lunedì 8 ottobre 2012

440 - LA FEDELTÀ CONIUGALE: UN OBBLIGO O UN VALORE?(prima parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Sesto giorno

Stiamo per dire – forse in modo un po’ provocatorio – che di certe indissolubilità matrimoniali la comunità di fede potrebbe fare a meno, come ad esempio, i matrimoni che non si sciolgono, ma che sono di una pesantezza indicibile, non solo per i due coniugi, ma per i figli e talora per i figli dei figli. «Io e mia sorella, a partire dai miei 15 anni, non scendevamo più a tavola con i nostri genitori, mangiavamo fuori pasto, perché stare a tavola con loro era come assistere impotenti ad una guerra – calda o fredda poco importava – che ci feriva nel profondo, ci rendeva tossico il cibo. Sì, abbiamo detto in tutti i modi: “Perché almeno durante il pasto non restate in silenzio?”. Loro promettevano, ma poi bastava un cenno qualsiasi di uno che l’altro ribatteva, inesorabilmente: “Ecco, dici così perché…”. È così che noi abbiamo cercato di salvarci la pelle con lo “sciopero della tavola”, ma io, con il mio attuale compagno, sono diventata allergica ad ogni discussione, ad ogni potenziale contrasto e mi rendo conto che questo è troppo».

Certe indissolubilità piatte, certe “occupazioni del territorio” così che nessuno lascia nessuno (anni fa è uscito un libretto significativo da parte di terapeuti sistemici: «Né con te, né senza di te»1, per dire che talora la posta in gioco è farsi del male e non abbandonare il campo) non fanno bene né alla famiglia né alla comunità di fede.

DUE SCORCIATOIE - Sgombriamo subito il campo dalla tentazione di prendere allora due scorciatoie facili: la separazione facile del «non posso più vivere con te» (vale la pena affermare che la Chiesa ammette la separazione quando convivere è veramente impossibile, purché non si stabilisca una nuova relazione affettiva e sessuale) perché l’altro non è fatto come io desidero e intanto è spuntato/a all’orizzonte qualcuno/a di più soddisfacente. Tra l’altro, la nostra esperienza di lavoro con le coppie ci dice che spesso il secondo passo («ho trovato un altro/a») precede e anzi fonda il primo («tu non mi dici più niente, non ti amo più»). Qui siamo a livello di quel ‘ripudio’ incollato alla legge di Mosé, come dice il Vangelo di questa domenica, che – ai tempi di Gesù – privilegia il maschio: è lui che può trovare in lei motivi di insoddisfazione; e anche in questo tranello Gesù non cade: questo è adulterio, sia che provenga dall’iniziativa di lui che dall’iniziativa di lei. Gesù conosceva bene la parità dei sessi, nel bene e nel male!

La seconda scorciatoia sarebbe la convivenza, del tipo: «Facciamo così, mettiamoci insieme, e quando qualcosa non va, ci lasciamo, onestamente, altro che la maglia forzata dell’indissolubilità!». A parte che non avviene magicamente mai che quando un convivente «non ce la fa più» anche l’altro sia dello stesso parere: abbiamo visto conviventi abbandonati piangere disperati come il più legato dei mariti o la più legata delle mogli! È ora che diciamo forte alle nuove generazioni che una convivenza non è un matrimonio, cioè un vero «vivere in due in una carne sola», poiché la convivenza a tempo per sua natura non istituisce un legame definitivo, bensì un legame condizionato al «finché mi vai bene», dunque la convivenza non può in alcun modo essere un matrimonio o una ‘prova’ di esso.

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