha obbedito per l’uomo di tutti i tempi e, soprattutto, gli ha dato la forza di imitare la sua fedeltà a Dio che ama l’uomo e vuole il suo vero bene. In questo senso, egli è morto per tutti noi, si è fatto vittima di espiazione per i peccati dell’intera umanità, rinnovando il vincolo di amore fra l’uomo e Dio. Da Cristo, che si dona nell’eucaristia, tutti i credenti ricevono l’invito a imitare la sua stessa «vita donata».
PREGHIERA - Tu vuoi mangiare la Pasqua con i tuoi discepoli, prima di andare incontro alla tua Pasqua di morte e risurrezione. Ti attende un passaggio difficile e oscuro, di sofferenza e di angoscia, la prova decisiva che suggellerà la tua fedeltà al Padre, la tua offerta totale all’umanità, la piena manifestazione del tuo amore smisurato.
Tu vuoi mangiare la Pasqua, ripercorrere l’antico rito per ricordare la liberazione dalla schiavitù nella terra d’Egitto, vuoi sederti alla tavola per fare memoria delle gesta prodigiose che Dio ha compiuto per il suo popolo.
 E tuttavia non puoi fermarti lì: c’è un evento ancora più decisivo che sta per compiersi e tu vuoi affidare ai tuoi il segno indelebile della tua presenza, la possibilità di attingere a quella salvezza che li raggiunge attraverso il tuo corpo spezzato e il tuo sangue versato.
Di domenica in domenica sarà così che entreranno nel tuo mistero d’amore.

399 - CHE COSA OPERA LA TRINITÀ PER NOI

Per una pausa spirituale nella settimana della SS. Trinità
Israele è cosciente della particolarità della sua storia a causa della relazione con Dio che l’ha resa unica. Questa consapevolezza è espressa nel Deuteronomio (4,32) con la forza delle domande retoriche: «Vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa?». Dio quindi ha parlato a un popolo che poi si è scelto come sua proprietà in mezzo alle nazioni.
Anche Gesù risorto conferma la sua presenza per sempre in mezzo ai suoi discepoli (Matteo 28,20); questa prerogativa di Dio è fatta propria da Gesù e nel momento conclusivo della sua missione, prima di lasciare il mondo terreno per tornare al Padre, promette di rimanere con i suoi sino alla fine del mondo. Colui che entra nella storia umana come l’Emanuele si mostra realmente il Dio-con-noi per sempre.
Il Dio della Bibbia, colui che Gesù ci ha mostrato nel volto del Padre misericordioso, non è quindi un Dio asettico o distaccato come quello dei filosofi, non è neanche un generico essere superiore che ci guarda dall’alto, non è nemmeno una divinità indistinta presente nella natura come una sorta di madre-terra che tutto contiene, ancora meno è una forza che agisce in noi e genera una situazione di benessere e pace interiore. Queste visioni distorte di Dio non sono pura accademia, ma idee più o meno diffuse nella mentalità contemporanea e talvolta acriticamente anche in persone che si dicono cristiane.
Più volte nella Bibbia si racconta la storia che Dio ha intessuto con il suo popolo, gli eventi che hanno manifestato la sua presenza e la sua azione a favore di Israele. Ogni credente, ogni cristiano dovrebbe poter raccontare la propria storia con Dio.

La storia di Dio con il suo popolo è più che un semplice fare qualcosa per noi e con noi, infatti tende a costruire una relazione interpersonale così profonda che consente a ciascun fedele di entrare nella comunione della Trinità. La lettera ai Romani (8,14-17) articola il rapporto che Dio instaura con noi: nel Battesimo siamo resi figli, riceviamo lo Spirito Santo che ci guida e ci fa sentire che Dio è Padre, siamo uniti intimamente a Cristo nelle sue sofferenze ma anche nella sua gloria. Altro che un generico essere superiore che ha creato il mondo! Altro che una forza interiore che ci fa stare bene! Il nostro Dio è comunione nella relazione di amore al suo interno tra le persone divine della Trinità, comunione che partecipa anche a noi e che ci permette di condividere. Ecco che cos’è anzitutto la fede, che cosa significa in primo luogo credere: professare che Dio è amore nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito, e accogliere questo dono per noi, che così possiamo entrare in questa comunione trinitaria.

Come in ogni relazione interpersonale, anche nella comunione tra Dio e l’uomo occorre salvaguardare le esigenze che rendono questa relazione salda e autentica. Le condizioni dell’amicizia umana – sincerità, fedeltà, dono di sé – sono da coltivare anche nell’amicizia con Dio. Le letture bibliche e i testi eucologici di questa domenica richiamano alcune di queste condizioni imprescindibili, se desideriamo che la nostra storia con Dio abbia un seguito.

La prima esigenza è senz’altro quella di ascoltare e obbedire, perché è Dio che compie il primo passo, che chiama all’amicizia; a questo invito l’uomo risponde accogliendo la chiamata e osservando la parola di Dio. Da questo atteggiamento deriva la seconda esigenza, che consiste nel professare la fede e nell’adorare, perché la comunione comporta la testimonianza della propria fede, anche in pubblico. La terza esigenza consiste nella vita del cristiano che crede e sta nella comunione con Dio, che consiste nel lasciarsi guidare dallo Spirito e nell’imitazione di Cristo.

La solennità della Santissima Trinità ci invita a superare, laddove esista, la superficialità di una fede generica in un essere superiore, per condividere e vivere in pienezza la comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

sabato 2 giugno 2012

398 - SIA BENEDETTO DIO: PADRE, FIGLIO E SPIRITO SANTO - 03 GIUGNO 2012 – Santissima Trinità

(Deuteronomio 4,32-34.39-40  Romani 8,14-17  Matteo 28,16-20)
Dalla fede nel mistero trinitario impariamo a costruire la nostra vita come comunione. Il mistero ci parla di unità nella pluralità: ad immagine di Dio possiamo aprirci agli altri, conservando al tempo stesso la nostra identità.
Nella professione di fede cristiana riconosciamo che tutto ci viene dal Padre, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. E anche la nostra lode orienta tutto al Padre, per Cristo, nello Spirito. In questo modo professiamo la nostra fede nell’unico Dio, conosciuto e vissuto come comunità d’amore. Attraverso la vita, la parola e l’opera di Gesù noi accogliamo la presenza di Dio che si fa vicino all’umanità quale comunità di amore: egli si fa conoscere a noi come Sapienza creatrice, come Parola rivelatrice, come Amore vitale.
Nel Vangelo di Matteo di oggi, Gesù si congeda dai suoi discepoli rassicurandoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», allo stesso tempo li invia nel mondo a «fare discepoli tutti i popoli», battezzandoli «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». In tal modo la comunione d’amore, che costituisce l’essenza di Dio, viene comunicata anche all’umanità: anche noi siamo chiamati a viverla come segno di umanità ricreata dallo Spirito di Dio.
È nella forza dello Spirito Santo che possiamo rivolgerci a Dio chiamandolo «Abbà! Padre!». Ed è ancora nella sua forza che possiamo riconoscerci figli di Dio e coeredi di Cristo.
PREGHIERA - La missione che affidi loro non sarà facile, senza ostacoli. Conosceranno subito il sospetto e la delazione, saranno oggetto di critiche, di soprusi e di angherie, verranno perseguitati e messi a morte. Ma nel contempo sperimenteranno la forza della tua presenza perché tu non li abbandoni, Gesù, al potere del male, né alla loro debolezza.
Tu chiedi loro, dunque, di andare, di annunciare il tuo Vangelo senza mai scoraggiarsi, pronti a battezzare coloro che sono disposti a diventare tuoi discepoli,
a dare un senso nuovo alla loro esistenza, mettendosi sulle tue orme.
Liberati dal male, conosceranno una libertà autentica ed entreranno in una comunione
di amore e di pace, parteciperanno alla stessa vita che unisce te al Padre e allo Spirito Santo.
È questa relazione che abita ogni loro giorno, ogni pensiero e ogni azione, ogni scelta e ogni fatica: un oceano di grazia in cui è dolce immergersi.
GLORIA AL PADRE,
GLORIA AL FIGLIO,
GLORIA ALLO SPIRITO SANTO …
come era nel principio, ora e sempre,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.