sabato 28 luglio 2012

414 - DIO SFAMA IN ABBONDANZA IL SUO POPOLO - 29 Luglio 2012 – XVIIª Domenica ordinaria

(2ºRe 4,42-44  Efesini 4,1-6  Giovanni 6,1-15)

Giovanni difficilmente usa il termine miracolo per descrivere i prodigi compiuti dal Signore. Preferisce parlare di segni, perché questi gesti hanno un valore simbolico, vogliono rimandare oltre, e spiegare qualcosa della persona di Cristo, del suo ‘mistero’, cioè del disegno di Dio che si rivela in Gesù. Il segno del pane moltiplicato avviene nell’imminenza della Pasqua ebraica, la festa dell’agnello immolato, la festa memorabile dei prodigi dell’esodo, tra cui la manna. Quell’agnello, quel pane, erano soltanto una prefigurazione ed una profezia, un pallido presagio, di ciò che il Figlio di Dio avrebbe compiuto: il dono di Sé come nuovo Agnello, nuovo Pane, nuova Alleanza. Non si tratta di una semplice sostituzione di cose simili, ma di una cosa completamente nuova, di qualità nettamente superiore, perché legata alla persona stessa del Dio fatto uomo.

Che cosa rivela, e a che cosa educa la moltiplicazione dei pani e dei pesci? Rivela un Dio tanto innamorato dell’uomo da donare, anzi, da donarsi senza riserve, senza risparmio, senza misura. È un passo iniziale, perché tale rivelazione avrà il suo apice nell’ultima cena e sulla croce. Non è un caso che i gesti e le parole che Gesù usa per moltiplicare i pani ed i pesci siano quasi identici ai gesti ed alle parole dell’ultima cena e della celebrazione dell’Eucaristia. Sono questi i gradi diversi, i passaggi logici di un Mistero tanto grande da non poter essere rivelato in un colpo solo, ma gradualmente, perché la mente ed il cuore umani possano comprendere e gustare l’immensità dell’amore di Dio.

A che cosa educa la moltiplicazione dei pani? Il segno compiuto da Gesù ha voluto mettere alla prova innanzitutto i discepoli. Nonostante i segni già compiuti dal Signore, essi sono ancora molto pragmatici, dei perfetti calcolatori. L’uno, Filippo, ragiona su numeri maggiori, Andrea constata la pochezza dei mezzi, ma nessuno dei due prende in considerazione l’ipotesi che Gesù possa compiere meraviglie quanto Dio. Solo la semplicità e l’ingenuità di un bambino sa sognare che da quella miseria Dio possa trarre un’eccedenza addirittura capace di sfamare l’intero popolo di Israele, che è rappresentato dalle dodici ceste avanzate, una cesta per ogni tribù.

PREGHIERA - La tua domanda, Gesù, probabilmente coglie di sorpresa l’apostolo Filippo. Una somma consistente non sarebbe bastata a sfamare quella grande folla. Ma è proprio partendo da questa constatazione realistica che tu mostri come il problema possa essere risolto in un altro modo.

Cinque pani d’orzo e due pesci: ecco quello che ti viene posto tra le mani. Ed è per quel dono che tu rendi grazie e cominci a distribuire pane e pesci alla gente. La “ricetta” che tu ci suggerisci non ha niente a che fare col denaro perché in fondo non è quella la vera soluzione.

È il dono di un ragazzo che innesca la catena di una sorprendente solidarietà. Ed è la forza dell’amore, un amore straordinario che sprigiona da te, a compiere il segno prodigioso. Riusciremo mai, Gesù, a donarti i nostri cinque pani e i due pesci? Saremo capaci di condividerli perché avvenga il miracolo?

413 - COMUNICARE LA FEDE È UN ATTO D’AMORE

Per una pausa spirituale durante la XVIª Settimana del Tempo ordinario

COMUNICARE LA FEDE COME UNA CHIAMATA - Comunicare la fede nelle varie circostanze della vita, da parte di una persona credente, costituisce un vero atto d’amore che rinnova e rischiara la vita. Si tratta dell’apertura del cuore credente a un’altra persona o a un gruppo non credente, a chi è in ricerca di senso o ancora nell’indifferenza, si tratta di un’apertura del cuore che si fa testimonianza di fede chiara e invitante.

Da un lato ci sono le varie persone che si incontrano in modo occasionale o sistematico, persone con la loro ricerca di un senso valido per la loro vita, senso a volte aperto alla fede, altre volte assorbito da realtà immanenti o immediate.

Dall’altro lato ci sono persone testimonianti la fede. Possono essere genitori ed educatori, compagni occasionali di lavoro o di viaggio, persone che vivono assieme. Spesso si tratta di persone, laiche o consacrate, che hanno fatto della testimonianza di fede la ragione della loro vita. Nelle varie situazioni di vita, su richiesta o per loro scelta, costoro svolgono il compito di comunicare la fede che vivono.

Ne deriva un servizio alla fede, un’azione che convoglia le proprie energie vitali verso la testimonianza della fede. Si tratta di una comunicazione che si svolge in modi differenti. Può essere una presa di posizione esplicita, una proposta su libera iniziativa, una risposta a una richiesta. Può essere una vita vissuta, che attraverso le concrete scelte di vita, le varie opere, manifesta il proprio credo religioso.

La comunicazione della fede è un vero atto di amore perché, da un lato, mette a disposizione del destinatario aspetti preziosi e personali del proprio vivere, trasmette le ragioni che danno senso alla sua vita, dunque qualcosa di molto personale; dall’altro lato il destinatario riceve ciò di cui ha bisogno, ne sia o meno consapevole, un senso valido anche per la sua vita. Il servizio genuino alla fede è in tal modo un vero servizio di amore.

COMUNICARE LA FEDE COME PROBLEMA - Comunicare la fede come atto d’amore non è però cosa facile. Non è realtà che va da sé, quasi automatica. Ci possono essere interferenze di varia natura, consce e inconsce, che limitano e talora alterano pesantemente il risultato.

Interferenze interne alla stessa comunicazione della fede: si verifica quando si comunica la fede perseguendo di fatto, in modo manifesto o latente, obiettivi autocentrati, quali il riconoscimento da parte dell’ambiente, la propria gloria, l’esercizio di un potere sugli altri, la manipolazione dei dati della realtà per mantenere una posizione di privilegio. Anziché servire le persone, di fatto ci si serve della fede o della persona a cui ci si rivolge per obiettivi di autoaffermazione personale o di gruppo.

Interferenze esterne: quando sono presenti fenomeni come l’esteriorismo che privilegia le apparenze superficiali, l’intellettualismo che impedisce un incontro personalizzato con il Signore della vita, l’emozionismo ugualmente di superficie, il ritualismo che, anziché essere soglia dell’esperienza di Dio, si fa barriera all’incontro con la trascendenza, l’opportunismo che si trasforma in ipocrisia.

Di fronte a questi ostacoli sorgono alcune domande: A quali condizioni la comunicazione della fede diviene atto di amore? Che cosa aiuta la persona in questo compito? Che cosa la frena? Su che cosa fare leva perché la comunicazione della fede possa essere sempre un atto d’amore?

I fattori che rendono la comunicazione della fede un atto d’amore sono vari e molteplici. Mi limito ad accennare ai fattori personali. La comunicazione della fede diventa un atto d’amore quando è fatta con un’affettività matura, quando è frutto prevalente di un cuore che ama con autenticità, fermezza e trasparenza.

Occorre che essa sia autentica comunicazione del dono di Dio, del suo agire salvifico, un dono che prima ha pervaso il cuore del donatore, rendendolo accogliente nei confronti della salvezza e desideroso di trasmetterla, perché il vero bene chiede di diffondersi.

PERCHÉ LA COMUNICAZIONE DELLA FEDE SIA EFFETTIVAMENTE UN ATTO D?AMORE - Tra le istanze pedagogiche necessarie si possono richiamare le seguenti:

a – Un’esperienza di fede genuina: La comunicazione della fede, fatta come atto di amore, presuppone nella persona comunicante un contatto vivo e permanente con la fonte da cui la fede sgorga. Si tratta del contatto personale con Dio, incontrato non come un’entità astratta, lontana e asettica, o temuta e tenuta a bada, ma come una persona viva, presente nell’intimo della coscienza, come pure nella famiglia e nella comunità dei credenti. Si tratta di un incontro autentico attraverso i segni sacramentali, attraverso la sua Parola, attraverso le mille realtà mediante le quali Dio si manifesta e si vela a un tempo. Questo richiede da parte di chi vuole trasmettere la fede un effettivo cammino spirituale nel concreto della sua vita, personale e comunitaria, una integrazione tra fede e vita.

b – Un’affettività sufficientemente matura: Il modo di relazionarsi con le persone e le situazioni deve essere, da un lato, sufficientemente libero dall’egocentrismo che strumentalizza l’altro, dall’impulsività che riduce l’altro a oggetto dei propri impulsi e frustrazioni, dall’idealismo che pretende che l’altro sia secondo le proprie attese, le proprie ambizioni, spesso compensatrici di carenze nascoste. Dall’altro lato dev’essere un modo di relazionarsi nutrito di reciprocità, capace di fare posto all’altro nella sua identità effettiva e di porsi di fronte all’altro nella sua verità e trasparenza. L’incontro va nutrito di empatia capace di porsi nei panni dell’altro, di attenzione per intuire ciò che l’altro sta vivendo, così da incontrarlo nella sua verità, restando se stessi; un incontro nutrito di gratuità nel dono di sé all’altro, perché questi possa crescere ed essere se stesso; nutrito di perdono, dato e ricevuto, per poter ripartire, pur negli inevitabili conflitti della vita, con rinnovata fiducia.

c – Una comunità sufficientemente viva e testimoniante: Le comunità credenti sono chiamate a mostrare dal vivo la validità e l’incisività della fede per la vita personale e comunitaria. Le opere di misericordia e di giustizia lo stanno a dire. Queste comunità possono essere la famiglia, la comunità religiosa, la parrocchia, un gruppo di vita, un gruppo di riferimento. La vita e l’azione di gruppo conferiscono alla testimonianza una forza particolare, oggettiva, visibilizzata, estesa nel tempo e nello spazio.

sabato 21 luglio 2012

412 - DIO VIENE IN NOSTRO AIUTO - 22 Luglio 2012 – XVIª Domenica ordinaria

(Geremia 23,1-6 Efesini 2,13-18 Marco 6,30-34)

Il motivo della nostra fiducia è la vicinanza che Gesù ci assicura: egli, infatti, è il pastore che Dio ci ha inviato. L’immagine del pastore che si prende cura delle pecore a lui affidate è frequente nella Bibbia per esprimere la sollecitudine di Dio nei confronti del suo popolo. Allo stesso tempo la sollecitudine di Dio è il modello a cui sono richiamate le guide del popolo, soprattutto nelle parole dei profeti. L’immagine richiama atteggiamenti di fiducia, sicurezza, attenzione, dono. Nel vangelo Gesù si presenta come il pastore annunciato. In lui Dio rivela in modo definitivo il suo volto di Padre-pastore, che procura a chi a lui si affida cibo, sicurezza e salvezza. È in questa prospettiva che va inteso l’invito che Gesù rivolge ai discepoli nel vangelo di oggi: «Venite in disparte… e riposatevi un po’». Il silenzio interiore e il dialogo personale con Dio ci aiutano a comprendere e a vivere la vita in modo meno superficiale rispetto alle proposte del mondo. Gesù si prende cura di noi, affinché scopriamo il vero senso dell’esistenza che ci è donata.

Il silenzio interiore e il dialogo con Dio ci aiutano a valutare in modo meno superficiale la vita, ci fanno ripensare alle scelte fatte, ci danno la carica giusta, ci aiutano a motivare meglio l’azione, a maturare delle scelte più impegnative. Il riposo è dunque anche un’esigenza profonda dello spirito, che non può lasciarsi travolgere dalle attività, guidare dalle situazioni, condizionare nelle scelte dall’incalzare delle cose da fare. Per questo il distacco dalle cose permette di riconoscere il valore relativo della nostra presenza, ridimensiona la portata della nostra azione. Spesso viviamo nell’insoddisfazione o nell’affanno per ciò che non riusciamo a realizzare. Il riposo ci fa capire che è più importante preoccuparci della qualità della nostra azione che non del numero delle iniziative che riusciamo a mandare avanti. Il fermarci a riflettere, per ricuperare noi stessi, ci aiuta a ritrovare il gusto delle cose semplici, ci fa trovare il coraggio di liberarci da certe schiavitù inutili.

PREGHIERA - L’urgenza di portare a tutti la Buona Novella del Regno non comporta alcun affanno, Gesù, e nemmeno ansia e impazienza. È un seme buono quello che viene deposto nel terreno dei cuori. Se viene accolto produrrà un frutto abbondante, al di là di qualsiasi più rosea attesa.

La carica di compassione, di bontà e di misericordia che porta con sé scatena un dinamismo che trasforma e trasfigura. Ecco perché ora, Gesù, tu chiedi ai tuoi di venire in disparte e di riposarsi. La tenerezza che provi per le folle, smarrite e disorientate, la usi anche a loro, provati dalla lotta contro il potere del male, dalla fatica che comporta l’annuncio del Vangelo, l’incontro con tante persone, con le sofferenze ed i problemi che segnano la loro esistenza.

Così chiedi ai tuoi discepoli di rimanere con te, di gustare quella gioia di cui sei la sorgente inesauribile.

411 - IL RISCHIO DELL’INSUCCESSO

Per una pausa spirituale durante la XVª Settimana del Tempo ordinario

Strano invito, quello di Gesù. I discepoli devono prendere solo il bastone che aiuta il camminare, i sandali che evitano le conseguenze della durezza del suolo, una sola tunica, senza il mantello che serve per ripararsi dalla umidità della notte. Proprio l’essenziale. Si potrebbe dire che è l’invito alla debolezza e a correre senza angosce accettando anche lo smacco e il rifiuto. Nel considerare così questo passaggio del vangelo di Marco(6,7-13), non corriamo anche il rischio di riproporre un cristianesimo dolorante, depressivo, autopunitivo?

I discepoli sono inviati ad annunciare la “bella notizia”: la notizia e la sua bellezza non dipendono dalla loro forza, dice in sostanza Gesù. Loro ne sono i semplici testimoni. Per questo raccomanda l’attrezzatura più semplice perché non succeda che l’attrezzatura, che deve semplicemente far passare il messaggio, lo oscuri con il suo ingombro eccessivo.

Si deve partire da qui per una rielaborazione positiva dell’insuccesso, così come sembra venir fuori dal testo: del «buon uso delle malattie», avrebbe detto Pascal. Tutti abbiamo fatto, prima o poi, un’esperienza simile. Puntiamo tutto sulla fede, per noi quella è la vita. Eppure ciò che per noi è tutto non è nulla per tanta gente che conosciamo e, talvolta, perfino per quelli «della nostra casa». In quegli smacchi dolorosi si può fare – ‘si può’, perché, ovviamente, non è facile – l’esperienza di una strana, paradossale purificazione della fede. Quando la fede ‘passa’ viviamo la soddisfazione di essere riusciti a trasmettere ciò in cui crediamo. La tentazione possibile, in quel caso, è di ritenerci noi gli artefici del successo, di considerare la fede una ‘cosa’ che siamo riusciti a trasmettere, come un pacco, ad altri. Abbiamo deciso noi che cosa c’era nel pacco, chi ne era il destinatario, quali i sistemi postali per farlo arrivare a destinazione. Quando, invece, non passa, capiamo che la fede non è un cosa, capiamo soprattutto che in essa si mettono in gioco la misericordia insondabile di Dio e il mistero della libertà dell’uomo. E, partendo da lì, arriviamo a mettere in discussione tutto. Non sappiamo bene che cosa ci sia nel pacco, perché è favolosamente più ricco di quello che possiamo immaginare; non sappiamo bene chi erano i destinatari, perché abitati dalla libertà sulla quale non possiamo mettere le mani; non sappiamo quasi nulla dei canali buoni per far arrivare a destinazione tutto, perché chi spedisce è imprevedibile.

Il passaggio evangelico e le sue possibili ricadute richiamano anche tante immagini letterarie che, in diversi modi, lo illustrano. Tra quelle che più mi piacciono e tra le più note c’è il racconto celebre della disavventura – una delle tante – di don Chisciotte. Siamo nei primi passaggi del grandioso racconto. Il cavaliere errante incontra dei mercanti di Toledo e parla loro della sua bellissima dama, Dulcinea, ne tesse tutte le lodi possibili e chiede che i suoi interlocutori ne riconoscano la bellezza, senza la minima possibilità di dubbio. Don Chisciotte ne è convintissimo. Solo che i mercanti sono gente concreta: stanno andando a Murcia a comperare i tessuti che servono per il loro lavoro e di fronte a quel profeta esagitato, chiedono qualche prova, pretendono di vedere almeno un’immagine di cotanta conclamata bellezza. Don Chisciotte, invece, non fa altro che esaltare la bellezza di Dulcinea e più è convinto della bellezza della sua dama tanto più è scandalizzato dalla incredulità dei mercanti. Tanto che, a un certo punto, vuol punire duramente uno di loro che insiste nel pretendere le ‘prove’.

E così dicendo, partì con la lancia abbassata contro colui che aveva parlato, con tanta collera e furia, che se la buona sorte non avesse fatto inciampare e cadere Ronzinante a metà strada, il temerario mercante se la sarebbe vista brutta. Ma cadde Ronzinante, e il suo padrone andò rotolando per un buon tratto nella terra dei campi; e ogni volta che cercava di rialzarsi, non ci riusciva, per l’impiccio che gli davano la lancia, lo scudo, gli sproni e la celata, insieme col peso della vecchia armatura. E mentre lottava senza esito per alzarsi, andava dicendo: «Non scappate, gente codarda; aspettate, razza di schiavi; che non per colpa mia, ma del mio cavallo, io son qui per terra».

Il don Chisciotte a terra, preda insieme della sua passione e della sua armatura, può essere un bell’esempio del cristiano e delle sue disavventure. Anche il credente, infatti, si affanna spesso a difendersi e a difendere il messaggio di cui è testimone. Ma è tale il suo affanno che spesso ne diventa vittima e, mentre ne soffre, non riesce a capire i suoi errori e accusa gli altri e le circostanze e la nequizia dei tempi, esattamente come don Chisciotte che accusa il suo cavallo, mentre dovrebbe accusare soltanto se stesso. E dovendo, a un certo punto, rimediare ai suoi eccessi, s’accorge di non riuscire a rialzarsi proprio perché troppo appesantito dalle sue attrezzature, quelle che avrebbero dovuto aiutarlo a difendersi.

E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. Altrimenti rischiamo di diventare dei don Chisciotte che cadono rovinosamente a terra, prigionieri della loro stessa forza. Altrimenti rischiamo di difendere precisamente quella forza, invece di usarla per annunciare la debolezza disarmata dell’uomo del Golgota.

sabato 14 luglio 2012

410 - PRESE A MANDARLI A DUE A DUE - 15 Luglio 2012 – XVª Domenica ordinaria

(Amos 7,12-15  Efesini 1,3-14  Marco 6,7-13)

Gesù, dopo il rifiuto da parte dei compaesani, invia in missione il gruppo dei Dodici, esprimendo in questo modo la sua volontà di non lasciarsi piegare dai rifiuti. Il Dio che lui predica è fedele, non si lascia fermare dall’incredulità, ma risponde con un’offerta ancora più generosa della sua parola di salvezza.

La prima impressione che si ricava dalle parole di Gesù è la determinazione che egli chiede ai suoi apostoli. Il distacco dalle cose e il portarsi dietro solo lo stretto indispensabile pone l’accento sull’idea di fondo: l’unica cosa che conta lungo questo viaggio è non perdere di vista lo scopo per cui si è intrapresa la missione e non lasciarsi quindi distrarre da altro. L’elemento più caratteristico è indubbiamente quello della povertà che non nasce da motivi ascetici o da desiderio di penitenza (questo era presente nella predicazione del Battista e del suo movimento), ma dall’urgenza dell’annuncio e dalla necessità di non porre ostacoli a esso; se Marco permette di portare bastone e sandali, è perché il missionario deve portare con sé solo ciò che rende più spedito e veloce il suo cammino (v. 8).

La povertà che Gesù raccomanda è motivata dal fatto che chi annuncia il vangelo è chiamato a vivere di fiducia in colui che lo ha inviato. I discepoli non portano avanti un loro progetto, ma il progetto di Gesù, e proprio per questo saranno chiamati «apostoli», cioè «inviati», perché non rappresentano se stessi, ma un «Altro». Gesù invita i Dodici a presentarsi alla gente da poveri, in modo che si veda chiaramente che non hanno da offrire vantaggi materiali.

L’argomento della predicazione degli apostoli è lo stesso di Gesù: la conversione e l’annuncio del realizzarsi del regno di Dio. Quest’annuncio è accompagnato anche da miracoli, gli apostoli, infatti, si ritrovano gli stessi poteri di Gesù: «Scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (v. 13). Gesù fa capire agli apostoli che devono ritenere normale anche l’eventualità dell’insuccesso. Egli stesso l’ha sperimentato più volte con amarezza. Essi non devono scomporsi di fronte al rifiuto, né sentirsi colpevoli di un fallimento di cui non hanno colpa. Di fronte al rifiuto, il missionario si comporta come Gesù con i suoi compaesani: se ne va altrove, dove è possibile continuare l’annuncio.

Le parole di Gesù valgono ancora oggi e riguardano ciascuno di noi. Spesso siamo portati a credere che la chiesa, la parrocchia, le attività caritative dipendano dalle capacità umane dei sacerdoti, dei laici impegnati, ma questo è vero solo in parte. L’invio degli apostoli e la storia della Chiesa dicono qualcosa di diverso: i primi partono quasi allo sbaraglio, la seconda è stata forte e fiorente proprio nei periodi di persecuzione. Questo aiuta a capire che la cosa essenziale non è l’abilità degli uomini, ma l’azione dello Spirito di Dio. Anche oggi la Chiesa ha poche possibilità di essere accettata quando si presenta con apparati di grandiosità e potenza: l’uomo contemporaneo vuole testimoni capaci di dare valore al loro annuncio con i segni della fede (cioè con il loro affidarsi al Dio che annunciano), come Gesù che è stato potente nella debolezza della croce.

PREGHIERA - Tu invii i tuoi discepoli in missione e trasmetti loro il tuo potere, Gesù. Il potere di guarire e liberare non lo tieni gelosamente per te, ma ne fai partecipi gli operai del Vangelo. A loro affidi la tua Parola e chiedi di proclamarla con uno stile particolare: totalmente disarmati, privi di mezzi e di sostegni, di risorse che diano una qualche sicurezza.

Ciò che conta più di ogni cosa è infatti la forza della Parola deposta nelle loro mani. È questa Parola che è capace di scandagliare i cuori e di chiamarli a conversione. È questa Parola che porta in sé una fecondità imprevista, un lievito buono che trasforma la storia di ogni creatura.

È questa Parola che spezza ogni catena e ogni laccio che ci tengono prigionieri. È questa Parola che disegna in mezzo alle tenebre più profonde i sentieri della speranza. Davanti a questa Parola che lo raggiunge, ognuno è chiamato a prendere posizione e ad assumere la sua responsabilità.

409 - QUANDO L’INCREDULITÀ IMPEDISCE A DIO DI OPERARE

Per una pausa spirituale durante la XIVª Settimana del Tempo ordinario
Spesso e volentieri si pensa che Dio potrebbe e dovrebbe fare «tutto da solo». Si pensa: se c’è Dio, basta che Lui voglia alcune cose, le potrebbe e dovrebbe fare. Invece, sorprendentemente, il vangelo di oggi ci ricorda una verità chiave del cristianesimo: se non esiste una collaborazione da parte dell’uomo, l’azione di Dio non può dispiegarsi. Dice testualmente Marco: «E lì non poteva compiere nessun prodigio…» (Mc 5,5). Gesù, colui che rende presente in terra la signoria del Padre, colui nel quale abita la pienezza della divinità, vorrebbe compiere prodigi anche a Nazareth, sua terra natale; ma non può, anzi – dice il greco – «non poteva», modalità verbale che esprime un’impossibilità che continua nel tempo, che, cioè, (purtroppo) è duratura. Ma per quale ragione Gesù è impossibilitato a compiere prodigi? Che cosa può fermare l’onnipotente presenza della grazia, dell’amore di Dio? Chi mai ha un ‘potere’ simile? È lo stesso vangelo che si premura di spiegare che tale impossibilità ha un nome ben preciso: l’incredulità: «E si meravigliava della loro incredulità» (Mc 5,6). La non fede, dunque, ha la capacità di impedire a Gesù di operare quanto desidererebbe fare. Tant’è che il vangelo precisa come alcune guarigioni Gesù sia riuscito a compierle: «ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì» (Mc 5,5); come a ricordare che la presenza dell’azione di grazia di Dio in Gesù c’è, è presente, non si è bloccata a monte… bensì il suo dispiegamento è in relazione alla fede o non fede di chi la incontra.
Pare importante provare a riflettere su tale tratto della proposta di Gesù. Dio, infatti, avrebbe potuto decidere di agire da solo, indipendentemente dalla volontà dell’uomo; avrebbe, cioè, potuto scegliere di agire nei confronti dell’uomo senza rispettare la sua libertà. Si potrebbe tradurre tutto questo in un’affermazione più o meno siffatta: «siccome lo voglio io – dice Dio –, anche se tu non lo vuoi (uomo), io lo faccio lo stesso». Questo modo avrebbe definito Dio certo onnipotente, grande, forte… ma avrebbe relegato l’uomo a piccola marionetta che subisce l’azione di Dio. Invece Dio ha voluto essere scelto e non subito dall’uomo: Dio è una presenza che non si vuole im-porre a prescindere dal libero consentimento umano, per cui, se Egli viene accolto liberamente (fede), allora può dispiegare tutte le potenzialità del suo essere presente; se Egli non viene accolto (incredulità), allora non può dispiegare tutte le potenzialità del suo essere presente. Detto con i concetti della teologia: se Dio desidera un incontro personale e libero con l’umanità, l’agire di Dio (la sua rivelazione) è possibile solo laddove si dia un’accoglienza da parte di un uomo (la fede). Questo non vuol dire che Dio è condizionato o dipendente dall’uomo in senso assoluto, ma che alla rivelazione appartiene intrinsecamente l’uomo che la riceve: la rivelazione, in altri termini, avviene, diventa realtà, soltanto e sempre là dove c’è la fede di un uomo, laddove cioè l’offerta di incontro (ex parte Dei) trova una corrispondenza nell’accoglienza (ex parte hominis).
Nell’impareggiabile capacità icastica di Agostino, questo tratto decisivo della fede cristiana è così restituito: «Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te» (Agostino, Sermo CLXIX, 13). Esiste, cioè, un agire di Dio che è all’origine di ogni altra possibilità: il fatto di esserci, il fatto di poter essere come uomo non è frutto della decisione dell’uomo e non è in potere dell’uomo nascente. Non per nulla, anche a livello esperienziale, nessuno di noi ‘si nasce’, è all’origine della decisione di nascere; noi ‘nasciamo’, nel senso che qualcun altro ci mette al mondo, qualcun altro prende la decisione senza di noi. Dio, quindi, crea (è l’azione iniziale, primordiale) senza la decisione libera e consapevole dell’uomo ivi interessato.
Ma è proprio quest’atto di decisione iniziale preso da qualcun altro che regala la possibilità all’uomo, poi, di poter decidere di sé: proprio perché ci sono, esercito la mia libertà fino anche a contrastare la volontà di colui che mi ha messo al mondo. Infatti, ciascuno di noi conserva la (triste) possibilità di ribellarsi a Dio, di respingerlo, di «scandalizzarsi» di Lui (Mc 6,3): i nazareni trovano che le parole e le azioni di Gesù sono «pietre di inciampo» (così letteralmente il verbo scandalizzarsi) perché non corrispondono (secondo loro) a quanto un ‘giusto’ Messia dovrebbe fare per tracciare la via diritta; ma proprio questo loro atteggiamento diventa «di inciampo» all’azione salvifica di Gesù, che è impedito di operare come vorrebbe.
Aprirsi a Dio, avere fede, prendersi cura della propria fede, continuare a decidere di vivere ogni giorno la propria vita come Gesù, riconoscendo che il suo stile e il suo agire sono la via che porta alla verità della vita… diventano, allora, una grande occasione di grazia, perché, da una parte, l’uomo è destinatario di una benevola azione d’amore da parte di Dio e, dall’altra, l’uomo ‘permette’ a Dio stesso di operare e rendersi presente nel mondo. Esempio massimo di tale situazione è forse proprio la celebrazione eucaristica: se non ci fosse una comunità riunita e non ci fosse un presbitero che pronuncia le parole della consacrazione, si potrebbe essere anche le persone più interessanti di questo mondo, ma Gesù non si renderebbe presente nel suo corpo, anima e divinità.

sabato 7 luglio 2012

408 - ERA PER LORO MOTIVO DI SCANDALO - 08 Luglio 2012 – XIVª Domenica ordinaria

(Ezechiele 2,2-5  2ª Corinti 12,7-10  Marco 6,1-6)

Il profeta è sempre un personaggio scomodo proprio perché precorre i tempi. Il profeta porta, con la vita e con la parola, un nuovo progetto di vita che, preso sul serio, scuote abitudini consolidate, mette in crisi false sicurezze, scomoda troppo. Provoca dunque facilmente il rifiuto: rifiuto del messaggio e del messaggero. È la storia di sempre che si è attuata anche con Gesù, e il vangelo di Marco è particolarmente attento a scandirne le tappe: c’è prima la rottura con i farisei (3,6); poi con i «compaesani»; alla fine lo lasceranno anche i discepoli (14,50). Sulla croce sarà quasi solo, l’evangelista Giovanni racconta che ci sono solo la Madre, alcune donne e Giovanni (cfr. 19,25) che incarnano la fede, la comprensione del suo mistero, contro la incomprensione e la cecità dei più.

I compaesani di Gesù hanno avuto difficoltà ad accettare un Messia che era uno di loro, un Messia di cui conoscevano madre e parenti, in definitiva un Messia nascosto nel quotidiano. Questo si ripete ogni volta che si rifiuta il Cristo che si manifesta e si presenta nella persona del fratello che si trova in difficoltà, o in un servizio che chiede sacrificio e dedizione. Si può aggiungere che i compaesani di Gesù lo accettano come uomo, ma non come inviato di Dio. Accettano cioè una parte del mistero della sua persona, ma lo rifiutano nella sua integralità. Anche questa è una situazione che si ripresenta spesso ai nostri giorni: Gesù Cristo grande uomo sì, Dio no; oppure: Gesù Cristo sì, la Chiesa no. E così Cristo è fatto a pezzi. Non ci possono essere mezze misure: o si accetta tutto, o si rifiuta tutto. Quando poi non si osa rifiutare Gesù Cristo e la sua verità, si cerca di «addomesticarla». Si cerca di ridurre il vangelo a una dimensione «accettabile», addolcendolo, riducendolo agli schemi della nostra piccola saggezza umana. Allora, però, diventa sale che non insaporisce più (cfr. Mt 5,13). Il vangelo va preso così com’è, senza addolcimenti e con la capacità di mettere in gioco noi stessi su quella parola. Solo così si ha quella piena accettazione di Cristo che nel linguaggio del vangelo si chiama «fede».

PREGHIERA - Dovrebbe essere un ritorno in grande stile nel tuo villaggio, Gesù. Già ti accompagna la fama dei miracoli compiuti e alla tua parola sono riconosciute una saggezza e una forza speciali.

Ma le cose vanno ben diversamente… Se ci sono, almeno all’inizio, ammirazione e stupore, poi si manifestano dubbi e incomprensioni. Perché? Perché un’accoglienza del genere? Perché un’incredulità che blocca la forza prodigiosa del tuo amore che risana e rialza?

A suscitare scandalo tra i tuoi compaesani, tra quanti credono di conoscerti da sempre è proprio il fatto che ti ritengono uno di loro, come loro. E pare loro impossibile che Dio parli ed agisca non attraverso personaggi altolocati, o dignitari prestigiosi, o capi di famiglie sacerdotali, ma per mezzo di un uomo che ha condiviso in tutto e per tutto la loro esistenza.

Aiutami, Gesù, ad accogliere con gioia e gratitudine l’azione dello Spirito, anche quando mi sorprende.

407 - TOCCARE: MANIFESTAZIONE (AMBIGUA?) DELLA FEDE

Per una pausa spirituale durante la XIIIª Settimana del Tempo ordinario

Il pope si rimbocca le maniche accingendosi all’unzione con l’olio dei catecumeni. Il piccolo neonato, spogliato, viene collocato sopra il fonte battesimale per essere unto su tutto il corpo. La mamma collabora reggendo il bambino e spalmando olio: la forza dell’azione. Segue il battesimo per immersione. Un candido lenzuolino accoglie il neobattezzato per detergerne le membra.

Siamo in una chiesa ortodossa, in Bulgaria. Le icone che tappezzano i muri e chiudono l’altare dietro l’iconostasi, il semibuio dell’ambiente, gli abiti liturgici del celebrante e i canti tradizionali contrastano con l’atteggiamento dei partecipanti al rito: abiti all’ultima moda, minigonne e chiacchiericci nelle retrovie. Si tratta effettivamente di un battesimo di un bimbo nato in Italia, da padre romano e madre bulgara.

I genitori sono voluti tornare al paese di origine materna per ritrovare il contesto religioso e umano favorevole al rito tradizionale (come fanno sovente gli italiani emigrati dal sud al nord, quando esprimono il desiderio di ritrovare i luoghi dei propri natali per celebrare le nozze o il battesimo di un figlio).

Ripenso ai battesimi amministrati nella mia chiesa cattolica del nord Italia: il gesto dell’unzione (un piccolo tocco sul collo); l’acqua fatta scendere sul capo stando attento a non bagnare gli occhi; la vesta bianca simbolica posata sul petto e non indossata. Ripenso anche al pane eucaristico: un’ostia così stereotipata da non sembrare più pane (piuttosto ‘polistirolo’) e il vino che non si può assumere comunitariamente per motivi igienici e pratici.

«Metti qua il tuo dito; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!» (Gv 20,27). Non è così lontano dal bisogno umano il gesto di toccare. Il bambino vuole toccare gli oggetti per poterli ‘conoscere’ e porta immediatamente ogni cosa alla bocca per poterla anche ‘gustare’.

Quanti milioni di persone saranno sfilate davanti alla statua di S. Pietro in Vaticano perché il dito del piede della statua in bronzo sia stato consumato dai baci e dallo strofinamento?

Oggi in Italia, come altrove nella vecchia Europa, si fa fatica a riempire le chiese alla domenica o nelle altre feste ‘comandate’. Ma quando si distribuiscono il pane di S. Antonio, o le rose di Santa Rita, o l’olio per lenire i mali con l’intercessione di qualche altro Santo, allora si accalca la gente, anziana e anche più giovane. Forse non si ferma molto davanti al tabernacolo e non esprime con gesti esterni la fede nella presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata, ma ritorna alle proprie case senza rispetto umano, con l’oggetto di devozione tra le mani o nella borsa. Ne porterà anche ai vicini perché il contatto è già efficace; e andrà a procurarsene anche al di fuori del rito perché il potere è nell’oggetto più che nell’intenzione.

Il corpo umano è oggi molto più esposto e reso pubblico in ogni forma, la privacy è più un assillo legale che una realtà vissuta, e il pudore è rimpiazzato dalla paura di contagio e di promiscuità dannosa. La famigliarità con le manifestazioni fisiche era invece più continua e normale un tempo.

In molte regioni d’Africa la gente vive ancora accalcata nelle capanne; non c’è sala da pranzo, soggiorno, camera da letto, bagno. Il contatto fisico è continuo e la vita è esposta in pubblico.

In Vietnam, nelle immense distese di riso del Mekong, i bambini cavalcano lo zebù che trascina l’erpice, piccoli cocchieri sul pachiderma. E quando rientrano la sera, dormono in cinquanta sul letto di pula.

L’asetticità corrisponderà, in parte, anche alla perdita di influenza reciproca, all’impossibilità di creazione dell’humus vitale? La fede non passerà forse dalla coscienza di essere parte e di dipendere dal corpo comune? Il luogo della fede non sarà davvero il Corpo mistico?

Allora l’incarnazione non è soltanto la via dell’incontro con l’uomo, scelta da Dio creatore in risposta al peccato di Adamo, ma la modalità originale di salvezza perché il dono della vita possa fiorire nell’umanità.

Non sarà forse che senza la mediazione della materia non si può, nella condizione umana, attingere al divino? Due mediazioni veicolano la fede nel mondo degli umani:

– L’incontro con l’altro (il prossimo), mediazione universale condivisa da tutta l’umanità: «Ero nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato…» (Mt 25,31ss.). Questa mediazione raggiunge anche i cosiddetti ‘atei’ e tutti i ‘cercatori della verità’. Il giudizio finale sarà giusto perché non considererà la collocazione storico-geografico-sociale di ciascuno, ma il coinvolgimento con la vita dell’‘Altro’.

– L’incontro con la Chiesa, mediazione storica scelta da Dio Padre nel suo Figlio Gesù Cristo, luce del mondo e maestra di umanità, carica di rughe e di contraddizioni, ma sempre madre. Il paralitico che giace ai bordi della piscina di Betzaida ha bisogno ancora di chi lo immerga nelle acque. Per questo vale il mandato: «Andate e predicate il vangelo a tutte le genti». Un vangelo di vita proposto non da maestri insediati in cattedra, ma da testimoni coerenti e convinti della carità.

La generazione attuale, in Occidente, è il frutto di periodi storici che ne hanno imbastito la stoffa. Benedetto XVI ritorna continuamente sulle radici religiose e classiche dell’Europa, che non dovrebbero essere tradite. Siamo figli di Roma, di Atene, di Gerusalemme…

L’illuminismo e il razionalismo dei secoli dei lumi hanno segnato profondamente il pensiero e anche la prassi dell’uomo ‘moderno’, il quale si trova sollecitato dai messaggi più disparati che gli vengono non più dai vicini dei quali riconosce la voce e l’odore, ma dall’etere, in forma anonima, anche se ti danno del ‘tu’.

Da una parte le prove della scienza ci rendono scettici e sospettosi di fronte a qualsiasi manifestazione che non cada sotto il controllo dei sensi e degli strumenti di osservazione. Dall’altra il fascino dell’irrazionale e la convinzione che si possa andare al di là delle cose sperimentabili spinge l’uomo a cercare oltre, ad aggrapparsi alla medicina magica per riacquistare la salute, a credere nei veggenti e nei manipolatori.

Quando Naaman rispose sdegnato: «Forse i fiumi di Damasco non sono migliori di tutte le acque di Israele?», i servi dissero: «Che cosa ti costa?» (2 Re 5,10-14).

I nostri occhi un giorno vedranno la realtà così com’è: oggi come in uno specchio. Intanto è importante toccare. L’emorroissa, purificata dal dolore di tanti anni di malattia e con la fiducia dei figli, si è accostata al Maestro convinta che il tocco l’avrebbe fatta incontrare con la fonte della salute.