sabato 27 ottobre 2012

443 - “CHE IO ABBIA LA VISTA!” - 28 OTTOBRE 2012 – XXXª Domenica Tempo ordinario

(Genesi 31,7-9 Ebrei 5,1-6 Marco 10,46-52)

Quella di Bartimeo, il cieco di Gerico, di avere la vista, non è una richiesta qualsiasi, una domanda a mezza voce: Bartimeo grida. C’è chi vorrebbe farlo tacere perché forse ritiene un po’ eccessive le sue parole: chiama Gesù ‘Messia’ e chiede il miracolo…
Ma quest’uomo, che siede lungo la strada a mendicare, non si dà per vinto, anzi continua a gridare ancora più forte. Non è un grido qualsiasi. Contiene in sé l’espressione di una speranza forte, tenace, riposta in Colui che viene riconosciuto come il «Figlio di Davide», il Messia atteso. Grida perché ha sentito che passava Gesù: è questa presenza che motiva il suo grido. E si capisce bene perché egli lanci verso di lui la sua invocazione, colma di speranza, di attesa, di desiderio. Non è un grido unico, dettato da una breve emozione, ma un grido continuo, che non accetta di essere tacitato, fermato, ma che si fa sempre più forte, perché sempre più intenso è il desiderio che lo muove.
Gesù lo fa chiamare e lui non se lo fa ripetere due volte: non c’è impaccio che possa trattenerlo, quest’uomo che non ci vede balza letteralmente in piedi e si fa condurre da Gesù. L’incontro, però, non manca di stupire. Sì, perché Gesù gli chiede una cosa che sembra ovvia: «Che cosa vuoi che ti faccia?». E che cosa potrebbe desiderare un cieco che brancola nel buio di una notte che non finisce mai? «Che io riabbia la vista». È solo allora che Gesù fa il miracolo. L’incontro, tuttavia, non ha dato solo la vista ad un cieco, ma ha cambiato la vita ad uno che è diventato discepolo: «prese a seguirlo per la strada».
Un grido, un grido che si fa sempre più forte; un balzo verso Gesù quando lui chiama; una richiesta, un gesto di amore che è gesto di guarigione: ecco la storia di un cieco a cui viene donata la vista, ma non solo quella degli occhi.
Viene da domandarsi: qual è la molla che mette in movimento tutta la scena? Cos’è che provoca quest’incontro che lascia un segno per sempre? La risposta ce la dà Gesù stesso: «La tua fede ti ha salvato!».
Oggi, come duemila anni fa, Gesù passa. Tutto può restare come prima. La folla che lo accompagna rimane la folla di sempre, curiosa e chiacchierona, facile ad entusiasmarsi e a dimenticare. E i ciechi possono restare lì, al loro posto, come se nulla fosse avvenuto. Ma chi grida, prima o poi Gesù lo incontra.

PREGHIERA - Ha gridato, Bartimeo, con tutta la sua voce. Ha continuato a farlo anche quando volevano ridurlo al silenzio. Ti ha gridato la sua fede, ha invocato la tua misericordia, ti ha chiesto di fermarti, di strapparlo alla sua condizione di cieco, di mendicante. Perché, Gesù, non ho anch’io il coraggio di gridarti il mio desiderio di essere guarito, sanato, di poter finalmente vedere la luce?
Donami, dunque, lo stesso coraggio di Bartimeo, donami la sua ostinazione nel chiederti di intervenire, ma anche la determinazione con cui abbandona ogni cosa per balzare e venire da te. Donami la sua fiducia, che non si arrende al primo ostacolo, donami la sua franchezza nel domandarti di essere tolto al dominio delle tenebre e consegnato di nuovo alla luce.
E donami anche la gioia di poter seguirti, senza incertezze, sulla strada che porta a Gerusalemme.

sabato 13 ottobre 2012

442 - COSA DEVO FARE PER AVERE LA VITA ETERNA? -14 OTTOBRE 2012 – XXVIIIª Domenica Tempo ordinario

(Sapienza 7,7-11 Ebrei 4,12-13 Marco 10,17-30)

Un tale si presenta a Gesù per rivolgergli una domanda al tempo stesso semplice e intrigante. Un ‘tale’, senza ulteriori specificazioni, che rappresenta tutti: giovani (secondo la versione di Matteo) o maturi (secondo Marco), ricchi (secondo Matteo e Marco) o persone con una certa visibilità pubblica (un notabile, secondo Luca). Quel tale rappresenta un po’ ciascuno di noi, alla ricerca di un bene che possa stare al di sopra di tutto, di un bene che non viene consumato dal tempo, che duri appunto per l’eternità, un bene quindi diverso da tutti quelli che possediamo. La richiesta esprime dunque un desiderio limpido, che lascia trasparire un cuore puro e sincero. La domanda è semplice, ma al tempo stesso intrigante, perché la purezza del desiderio deve fare i conti con la capacità di scegliere con sapienza. Una sapienza che viene dall’alto, da invocare da Dio, da stimare più grande del potere, delle ricchezze terrene, della salute, della bellezza, della stessa luce. È quella capacità di discernimento che purtroppo manca a quel tale, troppo legato a criteri umani, troppo asservito alle proprie ricchezze. Questo deve far pensare ciascuno di noi: non sempre un proposito di bene, un sentimento autentico sfociano automaticamente in scelte giuste.

Nel cuore di quel ‘tale’ dell’episodio evangelico il desiderio grande di un bene che promana uno splendore che non tramonta è così radicato che neppure la fedele osservanza dei comandamenti gli dona pace. Intuisce che bisogna compiere un passo ulteriore. Qui Gesù gli porge allora la parola decisiva, che penetra come una spada a doppio taglio: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Come reagire a questa affermazione? Il tale si fece scuro in volto e divenne triste, non vuole rinunciare ai suoi molti beni.

Altre risposte però ha avuto l’invito di Gesù. Pensiamo alla vicenda di sant’Antonio abate. Un giorno, partecipando all’Eucaristia, ascolta questa pagina del vangelo, che diventa per lui la molla che fa scattare una scelta radicale: letteralmente vende tutto quanto possiede, lo dona ai poveri e si ritira nel deserto per una vita di solitudine e di preghiera. Pensiamo alla scelta di radicale povertà di san Francesco d’Assisi. È questa però la sola risposta possibile? Tutti noi quindi siamo con il volto scuro e triste? Nella storia della Chiesa abbiamo avuto anche risposte diverse: Piergiorgio Frassati, appartenente a una ricca famiglia della borghesia torinese, studente universitario, sceglie sì la via dell’attenzione ai poveri, ma non rinuncia a tutti i suoi averi nella modalità di Antonio o di Francesco. Non a tutti quindi è richiesta la stessa modalità di incarnare l’invito di Gesù. A tutti però è richiesto di abbandonare quella ricchezza che è di ostacolo al considerare la persona di Gesù come l’unico bene per la vita eterna.

L’ostacolo non è tanto la quantità delle ricchezze, ma uno stile di vita che va nella direzione del compiacersi dei propri beni, del sentirsi al sicuro in essi, nel sentirsi ‘qualcuno’ solo o nella misura in cui si possiede ‘qualcosa’. Ricco è colui che pensa di piegare tutti alla sua volontà, è chi si ritiene sempre al di sopra degli altri: questo è il vero grande ostacolo al vangelo, per cui diventa impossibile l’ingresso nel Regno come è impossibile a un cammello passare attraverso la cruna di un ago. Il ‘vendere’ quello che si ha si concretizza quindi nel sapersi fare da parte e mettere Dio al centro, si concretizza nel piegare le proprie ginocchia nella preghiera, nella capacità di perdono e di misericordia, nella sensibilità di ascolto delle necessità degli altri. Si concretizza anche nel riconoscersi a propria volta poveri, bisognosi di essere guidati dall’alto, bisognosi di una guida che ci conduca per mano sui sentieri della vita, liberandoci dal fardello delle nostre ricchezze e della nostra presunzione.

Commenta sant’Agostino: «Quel tale se ne andò triste e non lo seguì. Era andato a cercare il maestro buono. Lo aveva interrogato come dottore e non lo ascoltò come maestro. Si allontanò triste, legato ancora alle sue cupidigie, carico del pesante fardello della sua avarizia. Era affaticato, non ce la faceva più; ma anziché seguire colui che voleva liberarlo dal suo pesante fardello, preferì allontanarsi e abbandonarlo».

PREGHIERA - L’intenzione era buona: «ricevere in eredità la vita eterna», e il suo comportamento risultava del tutto ineccepibile. Ma tu gli hai chiesto, Gesù, qualcosa che ha bloccato sul nascere ogni entusiasmo, ogni velleità: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri. Poi vieni e seguimi!». Così la sua disponibilità si è mutata in tristezza, il suo volto aperto e limpido si è improvvisamente oscurato. La ragione ci viene subito svelata: possedeva molti beni.

Ecco perché le tue parole, Gesù, rivolte a tutti i discepoli, diventano franche e senza equivoci: la ricchezza costituisce un serio pericolo per chi vuole entrare nel Regno. Da strumento, infatti, finisce spesso col diventare un padrone. Assoggetta il cuore e lo rende incapace di vivere un’autentica libertà, costruisce una prigione dorata dalla quale non si riesce ad uscire se non a prezzo di gesti colmi di determinazione e soprattutto impedisce di vedere coloro che attendono una condivisione generosa.

lunedì 8 ottobre 2012

441 - LA FEDELTÀ CONIUGALE: UN OBBLIGO O UN VALORE?(seconda parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Settimo giorno

LA INDISSOLUBILITÀ È RIEMPITA DALLA FELICITÀ -

Quale indissolubilità dunque andiamo cercando? Quella riempita dalla fedeltà e non dalla “occupazione di territorio”, come si diceva. La fedeltà, lungi dall’essere un peso irrevocabile, è ciò che riempie il legame che non può essere sciolto: fedeltà che non è anzitutto esigere dall’altro, ma un offrire se stessi senza condizioni. E percepiamo immediatamente che qui c’entra Dio, poiché tale fedeltà è un munus, cioè un dono e un compito; come ogni dono che viene dall’alto non può essere meritato, bensì inteso come una chiamata. Dio infatti ha unito ciò che l’uomo non può dividere, non nel senso banale che Dio ha allegato due scegliendoli l’uno per l’altra come se fossero le sue marionette, ma nel senso infinitamente più profondo di congiungere autoritativamente ciò che la libertà dei due ha voluto: Dio si rivela qui garante dell’amore dei due, disposto – come ci insegna la Scrittura – a pagare per loro, a metterli con infinito rispetto sulla via della Sua fedeltà.

Abbiamo fatto un primo guadagno: la fedeltà che viene dall’alto è ciò che riempie la indissolubilità. E siamo davvero grati e stupefatti: i due che si sono liberamente scelti sono chiamati a incarnare almeno un briciolo di quella indefettibile fedeltà di Dio che li regge e regge il mondo.

L’INDISSOLUBILITÀ È ISCRITTA NEL CUORE DI CARNE -

La pagina di oggi si apre anche a un secondo guadagno: tale fedeltà è l’opposto della sklerokardía, della durezza di cuore: l’una non può stare dove abita l’altra. Detto in termini positivi: se il cuore non è ‘tenero’ (in termini biblici: cuore di carne) non può essere fedele. Anzitutto perché ad essere fedeli quando tutto va bene, sono capaci tutti, ma perché proprio la durezza di cuore rende impossibile la «carne sola» pensata all’origine. E durezza di cuore nel matrimonio è avanzare la domanda autoreferenziale in cui ci immerge la nostra cultura: «e io?», «e che cosa ci guadagno?», «se l’altro/a non mi riempie, se non mi realizza, non risponde ai miei bisogni, perché la sera deve mettere la chiave proprio nella serratura di casa nostra?». Posso scegliere un’altra serratura, ma posso anche entrare negando il saluto vero (quello formale non lo si nega a nessuno), posso fiondarmi al PC o riempire lo spazio dei suoni inutili della tv, posso autorizzarmi a sfogare le mie frustrazioni, i miei nervosismi su chi abita la casa. Eccola la sklērokardía, è quella che mina la fedeltà e quindi l’indissolubilità, sicché ciò che «divide ciò che Dio ha congiunto» può non essere tanto una legge esterna più o meno divorzista, ma lo stesso coniuge – lui o lei – che ha dimenticato il sapore inebriante della fedeltà.

L’INDISSOLUBILITÀ È SVELAMENTO DELLE QUALITÀ DELL’ALTRO -

Ed eccoci al terzo guadagno: la fedeltà di cui parliamo è il dedicare il cuore all’altro, ma non nel senso romantico che, in ultima analisi, è semplicistico, ma nel senso biblico, cuore come volontà di amare e intelligenza di riconoscimento dell’altro, che si esprime nel desiderare di svelare e realizzare tutte le potenzialità dell’altro/a. E tutto questo nella buona e nella cattiva sorte, come sappiamo: quando l’altro è funzionale al mio bisogno e quando non lo è. La fedeltà è una sorta di sentinella che aspetta la luce dell’alba, anche quando sa che è ancora notte.

440 - LA FEDELTÀ CONIUGALE: UN OBBLIGO O UN VALORE?(prima parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Sesto giorno

Stiamo per dire – forse in modo un po’ provocatorio – che di certe indissolubilità matrimoniali la comunità di fede potrebbe fare a meno, come ad esempio, i matrimoni che non si sciolgono, ma che sono di una pesantezza indicibile, non solo per i due coniugi, ma per i figli e talora per i figli dei figli. «Io e mia sorella, a partire dai miei 15 anni, non scendevamo più a tavola con i nostri genitori, mangiavamo fuori pasto, perché stare a tavola con loro era come assistere impotenti ad una guerra – calda o fredda poco importava – che ci feriva nel profondo, ci rendeva tossico il cibo. Sì, abbiamo detto in tutti i modi: “Perché almeno durante il pasto non restate in silenzio?”. Loro promettevano, ma poi bastava un cenno qualsiasi di uno che l’altro ribatteva, inesorabilmente: “Ecco, dici così perché…”. È così che noi abbiamo cercato di salvarci la pelle con lo “sciopero della tavola”, ma io, con il mio attuale compagno, sono diventata allergica ad ogni discussione, ad ogni potenziale contrasto e mi rendo conto che questo è troppo».

Certe indissolubilità piatte, certe “occupazioni del territorio” così che nessuno lascia nessuno (anni fa è uscito un libretto significativo da parte di terapeuti sistemici: «Né con te, né senza di te»1, per dire che talora la posta in gioco è farsi del male e non abbandonare il campo) non fanno bene né alla famiglia né alla comunità di fede.

DUE SCORCIATOIE - Sgombriamo subito il campo dalla tentazione di prendere allora due scorciatoie facili: la separazione facile del «non posso più vivere con te» (vale la pena affermare che la Chiesa ammette la separazione quando convivere è veramente impossibile, purché non si stabilisca una nuova relazione affettiva e sessuale) perché l’altro non è fatto come io desidero e intanto è spuntato/a all’orizzonte qualcuno/a di più soddisfacente. Tra l’altro, la nostra esperienza di lavoro con le coppie ci dice che spesso il secondo passo («ho trovato un altro/a») precede e anzi fonda il primo («tu non mi dici più niente, non ti amo più»). Qui siamo a livello di quel ‘ripudio’ incollato alla legge di Mosé, come dice il Vangelo di questa domenica, che – ai tempi di Gesù – privilegia il maschio: è lui che può trovare in lei motivi di insoddisfazione; e anche in questo tranello Gesù non cade: questo è adulterio, sia che provenga dall’iniziativa di lui che dall’iniziativa di lei. Gesù conosceva bene la parità dei sessi, nel bene e nel male!

La seconda scorciatoia sarebbe la convivenza, del tipo: «Facciamo così, mettiamoci insieme, e quando qualcosa non va, ci lasciamo, onestamente, altro che la maglia forzata dell’indissolubilità!». A parte che non avviene magicamente mai che quando un convivente «non ce la fa più» anche l’altro sia dello stesso parere: abbiamo visto conviventi abbandonati piangere disperati come il più legato dei mariti o la più legata delle mogli! È ora che diciamo forte alle nuove generazioni che una convivenza non è un matrimonio, cioè un vero «vivere in due in una carne sola», poiché la convivenza a tempo per sua natura non istituisce un legame definitivo, bensì un legame condizionato al «finché mi vai bene», dunque la convivenza non può in alcun modo essere un matrimonio o una ‘prova’ di esso.

439 - L’UOMO NON DIVIDA QUELLO CHE DIO HA CONGIUNTO

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Quinto giorno

Alla domanda provocatoria rivoltagli da alcuni farisei «per metterlo alla prova», Gesù risponde prendendo posizione su di un tema scottante e delicato: quello del divorzio, meglio sarebbe dire del ripudio della propria moglie. La risposta di Gesù è un invito a riandare al disegno originario di Dio, così come si è espresso «dall’inizio della creazione …». Ai farisei che richiamavano la legge stabilita da Mosè, egli contrappone la legge di Dio scritta nella creazione stessa. I farisei tendevano a giustificare la superiorità dell’uomo sulla donna, che poteva essere ripudiata, cacciata via dal marito, anche per motivi futili secondo alcuni rabbini. Gesù risale all’origine, che non è solo l’origine della creazione, ma anche il momento in cui un uomo e una donna decidono di costruire insieme una storia. L’amore (o il destino – a volte viene definito così – che ha fatto incontrare e scattare l’innamoramento), deve diventare l’amore che i due scelgono e fanno crescere, facendolo diventare storia concreta. In questo modo l’amore diventerà di volta in volta anche pazienza, ascolto, perdono, sacrificio, attenzione, sopportazione, riconciliazione. Diventerà in altre parole un amore fedele: la fedeltà è infatti costitutiva del matrimonio cristiano. La promessa scambiata il giorno del matrimonio non deve venir meno, perché l’uomo non può separare ciò che Dio ha congiunto. Da qui la necessità di non giungere impreparati a questo passo, di non considerarlo con leggerezza come una realtà provvisoria e soggetta agli umori e alle circostanze del momento.

Le affermazioni di principio però sempre più frequentemente si devono confrontare con situazioni in cui l’ideale evangelico sembra irraggiungibile, in cui la rottura del vincolo diviene a volte inevitabile, o comunque subita. Queste situazioni richiedono da parte di tutta la comunità cristiana molta attenzione e comprensione, soprattutto verso la parte più debole, che soffre maggiormente o che comunque non ha altra scelta che subire la scelta di altri. Sono situazioni che però interrogano anche il modo con il quale educhiamo fin da piccoli i nostri figli su questi temi. Proviamo a chiederci: Come educhiamo all’amore? Quale visione della sessualità trasmettiamo? Al matrimonio infatti ci si prepara non solo nei mesi immediatamente precedenti con il ‘corso’. Se il matrimonio, al pari della vita consacrata, è vocazione, ci si prepara iniziando da quando si nasce!

È interessante il seguente passo tratto dal Direttorio di pastorale familiare della CEI: «[Il matrimonio] ci appare, perché realmente lo è, come ‘grazia’ e ‘vocazione’, che specificano e sviluppano il dono e il compito ricevuti nel Battesimo. Infatti, all’origine di ogni matrimonio, prima ancora della pur necessaria volontà di amore dei due coniugi, sta un atto di predestinazione ad essere conformi all’immagine di Gesù Cristo e a realizzare questa conformità secondo il dono e il carisma della coppia. L’amore coniugale tra un uomo e una donna può sgorgare e può consolidarsi perché trova nell’amore di Gesù in croce la sua sorgente ultima, la sua forza plasmatrice, il suo costante alimento; e così ogni matrimonio può e deve dirsi una eco del sì di Cristo in croce. È grazie al dono dello Spirito che, giorno dopo giorno, Gesù Cristo viene plasmato nel cuore e nella vita degli sposi, i quali diventano sacramento reale del suo amore totale, unico, fedele e fecondo» (n. 12).

438 - NON È BENE CHE L’UOMO SIA SOLO

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Quarto giorno

Il racconto poetico della Genesi, vuole dare ragione del disegno originario di Dio sul rapporto tra l’uomo e la donna. Con un linguaggio simbolico immediato, l’autore sacro ci narra la creazione dell’uomo e della donna dal quale emergono interessanti tratti per comprendere il disegno di Dio. Alla creazione dell’uomo segue una constatazione: «Non è bene che l’uomo sia solo»: l’uomo ha da poco ricevuto il soffio vitale, ma per vivere ha bisogno di entrare in relazione con un aiuto che gli sia simile. Simile e al tempo stesso complementare: la donna è ‘aiuto’ all’uomo non nel senso che ne è serva o schiava, come in molte epoche storiche e ancora oggi in alcune culture si verifica, è di aiuto perché è complementare all’uomo, arriva dove l’uomo da solo non può arrivare.

L’uomo per vivere ha bisogno di questa complementarità: questa relazione è infatti il cuore della vita e della sua trasmissione. L’immagine della costola dell’uomo dalla quale viene plasmata la donna vuole proprio sottolineare questa realtà: la donna con l’uomo condivide in tutto la stessa natura di essere umano creato da Dio e partecipe del suo stesso soffio vitale. Proprio per questo l’uomo e la donna sono destinati ad attrarsi a vicenda: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne». Per questo l’uomo lascerà la sua famiglia di origine e si unirà alla donna come un’unica carne. In poche essenziali parole è stato così tratteggiato il disegno di Dio iscritto nel cuore della creazione. Il disegno del rapporto tra uomo e donna, segnato dall’amore che reciprocamente attrae i due. Non si tratta quindi solo di un istinto o di una passione che può esserci o meno o che può essere indirizzata verso altro, l’amore tra l’uomo e la donna affonda le sue radici nella natura stessa dell’essere umano e in ultima istanza nel progetto di Dio creatore.

437 - “È LECITO RIPUDIARE LA PROPRIA MOGLIE?”(seconda parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Terzo giorno

Il modo in cui Gesù interpreta le parole di Mosè e della Genesi ripropone il grande interrogativo sotteso a tutto il vangelo di Marco: Chi è costui? Chi è costui che reinterpreta la Legge sul tema del matrimonio? Chi è costui che riafferma il progetto originario di Dio a una umanità dal cuore indurito?

L’insegnamento di Gesù restituisce alla donna tutta la sua dignità, ponendo la sua persona alla pari di quella dell’uomo. L’esigenza di indissolubilità che viene sottolineata, può essere compresa solo nella fede e alla luce del mistero di Cristo. La realtà del matrimonio cristiano può essere vissuta solo nel dono totale ed esclusivo dell’uno all’altra, con la vittoria della carità sugli egoismi, a imitazione del dono di sé che Cristo ha fatto alla Chiesa e all’umanità (cfr. Ef 5,25-33).

È questo il senso della collocazione dell’insegnamento sul matrimonio all’interno del cammino di Gesù verso Gerusalemme. Si tratta di un cammino pieno di incomprensioni (non solo con i capi del popolo, ma anche con i discepoli), e tuttavia Gesù continua a stare con i suoi e non smette di amare, fino al dono di sé. Il camminare dietro alla croce accettando anche la dimensione «crocifiggente» dell’amore, libera l’uomo da se stesso e lo rende capace di fedeltà disinteressata. L’uomo e la donna sono chiamati a entrare nella loro alleanza reciproca con piena responsabilità e giocandosi in essa in maniera definitiva; e perché sia definitiva occorre la totalità dell’impegno, fin dall’inizio. I fallimenti dell’amore non trovano il loro rimedio nel divorzio, ma in una adesione ancora più piena al cammino di sequela di Cristo.

La durezza di questo insegnamento si rende evidente nel fatto che i discepoli, quando sono in casa, tornano a interrogare il Maestro (v. 10). La sua risposta conferma l’insegnamento precedente (v. 11) aggiungendo però un approfondimento – probabilmente frutto dell’adattamento della comunità cristiana all’ambiente greco-romano: non solo l’uomo, ma anche la donna potrebbe prendere l’iniziativa del divorzio (v. 12). Questa perfetta reciprocità non fa che sottolineare la responsabilità reciproca cui sono chiamati i coniugi cristiani (vv. 11-12).

Il brano del vangelo si chiude con l’episodio di Gesù che benedice i bambini (vv. 13-16). L’evangelista coglie ancora una volta l’occasione per sottolineare la sensibilità umana di Gesù, che prende affettuosamente in braccio i bambini. Sempre mediante questo episodio viene ripreso, sotto altro aspetto, il tema della rinuncia di sé come condizione per accogliere il regno e per appartenervi. L’immagine del bambino simboleggia l’atteggiamento che deve avere il vero discepolo. Non si tratta di ripiegarsi nell’infantilismo, ma di riconoscere la propria povertà e debolezza davanti a Dio. Questo atteggiamento libera l’uomo dalla pretesa e dalla presunzione di acquistare il regno (= la salvezza) con le sole proprie forze, e lo dispone a far propria la semplicità di un bambino che non ha niente da dare in cambio.

436 - “È LECITO RIPUDIARE LA PROPRIA MOGLIE?”(prima parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Secondo giorno

Dal Vangelo di Marco ( 10,2-16) “In quel tempo, 2alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. 3Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». 5Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; 7per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. 8Così non sono più due, ma una sola carne. 9Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 10A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: 11«Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; 12e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

13Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. 14Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. 15In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». 16E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Gesù sta camminando verso Gerusalemme e rivelando ai discepoli la natura del suo messianismo sofferente. In questo contesto viene a situarsi anche l’insegnamento sull’indissolubilità del matrimonio.

La domanda che i farisei rivolgono a Gesù riguarda la liceità o meno del ripudio della moglie: «È lecito a un marito ripudiare la propria moglie» (v. 2). Mosè, infatti, aveva permesso il divorzio se l’uomo avesse trovato nella donna «qualcosa di sconveniente» (Dt 24,1). Al tempo di Gesù si discuteva animatamente su questo «qualcosa di sconveniente»: c’era chi diceva che poteva essere sufficiente qualsiasi cosa, anche un pranzo mal preparato (rabbî Hillel), e chi sosteneva che ci voleva un motivo più serio, per esempio una grave infedeltà morale (rabbî Shammai). Gesù non si lascia coinvolgere nella discussione schierandosi per una scuola o per l’altra, sposta invece completamente i termini della discussione. Egli contrappone un’altra domanda: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?» (v. 3). In questo modo rimanda i suoi avversari alla Legge e li obbliga ad ammettere che la legge mosaica non aveva affatto inteso legalizzare il divorzio (v. 4: «Mosè ha permesso...»). Gesù conosceva la Legge di Mosè, come la conoscevano i suoi interlocutori, e certamente la Legge di Mosè era l’appiglio decisivo a cui si sarebbero richiamati i suoi avversari in caso di una risposta negativa circa la liceità del ripudio. Era necessario che i farisei capissero subito che Gesù non era contro Mosè, per poi comprendere come il Maestro volesse condurli oltre Mosè. Gesù afferma che la facoltà di ripudiare la moglie era stata concessa agli israeliti per la loro «durezza di cuore» (v. 5). Dunque, non rispondeva al piano originario di Dio, non era un comando di Dio, ma una facoltà concessa agli israeliti per la loro incapacità di comprendere fino in fondo il suo disegno e di accettarne le conseguenze. A questo punto, Gesù approfitta dell’opportunità che gli è offerta per riaffermare in modo chiaro il progetto di Dio sul matrimonio rifacendosi a un testo più fondamentale, quello della creazione.

Tutto il racconto della creazione parla di uguaglianza tra uomo e donna – in fondo la «concessione» di Mosè era anche una concessione al predominio maschile, dato che alla donna non era permesso prendere alcuna iniziativa –, e mostra che al centro del progetto di Dio sta l’unità dell’uomo e della donna in un’unica carne: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (v. 9). In rapporto alla volontà originaria di Dio, il permesso di Mosè perde ogni carattere di validità definitiva; mentre ciò che Dio stesso ha stabilito nell’atto della creazione, fondendo in unità l’uomo e la donna, ha una forza così grande che nessun uomo può abolire.

435 - I DUE SARANNO UN’UNICA CARNE

Una settimana di riflessione sul Matrimonio


Primo giorno
Dal libro della Genesi (2,18-24) “18Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».19Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». 24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.”

La pagina della Genesi è tratta dal racconto più antico della creazione (Jahwista). Il racconto non ha l’obiettivo di dire come sono andate le cose, ma di dire il senso delle cose attraverso espressioni proprie della cultura del tempo.

L’uomo, nella sua componente maschile, è messo in scena nella terra dove gli viene affidato ogni bene, ma viene evidenziata la sua solitudine: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (v. 18). La ricerca parte da lontano, passa in rassegna tutti gli esseri animati, ma la constatazione finale è che tra tutti gli animali «l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (v. 20), cioè non fu trovato un essere con cui poter comunicare in profondità. «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (vv. 21-22). Il torpore e il sonno dell’uomo dicono che la donna non è un suo progetto, ma è opera di Dio.

Questa pagina è uno dei testi biblici a cui ci si rifaceva per sostenere e dimostrare il rapporto di dipendenza della donna dall’uomo. In questa interpretazione giocavano fattori storici, culturali e ambientali, e una visione parziale e unilaterale che, in tutto il contesto di Genesi 1–3, coglieva la donna prevalentemente in un ruolo negativo, come seduttrice e causa del peccato. Gli studi esegetici recenti hanno contribuito a mettere in luce una immagine della donna molto diversa, investita di un ruolo

positivo nei confronti dell’uomo e nella storia della salvezza. In questo senso è da sottolineare prima di tutto l’atteggiamento di Dio che, nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1,10.12.18.21.25.31), si era sempre compiaciuto delle sue opere trovandole «buone»; qui invece, quando si ferma a considerare l’uomo, fa una riflessione negativa: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (v. 18).

L’espressione ebraica, usata per indicare nella donna l’aiuto adatto all’uomo [ebraico: neghed], lascia intendere che non si tratta di un aiuto qualsiasi, ma di un essere che può stare di fronte all’uomo faccia a faccia, alla pari; un partner nel quale l’uomo può riconoscere se stesso e con cui può stabilire una comunione di vita e di sentimenti (vv. 18.20). La donna è creata per-essere-con l’uomo; in altri termini, nel pensiero creatore di Dio la realtà umana non è rappresentata da un solo sesso, essa è maschile-femminile in un rapporto di complementarità e reciprocità.

Nella stessa linea va interpretata la descrizione plastica con cui lo scrittore sacro presenta la creazione della donna (v. 22). Il racconto della nascita di Eva dalla costola di Adamo è metaforico, e probabilmente la stessa parola «costola» ha un significato simbolico misterioso. Tuttavia, ciò che viene indubbiamente dichiarato dal racconto biblico è la parità di natura e di dignità tra uomo e donna; la donna non è un essere inferiore, è posta sullo stesso piano dell’uomo. Il fatto che la costola sia vicina al cuore aiuta a trarre una conclusione profonda e consolante sul rapporto tra uomo e donna, e a questa idea allude anche un passo del Talmud: «Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché lo comandasse, né dai suoi piedi, perché ne fosse la schiava, ma dal suo fianco, perché rimanesse vicina al suo cuore », cioè: il rapporto tra uomo e donna non è di subordinazione, si tratta invece di un rapporto di amore e di collaborazione reciproca che deve durare per la vita.

Il grido di gioia e di ammirazione che esce dalla bocca dell’uomo quando si trova di fronte alla sua compagna (v. 23), indica che egli riconosce nella donna il suo completamento. In presenza della donna, l’uomo scopre se stesso come «esserein- relazione», e lo scrittore sacro per indicare questo profondo rapporto di intimità e reciprocità fa derivare il nome della donna (isshah) da quello dell’uomo (ish).

Lo stato di asservimento della donna al dominio dell’uomo compare solo dopo il peccato; la punizione divina colpisce la donna nella sua stessa ragion d’essere: fare da compagna all’uomo (cfr. Gen 3,16). La redenzione operata da Cristo agirà anche all’interno delle relazioni tra uomo e donna, e porrà le condizioni per un ritorno a quello stato di armonia e di equilibrio che corrisponde al pensiero creatore di Dio.

sabato 6 ottobre 2012

434 - IL MISTERO DELL’AMORE - 07 OTTOBRE 2012 – XXVIIª Domenica Tempo ordinario

(Genesi 2,18-24 Ebrei 2,9-11 Marco 10,2-16)

 
La liturgia della Parola invita a riflettere sul mistero dell’amore e della comunione che Dio ci comunica come fondamento della nostra vita. Questo mistero ha origine in Dio stesso e costituisce l’ideale a cui orientare le nostre esistenze, pur in mezzo a difficoltà e a contraddizioni. Situazione umana tipica di questa comunione personale è il legame tra uomo e donna nel matrimonio, che Dio ha voluto come segno dell’amore stesso del Creatore.
Per questo, nel Vangelo, è oggi proposto l’ideale delle origini: l’uomo non separi ciò che Dio ha unito. Il richiamo al bambino, quale simbolo di disponibilità e di capacità di fiducia, nella parte finale del testo evangelico delinea il presupposto per comprendere e vivere questo mistero di unità.
I due (l’uomo e la donna) saranno una sola carne è il messaggio della lettura del libro della Genesi: il termine biblico ‘carne’ rimanda alla totalità dell’essere umano, visto però nella sua finitezza e nel suo limite. La condivisione di un’esistenza, nelle condizioni storiche concrete e limitate, è il segno di un amore che crea vita e che continua nel mondo l’azione creativa di Dio.
La lettura della lettera agli Ebrei vede in Cristo, primogenito di molti fratelli, il punto a cui converge tutta l’umanità. In questo modo anche questa lettura ripropone il tema di una stessa origine e l’invito all’unità.

Il matrimonio cristiano ha alla sua radice un’esperienza globale. Parte certamente dalla sessualità fisicità, vista come un dono divino e cantata già nelle stesse pagine della creazione. Ma la persona umana, diversamente dagli animali, è capace di trasfigurare il sesso nell’eros, che è scoperta della bellezza e del fascino. C’è però un’altra tappa decisiva e prettamente “spirituale”, quella dell’amore che è totalità di donazione: “Il mio amato è mio ed io sono sua!”, esclama la sposa del Cantico dei Cantici. Sesso, eros e amore dissociati offendono la persona, sesso, eros e amore uniti costituiscono l’armonia della creatura umana secondo il progetto divino.

PREGHIERA - Ti prendono per un consulente legale e vorrebbero forzarti, Gesù, ad entrare in una disputa giuridica sulla quale erano già scorsi fiumi di sentenze di maestri illustri. Tu invece fai appello al progetto di Dio, quale appare limpidamente attraverso la sua parola. È Dio stesso, infatti, che si impegna a congiungere un uomo e una donna, a farli diventare una carne sola. È Dio stesso che li rende un segno evidente e tangibile del suo amore indissolubile, fedele e fecondo.

Possiamo allora attentare con leggerezza e per capriccio all’opera stessa di Dio? Possiamo prendere a pretesto la nostra fragilità e debolezza, i nostri limiti, il nostro peccato, per chiedergli di cambiare il disegno apportatore di una gioia autentica, di una comunione solida, di una pienezza consolante?

Tu non minacci né giudichi, Gesù, ma vuoi spalancare davanti agli sposi che credono in te una possibilità inedita, quella di vivere, per tua grazia, un amore che resiste al tempo.

venerdì 5 ottobre 2012

433 - LA FEDE E LO SCANDALO

Per una pausa spirituale durante la XXVIª Settimana del Tempo ordinario

Scandalo è un sasso piantato in mezzo al sentiero; mentre te ne vai tranquillo per la strada e ti metti a correre, ci inciampi e il sasso ti fa perdere l’equilibrio, cadi rovinosamente a terra; lo scandalo ti ha colpito. L’immagine è chiarissima; ora l’applicazione. «Dimentico del passato – scriveva san Paolo ai Filippesi – e proteso verso il futuro, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù» (Fil 3,13-14). Dunque, la vita di fede è una corsa diretta verso il futuro, verso Cristo; ma una corsa che si sviluppa qui, nel mondo. E il mondo non è un sentiero liscio, diritto; ci sono ostacoli, deviazioni, erte, forre, buche, luoghi scivolosi… ci sono scandali che possono interrompere la corsa; possono addirittura spingere ad abbandonarla, a far pensare che non vale la pena; che quel sentiero non può condurre al traguardo; che è meglio cercare strade più comode e meno pericolose.

Non c’è bisogno di spendere molte parole per dimostrare che è così. Lo scandalo della pedofilia brucia dentro di noi e brucerà per chissà quanto tempo: una pioggia di residui velenosi ha ricoperto la Chiesa, l’insieme dei preti, il Vangelo stesso che annunciamo. Ultimo di una serie di ‘scandali’ ai quali la pubblicistica fa riferimento volentieri e che sono entrati nell’immaginario dell’uomo d’oggi come impedimenti a credere che nella Chiesa ci sia l’impronta di Dio, uno Spirito divino: l’Inquisizione e Galileo, l’Indice e le scomuniche, le crociate e le guerre di religione, le incoerenze dei ministri della Chiesa e le meschinità dei credenti bigotti… Sono tanti gli inciampi che stanno sul cammino del credente e che rendono faticoso il cammino. Che fare?

Il Vangelo chiede due cose: non scandalizzare, non lasciarci scandalizzare. Anzitutto non diventare per gli altri motivo di inciampo; e cioè, non falsificare con la vita quello che annunciamo con le parole; «dicono e non fanno» è il rimprovero che Gesù ha diretto agli scribi, ma che naturalmente colpisce proprio noi. Se annunciamo un vangelo di salvezza, la nostra vita deve essere e apparire una vita ‘salvata’; se invece continua a essere connivente col male, se è quindi lontana dalla salvezza, le nostre parole non sono credibili. Scoppiano a volte scandali gravi, che gelano il cuore – appunto come nel caso della pedofilia; ma ci sono scandali striscianti, che non finiscono sui giornali, ma che avvelenano il tessuto delle comunità cristiane. Qui possiamo solo confessare con vergogna il peccato e affidarci alla misericordia di Dio: «Abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, abbiamo mancato in ogni modo». Naturalmente, la confessione è sanante solo se la vergogna è autentica; solo se suscita lacrime amare e desideri autentici di conversione dentro al cuore.

Ma il Vangelo chiede anche un’altra cosa: non lasciarsi scandalizzare. Usa, anzi, delle immagini fortissime: «se la tua mano ti è occasione di scandalo, tàgliala, se il tuo piede… tàglialo… se il tuo occhio… càvalo!». È come dire: sii disposto a rinunciare a tutto, anche a ciò che più ti preme, per difendere la tua fede, per portare a compimento il tuo percorso di vita. Ma perché parla così? Non sono certo la mano o il piede o l’occhio che possono diventare inciampo alla fede; che senso può avere sacrificare una parte di se stessi?

Una prima risposta si trova nell’esortazione che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce…». Accade, nella vita cristiana, che la sequela di Gesù esiga rinunce anche gravi; in questo caso bisogna essere decisi nella scelta, senza esitare: «Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore» (Eb 13,13). Proprio così: Gesù è morto come un malfattore; dobbiamo essere disposti ad apparire come malfattori – se, naturalmente, questo giudizio su di noi è errato: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca [cioè non si lasci impaurire dal giudizio degli altri, non si lasci scandalizzare così da abbandonare la sua fede]; per questo nome, anzi, dia gloria a Dio» (1 Pt 4,15-16)

La seconda risposta è più sottile: lo scandalo che l’incoerenza degli altri ci procura può diventare anche una scusa, una giustificazione per abbandonare la fede quando il prezzo della fede è troppo alto. Per evitare questo scandalo, l’unico rimedio è imparare a valutare la fede tanto che nessun guadagno riesca a uguagliarla, che nessuna perdita la faccia apparire troppo costosa.