sabato 26 maggio 2012

397 - LO SPIRITO SANTO NELLA PERSONA E NELLA COMUNITÀ

Sabato – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

Lo Spirito è donato personalmente ad ognuno e insieme cementa la comunità in un legame nuovo e divino. Lo Spirito comunica la stessa agape trinitaria, che cambia il credente facendolo passare da individuo chiuso in se stesso a persona in sintonia con Dio e con i fratelli. Persona e comunità sono saldate sempre di più dallo Spirito, che opera sia nella profondità (coinvolge tutti gli strati dell’io) sia nella dilatazione (amalgamando sempre più persone diverse).

A Pentecoste la Chiesa appare come segno e strumento di unità di tutto il genere umano, ma questo è possibile solo se essa rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Lo Spirito rende fusi ma non confusi, distinti ma non distanti, uguali ma diversi, differenti ma uniti. Contro l’emergente ‘sindrome del campanile’ (chiesuole, partitini, leghe, rioni) va riscoperto il carisma della sintesi tipico del ministero del Papa, del Vescovo e del parroco: il maestro del coro che aiuta la comunità ad eseguire lo spartito del Vangelo e a cantare con voci diverse, ma all’unisono, con un solo cuore e un solo Spirito. Lo Spirito, infatti, consuma le scorie che corrompono ogni battezzato e lo ostacolano nelle sue relazioni, facendone emergere la parte migliore.

Lo Spirito di Cristo suscita e alimenta le molteplici dimensioni dell’azione educativa:

1) La dimensione missionaria: il Cenacolo toglie il complesso dell’ostrica, cioè fa superare la paura di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele e di andare al largo dell’evangelizzazione. Il Signore invia per strade che egli ha già percorso, per primo: egli è la Via.

2) La dimensione ecumenica e dialogica: lo Spirito promuove il movimento dell’amore, che si apre a tutti, senza escludere nulla e nessuno, ma anzi armonizzando le differenze e tenendo uniti gli opposti. Se i doni dello Spirito dimenticano la loro sorgente comune, soffrono, impazziscono e contribuiscono al caos. Lo Spirito è principio di unità, ispira il desiderio della comunione visibile e favorisce l’incontro, incoraggia al bene comune.

3) La dimensione caritativa e sociale: lo Spirito promuove un ordine soprannaturale di relazioni, insegna non a dare tutto a tutti, ma a tutti amore e a nessuno ingiustizia (S. Agostino). Il primato della carità non sta solo nel fuggire il male, ma soprattutto nel fare il bene. Il cuore del cristianesimo è un Dio che si è fatto uomo per essere «di tutti, per tutti e con tutti». L’amore fa rimanere in Dio e lui in noi. Senza l’amore non c’è umanità: il contrario dell’amore è morte.

4) La dimensione escatologica: lo Spirito attesta la grande dignità dell’essere figli di Dio, con una destinazione eterna, che non allontana dall’impegno nelle realtà terrene, ma preserva dal cadere nell’idolatria di se stessi, delle cose e del mondo. Lo Spirito è respiro di Dio che dilata e non soffoca la vita dell’uomo, unità di anima e corpo. La durezza del cuore è la peggiore malattia spirituale, impedisce di cogliere il Tutto nel frammento.

Solo una cultura dell’interiorità può promuovere un cristianesimo dinamico e veramente costruttivo. Urge una nuova Pentecoste in un’epoca sempre più martoriata dagli egoismi autoreferenziali e insipienti della politica, dall’onnipotenza atea dell sviluppo tecnologico ed economico, dalla debolezza sino all’insignificanza dei principali istituti educativi, fra i quali la famiglia.

C’è bisogno di invocare lo Spirito per ritrovare Gesù nella propria vita e, in lui, incontrare gli altri. Chi non sa dedicare tempo a Dio nell’orazione, non riesce a parlare di Dio agli uomini. Solo lo Spirito rende pure e rette le intenzioni e le azioni dei cristiani nel mondo, genera l’umiltà del cuore, garantisce la fedeltà al Vangelo anche quando è scomodo e crocifigge, trasforma la povertà e la semplicità della fede in potenza di Dio, fa sperimentare il coraggio e la pace di Gesù, educa ad ascoltare per servire. Solo lo Spirito risponde alle domande che noi non poniamo più, tiene ferma la sapienza della consolazione e illumina la strada della vita spesso data per persa, tiene vivo il fuoco dell’amore fedele e edifica la comunità con individui impossibili.

396 - LA PENTECOSTE È LA FONTE DELLA PERENNE GIOVINEZZA DELLA CHIESA

Venerdì – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

La Chiesa vive del movimento del cuore: ha bisogno di chiudersi e di aprirsi, in modo alternativo e costante, pena la morte. Lo Spirito genera questo moto, che va dal Cenacolo alla piazza di Gerusalemme, dalla preghiera alla predicazione, dal piccolo gruppo alla folla, dal ‘vieni’ al ‘vai’. Il discepolato richiede il tempo dell’attesa e della ricezione dello Spirito, della conoscenza e dell’amore per Gesù, e contempla pure il tempo della trasmissione delle ‘cose’ dello Spirito, dell’impegno nella storia a partire dall’amore di Cristo.

Chi incontra il cristiano deve potersi rendere conto ‘da dove viene’, a quale scuola di vita si è formato. Prima della missione c’è l’immissione per grazia nella vita di Gesù: un rapporto nuovo, originale ed inscindibile con lui. La ‘vita eterna’ è venire da Gesù e andare nel mondo portando Gesù. Il cristiano non è un libero professionista o un avventuriero, ma un testimone di Gesù.

Il Cenacolo è una tappa essenziale, come riserva insostituibile di Spirito Santo, che rende vigilanti, con occhi ben aperti e orecchie spalancate, al fine di non lasciare morire la comunità nell’abitudine e nella mancanza di passione, intenta a sciupare tempo prezioso per ‘accomodare’ le difficoltà derivanti dalla vita comunitaria, sottraendolo all’evangelizzazione.

Nel documento “Educare alla vita buona del Vangelo” i vescovi raccomandano primariamente ai fedeli «un’autentica vita spirituale, cioè un’esistenza secondo lo Spirito», il quale forma il cristiano secondo i sentimenti di Cristo, guida alla verità tutta intera, illumina le menti, infonde l’amore nei cuori, fortifica i deboli, apre alla conoscenza del Padre e del Figlio, e garantisce a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Lo Spirito fa sì che ogni particolare dell’esistenza sia esaltato, in quanto vissuto dentro il rapporto con Cristo e come offerta a Dio (n. 22).

La Pentecoste è la fonte della perenne giovinezza della Chiesa, la quale non è la somma di tutti i singoli credenti, dei loro sforzi e delle loro attività, ma è un tutto vivente, che possiede in se stesso il suo principio di vita, lo Spirito Santo. Nella Chiesa, c’è il già dato (la vita di Dio in Cristo-alfa) e l’agito (quanto viene liberamente costruito dall’uomo, il traffico dei talenti ricevuti come apparire della pienezza iniziale). È il rapporto del divino e dell’umano nella Chiesa. Se la Chiesa come tale è sempre unita allo Spirito Santo e dunque sempre santa, sempre sposa, le anime singole possono essere o non essere unite a Dio. Questo comporta la fallibilità, l’errore e il peccato, ma anche la conversione e la riforma.

Si può parlare di una vera e falsa riforma della Chiesa. Occorre ricuperare le condizioni di ogni riforma ecclesiale, al di là delle astuzie inutili e dell’immobilismo presuntuoso, che scambia la sopravvivenza del passato con la permanenza dell’eterno. È vera la riforma che è fedele al principio in profondità (le fonti, il “depositum fidei”, i principi animatori e permanenti della vita ecclesiale). Gli autentici riformatori (i Santi) sono ben diversi dagli innovatori (concentrati sull’adattabile e mutevole, sull’attualità). Il Catechismo della Chiesa Cattolica, a vent’anni dalla sua promulgazione, chiede di evitare pressapochismo e superficialità nella vita ecclesiale.

Diceva Paolo VI nel 1969, a quattro anni dalla chiusura del Concilio: «Il soffio ossigenante dello Spirito è venuto a svegliare nella Chiesa energie assopite, a risuscitare carismi dormienti, a infondere quel senso di vitalità e di letizia che ad ogni epoca della storia definisce giovane e attuale la Chiesa stessa». A cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II c’è ancora bisogno del vento dello Spirito. L’Incontro internazionale delle famiglie, che si svolge a Milano dal 30 maggio al 3 giugno e che ha come tema: «Famiglia, lavoro e festa», può aiutare le comunità cristiane a farsi compagne di viaggio per la gente del nostro tempo.

395 - IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO

Giovedì – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

GALATI 5,16-25: “Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito”.

Il brano è tratta dal finale della lettera ai Galati e comprende un passo importante in cui Paolo insegna che la morale cristiana è «una vita secondo lo Spirito». Dopo aver concluso la spiegazione teologica sulla salvezza, insistendo sul fatto che Dio salva in modo generoso e gratuito sulla base della fede, l’apostolo tira le conseguenze: all’essere fa seguito un agire. Il cristiano è stato liberato dalla «carne»: è un dato di fatto; ma poi, concretamente, al cristiano è chiesto di vivere questa possibilità nuova che gli è stata donata.

Col termine «carne» (sárx) Paolo designa la forza negativa dell’egoismo, l’istinto della natura umana inclinata al male; ma afferma con forza che essa non domina più la nostra vita. C’è uno «Spirito» (pnêuma) più forte, che può cambiare la vita dell’uomo; e il cristiano è colui che ha accettato di collaborare con questo Spirito, di utilizzare cioè questa potenzialità per la realizzazione perfetta del progetto di Dio.

Anche nell’uomo redento infatti rimane un elemento negativo chiamato ‘concupiscenza’ (epithymía – bramosia): è conseguenza della disobbedienza del primo peccato e, al tempo stesso, conferma l’eredità del peccato; nelle facoltà morali dell’uomo, dunque, c’è disordine e in esso si fa sentire prepotente l’istinto che, senza essere peccato, inclina l’uomo a commettere il peccato. Proprio questa situazione di divisione interna porta al combattimento spirituale e chiede all’uomo un impegno serio e costante: la vittoria, grazie a Gesù Cristo, è possibile, ma la collaborazione dell’uomo è indispensabile.

Il regime della legge è finito: non che la legge sia stata abolita, ma non si tratta più di obbedire con le proprie forze a comandi esterni. La novità è il regime dello Spirito: la forza di Dio stesso abilita l’uomo dall’interno a compiere la legge. Ma lo Spirito non agisce indipendentemente dall’uomo; non porta l’uomo dove vuole, senza che l’uomo voglia. Perché l’azione dello Spirito abbia efficacia pratica è necessario che l’uomo «si lasci guidare». La docilità allo Spirito Santo è dunque condizione della vita nuova in Cristo. Lo Spirito e la carne sono due principi operativi antitetici che si escludono a vicenda, creando nella persona che non si decide una specie di dualismo psicologico; per evidenziare questa contrapposizione Paolo offre una abbondante esemplificazione.

Le opere proprie dell’uomo, quando segue il suo istinto naturale, sono purtroppo note nella vita di tutti i giorni e riempiono le pagine dei giornali. I quattordici (doppio di sette) peccati che Paolo elenca, si possono dividere in quattro categorie: peccati di lussuria, peccati contro la religione, peccati contro la carità e peccati contro la temperanza. Questo è l’amaro quadro della vita umana guidata dalla «carne», cioè dall’istinto negativo che influenza l’uomo, anche dopo la redenzione realizzata da Gesù Cristo.

In contrapposizione, l’apostolo elenca subito dopo «il frutto» dello Spirito, espressione singolare spiegata da molte sfumature. Alle nove realtà elencate nel testo greco la Vulgata latina ne aggiunge altre tre: «benevolenza, modestia e castità»; così si raggiunge il simbolico numero dodici. Questo «frutto» – uno eppur variegato – rappresenta le perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna; grazie alla potenza dello Spirito, i figli di Dio possono portare frutto. Colui che ci ha innestati nella vera Vite, che è il Cristo, farà sì che portiamo i frutti conseguenti a questo innesto.

394 - “LO SPIRITO DI VERITÀ VI GUIDERÀ A TUTTA LA VERITÀ”

Mercoledì – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

GIOVANNI 15,26-27; 16,12-15: “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.

Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncer”.

Il brano evangelico è una compilazione di due testi distinti, tratti dai discorsi dell’Ultima Cena, che presentano due delle profezie del Paraclito, poste da Giovanni sulle labbra di Gesù in quella solenne occasione. La promessa si è dunque compiuta e l’evangelista, forte della sua esperienza ecclesiale, rielabora con fine abilità teologica le parole del Cristo per precisare come lo Spirito Santo continui l’opera messianica attraverso la missione apostolica.

La prima parte della pericope contiene la terza profezia del Paraclito (Gv 15,26-27). La traduzione CEI 1971 rendeva questo vocabolo con «Consolatore», mentre l’attuale versione CEI 2008 ha conservato la parola greca, che indica l’avvocato difensore, colui che è stato chiamato vicino per difendere e sostenere. Infatti il termine para-klētós indica una persona ‘chiamata’ (klētós) ‘vicino’ (pará) e corrisponde perfettamente al latino ad-vocatus. In 1 Gv 2,1 lo stesso titolo viene attribuito al Cristo risorto in quanto garante ufficiale che difende la nostra causa presso il Padre. È un termine che richiama il grande schema giovanneo del processo: il processo intentato contro Gesù continua anche contro i suoi discepoli, ma essi non sono soli. Dopo la glorificazione di Gesù essi saranno assistiti da un «altro» Paraclito (cfr. Gv 14,16): il primo è stato Gesù stesso e i discepoli lo conoscono perché egli dimora presso di loro. Dopo la risurrezione, però, egli sarà dentro di loro: non più una compagnia esterna, ma una presenza interna.

Prima (Gv 14,16.26) Gesù aveva detto che il Padre manderà lo Spirito Santo; ora invece afferma di inviarlo egli stesso da parte del Padre: con queste fini modifiche Giovanni vuole evidenziare la ricchezza e la complessità del mistero divino, mai esauribile da una sola formula. Questo ‘Avvocato’ viene qualificato come lo «Spirito della verità» e si precisa che «procede dal Padre». Nel linguaggio giovanneo Gesù è la verità, nel senso etimologico greco di a-lḗtheia, cioè ‘non-nascondimento’, ovvero ‘rivelazione’: egli è la stessa vita di Dio che il Figlio ha rivelato e ha comunicato. Perciò lo Spirito di verità è lo Spirito di Gesù, strettamente unito alla sua persona e continuatore della sua opera. Inoltre è legato al Padre poiché «procede» (ek-poréuetai) da lui, cioè uscendo dalla stessa intimità divina si muove verso l’umanità attraverso la preziosa mediazione del Figlio. Tale particolare è stato approfondito dalla tradizione dogmatica dei Padri ed inserito come formula teologica importante nella professione di fede.

Il compito del Paraclito è caratterizzato da diversi verbi nelle varie profezie; in questo caso si parla di testimonianza e si aggiunge che tale funzione è in stretta correlazione con l’opera degli apostoli, i quali danno testimonianza su Gesù per il fatto di essere stati con lui fin dal principio. È chiaro che si vuole evidenziare come dietro le dichiarazioni degli apostoli sia all’opera lo stesso Spirito di Dio e di Gesù. Siamo ancora in contesto giudiziario: nel processo contro Gesù lungo la storia il testimone fondamentale è lo Spirito, che dà ai discepoli la forza e la capacità di testimoniare l’esperienza che hanno vissuto.

La seconda parte del brano liturgico presenta la quinta profezia (Gv 16,12-15), che riprende la formula «Spirito della verità» e insiste sul suo compito, già indicato dai verbi ‘insegnare’ e ‘ricordare’ (Gv 14,26). Ora vengono aggiunte altre quattro importanti forme verbali per caratterizzare la funzione del Paraclito: 1) «vi guiderà a tutta la verità»; 2) «dirà tutto ciò che avrà udito»; 3) «vi annuncerà le cose future»; 4) «mi glorificherà». L’opera di Gesù infatti ha bisogno di essere capita e, senza lo Spirito di Gesù, i discepoli non possono giungere alla comprensione. Durante la sua vita terrena egli è stato il maestro esteriore; dopo la risurrezione, tramite lo Spirito, diventa il maestro interiore che fa capire il senso di tutto, guidandoli verso la pienezza, continuando a trasmettere loro la parola di Dio e illuminando la loro comprensione riguardo a ciò che accadrà in seguito lungo la storia umana.

Emerge con chiarezza che il processo della rivelazione è continuato dallo Spirito anche dopo la risurrezione di Gesù. La comprensione piena del Vangelo è opera dello Spirito; come opera sua è la comprensione del senso della storia e la capacità di cogliere i segni dei tempi. In questa opera di rivelazione («parlerà») lo Spirito glorifica il Cristo, cioè ne mostra la reale presenza e potenza in tutte le vicende del tempo, rendendo viva ed efficace la sua parola.

393 - LA PRIMA PENTECOSTE (seconda parte)

Martedì – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

Riempiti di questa potenza dall’alto, gli apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (v. 4). Lo Spirito è all’inizio dell’evangelizzazione e il segno di questa fondamentale opera apostolica è espresso dal «parlare in lingue»: ma che cosa significa? Potrebbe trattarsi di una espressione tecnica per indicare un carisma frequente nella Chiesa primitiva, detto anche «glossolalía»: gli apostoli emetterebbero suoni incomprensibili, in stato estatico, e il miracolo consisterebbe nel fatto che la gente capiva lo stesso (cfr. 1 Cor 12–14). Ma un attento confronto induce a concludere che l’evento di Pentecoste fu un’altra cosa rispetto alla prassi della glossolalia di cui parla la 1 Cor, anche se Luca dipende nel linguaggio da questa mentalità, che mostra la glossolalia in stretta dipendenza con il dono dello Spirito.

Probabilmente Luca ha utilizzato l’immagine della glossolalia, illuminata dall’interpretazione profetica, fondendola con lo schema dei cantici spirituali, secondo cui lo Spirito suscita in alcune persone la lode e la profezia. Il linguaggio del Magnificat, ad esempio, con il tipico verbo «megalýnein» (magnificare, dire grandi cose) è ripreso più volte negli Atti (cfr. At 2,11; 10,46). Lo Spirito fa esultare di gioia per le grandezze del Signore e la lode di Dio è profezia: in At 2,18 Pietro applica la profezia di Gioele (3,1-5) agli apostoli che parlano in lingue. Luca ha filtrato con la sua mentalità, secondo l’influsso delle comunità di Paolo, gli antichi ricordi di quel prodigioso evento. Il dono pieno dello Spirito Santo fa iniziare la storia della Chiesa e Luca lo racconta richiamando quel che era già successo all’inizio della vita di Gesù. Sembra dunque che il carisma di Pentecoste appartenga al genere profetico dei cantici spirituali.

Il narratore inoltre annota che «ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua» (2,6.11) ed evidenzia che si tratta di un fatto molto strano, giacché coloro che parlano sono tutti galilei (2,7-8). Raccogliendo insieme i vari indizi, si può affermare che il significato prevalente è quello di un discorso comprensibile in tutte le lingue degli uditori: il miracolo consiste proprio nel fatto che tutti gli ascoltatori riuscivano a capire il discorso degli apostoli.

I giudei di Gerusalemme che hanno sentito il fenomeno rumoroso e ascoltano l’inspiegabile parlare degli apostoli vengono «da tutte le nazioni che stanno sotto il cielo» (v. 5). Infatti i giudei, diffusi in tutto il mondo antico, partecipavano alle diverse nazionalità condividendone anche la lingua. Con artificio retorico, il narratore pone in bocca agli stessi giudei un discorso di stupore, in cui vengono elencati i paesi di provenienza di quella folla così variegata (vv. 9-11). L’elenco delle nazionalità non vuole essere completo: il discorso è decisamente fittizio e ha la tipica forma lucana per presentare quello che pensano i personaggi. L’interesse teologico che muove l’autore è l’universalismo: Luca infatti, quando compone le sue opere, ha ormai maturato l’idea dell’universalità della Chiesa, eppure sa che, all’inizio della missione apostolica, questa apertura universale non c’era ancora. Proprio per questo inserisce nel racconto dell’evento fondamentale un universalismo implicito: il miracolo di Pentecoste ha infatti una valenza implicita, che diverrà esplicita in seguito.

Quel giorno – dice Luca – è stata manifestata la potenza dello Spirito ed è stato rivelato ciò che la Chiesa è in potenza. Il seguito del racconto mostra appunto lo sviluppo della dimensione universale della Chiesa che si apre lentamente a tutte le genti, finché il Vangelo arrivi fino agli estremi confini della terra.

392 - LA PRIMA PENTECOSTE (prima parte)

Lunedì – Per una pausa spirituale nella settimana di Pentecoste

ATTI 2,1-11: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 1della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.

Il racconto della prima Pentecoste cristiana , che abbiamo appena letto, svolge per il narratore la funzione di fondamento dell’universalismo cristiano, in quanto il dono dello Spirito Santo rende il progetto di Dio realmente universale: il gruppo dei discepoli è ora potenzialmente aperto a tutti. Luca la presenta come festa della nuova alleanza con numerosi richiami alla tradizione giudaica sull’evento teofanico del Sinai: nel culto giudaico della legge, dunque, viene inserito il dono dello Spirito che porta a compimento la legge e l’alleanza.

Il nome «Pentecoste» è greco e vuol dire «cinquantesimo» (giorno); nella tradizione biblica ebraica invece è chiamata anche «festa delle messi», ma comunemente viene denominata «festa delle settimane», giacché cade sette settimane dopo Pasqua. In origine era una festa agricola delle primizie, ma fu da Israele storicizzata, cioè collegata a un evento importante della sua storia, che è il dono della legge fatto da Dio sul Sinai. In qualche modo dunque la Pentecoste era sentita come una festa di rinnovamento dell’alleanza.

Nell’anno 30 della nuova era, l’anno della morte e risurrezione di Gesù, la comunità giudaica festeggiava a Pentecoste il dono della legge. Cinquanta giorni dopo la Pasqua in cui Gesù era risorto, gli apostoli erano riuniti per festeggiare il ricordo della legge che Dio aveva donato al suo popolo Israele. L’evento di quel giorno ebbe per loro un chiaro significato di cambiamento e di passaggio: dalla legge allo Spirito.

Fortunatamente la versione CEI 2008 ha mutato la precedente traduzione, rendendo in modo corretto l’idea che il giorno di Pentecoste non sta per finire, ma segna il compimento di un tempo prefissato (2,1a). L’espressione iniziale indica che è arrivato il momento, si è colmato lo spazio di separazione tra Pasqua e Pentecoste, cioè è venuto quel giorno significativo: la stessa formula ricorre anche in Lc 9,51 – che segna l’inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme – e serve a Luca per indicare l’inizio del nuovo viaggio, quello decisivo per la Chiesa.

Per la descrizione della comunità riunita Luca impiega un’espressione tecnica di tipo liturgico che designa l’assemblea convocata per la preghiera: «Tutti insieme nello stesso (luogo)». Ha un significato locale, ma soprattutto personale: erano insieme concordi, unanimi, spiritualmente uniti. Tale sottolineatura sembra derivare da Es 19,8 («tutto il popolo rispose insieme»), perché diversi particolari lasciano intendere che il narratore vuole presentare la comunità cristiana come l’assemblea israelitica del Sinai, a cui richiamano i vari fenomeni teofanici. Non viene detto che ci fu vento, ma che il fenomeno percepito fu quello di un suono, paragonabile a una raffica di vento: di conseguenza ‘tutta’ la casa viene riempita, come del Sinai si dice che ‘tutto’ il monte era fumante. Anche per le fiamme si tratta di un’immagine: non c’è del fuoco, ma una realtà con forma di lingua e assomigliante al fuoco, cioè una specie di fiamma che si insedia su ciascuno, ne prende possesso e comunica la fiamma della parola. Il paragone con le lingue serve per anticipare il carisma straordinario che permette agli apostoli di essere capiti da tutti.

391 - GUIDATI DALLO SPIRITO SANTO - 27 MAGGIO 2012 - Pentecoste

(Atti 2,1-11 Galati 5,16-25 Giovanni 15,26-27;16,12-15
Il dono dello Spirito sostiene la nostra vita di credenti in Gesù. La testimonianza cristiana potrà comportare anche persecuzioni da parte del mondo. E difficoltà nel «rendere ragione della nostra speranza». Tuttavia sappiamo che lo Spirito di Dio che ci viene donato «rinnova la faccia della terra» in continuazione e rende fruttuosa, nonostante ogni contraria apparenza, la vita del cristiano.
La vita cristiana è vita nello Spirito di Dio. La spiritualità cristiana non è qualcosa di vago che determina un benessere fisico o psichico passeggero, ma è esperienza dello Spirito che Dio ci ha donato attraverso Gesù. La Pentecoste ha dunque una sua perenne attualità. Non solo perché non c’è assemblea liturgica in cui lo Spirito Santo non sia presente: non solo nell’ascolto della Parola e nell’esperienza dei sacramenti, ma in qualunque momento della sua vita il cristiano è e rimane ‘battezzato’, cioè immerso nello Spirito Santo. La Pentecoste, dunque, ci invita a riflettere anche sulla dignità che scaturisce per noi da questa presenza.
L’evento celebrato nella festa di Pentecoste non è raccontato nel vangelo, ma all’inizio degli Atti degli Apostoli, in cui si mostra come la festa già esistente nella tradizione ebraica venga ad assumere un nuovo significato nella comunità cristiana. Particolare accento possiamo cogliere nell’unità creata dallo Spirito nella diversità delle genti: in questo evento è prefigurata la Chiesa. Pentecoste è il compimento della Pasqua e lo Spirito Santo, rende fruttuosa la vita del cristiano (seconda lettura) e guida la comunità a tutta la verità, è il sigillo della redenzione pasquale operata da Gesù Cristo.

SEQUENZA ALLO SPIRITO SANTO

Vieni Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.

Vieni Padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori.

Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.

Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.

O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli.

Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò ch’è sviato.

Dona ai tuoi fedeli che solo in Te confidano i tuoi santi doni.

Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen! Alleluia!

PREGHIERA - È lo Spirito il dono che tu, Gesù risorto, fai alla comunità dei discepoli. È lui che li condurrà a comprendere progressivamente il senso degli eventi e delle parole che hai loro rivolto. Non è possibile entrare dentro un Mistero così grande, così bello e così profondo, magicamente, in un solo momento.
Ecco perché verranno guidati, giorno dopo giorno, con pazienza, a discernere la tua volontà in un mondo complesso e confuso in cui non è sempre facile orientarsi.
Ecco perché potranno accogliere le tante sorprese che si troveranno davanti, senza timori e senza pregiudizi, senza preconcetti e senza sospetti.
Ecco perché sapranno riconoscere anche nei disagi e nelle sfide, negli ostacoli e nelle persecuzioni, delle autentiche occasioni di grazia che li obbligano a convertirsi e a fare posto al nuovo, senza rumore.
Grazie, Signore risorto, perché mediante lo Spirito tu rincuori i discepoli, li difendi nel tempo della prova, li desti nel giorno della vigilanza, li rialzi quando sono caduti, li sostieni nel rendere ragione della loro solida speranza.

sabato 19 maggio 2012

390 - L’ESALTAZIONE DEL RISORTO - 20 MAGGIO 2012 – Ascensione del Signore

(Atti 1,1-11 Efesini 4,1-13 Marco 16,15-20)
C’è una pedagogia nella scelta della liturgia della Chiesa, Madre e Maestra, di differenziare la Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste. L’unico Mistero viene offerto gradualmente, per aiutare i fedeli a coglierne la grande ricchezza. Ma l’unitario evento di grazia non va ‘separato’.

Anche la sobrietà con cui le Scritture presentano l’Ascensione stimola a non sostare sulla notizia protocollare di un fatto in sé non riproducibile, non rappresentabile, ma a dischiudere il significato teologico ed ecclesiologico-missionario dell’esaltazione di Gesù come ‘Signore’ della storia. Quel Gesù, apparentemente fallito, è invece il Salvatore di tutti: è il capovolgimento dei criteri della logica dell’attuale mondo. La storia non è un cammino senza senso e verso il nulla, ma tende al suo compimento. Solo il cristianesimo ha osato collocare un corpo d’uomo nella profondità di Dio, come riscatto di ogni vera umanità donata. Ecco la bella notizia per tutti, in particolare per gli umiliati e offesi nella loro dignità umano-divina.

Per Benedetto XVI il Gesù che si congeda «non va da qualche parte su un astro lontano. Egli entra nella comunione di vita e di potere con il Dio vivente, nella situazione di superiorità di Dio su ogni parzialità. Siccome è presso il Padre, Egli non è lontano, ma vicino a noi. Ora non si trova più in un singolo posto del mondo come prima dell’ascensione; ora, nel suo potere che supera ogni spazialità, Egli è solo uscito dal nostro campo visivo, ma è presente accanto a tutti ed è invocabile da parte di tutti e in tutti i luoghi» (Gesù di Nazaret, pp. 314-315).

La Chiesa accoglie e diffonde l’ultimo atto del Risorto sul mondo: la benedizione. Fino alla Pasqua, Gesù è il protagonista assoluto, mentre gli apostoli sono spettatori sbalorditi di quanto lui ha operato. Ora i discepoli diventano attivi per la prima volta: con libertà si sottomettono alla missione, partendo dall’ascolto della Parola. Gesù vuole rinnovare la sua Pasqua in noi, cioè passare incessantemente in tutti i pensieri, in tutte le parole e in tutte le opere dell’esistenza del credente. Tutta la vita dovrebbe risultare un ininterrotto ‘tempo pasquale’, fatto di comunione intima con Cristo e di nuovo entusiasmo per il nostro quotidiano. Nel credente che ospita veramente in sé il Risorto, tutto riprende vita e tutto produce vita, tutto porta alla vita.

La Chiesa vive della fedeltà al Signore: riposa (non dorme) sulla Parola, vive (non sopravvive) della Parola, obbedisce (sempre senza ‘se’ e senza ‘ma’) alla Parola, tutto inizia (non ritarda) con la Parola. La Chiesa non piega il Vangelo alle nostre convenzioni sociali (modernità) né lo conforma ai tempi (relativismo). È essenziale essere nel pensiero di Gesù, desiderare le sue promesse, non anelare ad altro. Questo genera una grande pace e aiuta a purificare le proprie intenzioni, per cercare solo la volontà di Dio, senza cedere alla virulenza delle proprie passioni incontrollate e delle proprie miopie pastorali.

La Chiesa è chiamata a portare una Parola che non ha perduto il suo fascino creativo e miracoloso, che a tutti giova e nessuno offende, che tutti può rendere migliori e salvare. La missione della Chiesa «non è quella di far trionfare la verità, ma di essere suoi testimoni» (H. De Lubac), per renderla più viva e a tutti visibile. È tempo di dilatare e costruire, non di raccogliere.

PREGHIERA - Signore Gesù, tu ascendi al Padre tuo ma questo non vuol dire che abbandoni la nostra terra. Anzi, i tuoi discepoli hanno la certezza di poter contare su di te in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.

Ecco perché tu li invii in missione e affidi loro il compito di portare dovunque il tuo Vangelo. Gli ostacoli non mancheranno e tuttavia non si sentiranno abbandonati a se stessi.

Tu li metti in grado di parlare un idioma internazionale, il linguaggio dell’amore. Tu li rendi immuni da qualsiasi cattiveria, da qualsiasi veleno, capaci di attraversare anche le zone più infide senza perdere la fiducia e la pace del cuore.

Tu trasmetti loro il potere di risanare e di guarire, di liberare gli uomini da quanto rovina la loro vita. Attraverso di loro tu chiami alla fede coloro che accolgono la Buona Notizia della salvezza e si lasciano condurre e cambiare dalla tua parola.

389 - L’AMORE PIÙ GRANDE … DARE LA PROPRIA VITA

Per una pausa spirituale durante la Sesta Settimana di Pasqua

Giovanni 15,9-17 segue immediatamente la pericope che parla della vite e i tralci (15,1-8) e ci propone il modo migliore di applicare il rapporto che Gesù vuole tra sé ed i suoi discepoli. All’invito «Rimanete in me» (v. 4) subentra ora un’altra esortazione: «Rimanete nel mio amore» (v. 9).

L’origine di tutto è l’amore (agápē) del Padre, effuso sul Figlio, il quale lo ha dimostrato nei confronti dell’umanità. I discepoli di Gesù hanno potuto sperimentare personalmente la sua agápē, cioè la sua capacità autentica di relazione, di legame buono e affettuoso, di disponibilità accogliente nei confronti dell’altro. Ne hanno fatto l’esperienza perché sono entrati di fatto in questa dinamica dell’affetto che accoglie: hanno ricevuto la possibilità di amare nel modo con cui sono stati amati. L’impegno che Gesù affida loro dunque è custodire il dono, rimanendo radicati e fondati nella comunione trinitaria che li ha avvolti e trasformati. Non chiede loro di conquistare o guadagnarsi l’amore di Dio, bensì di conservare ciò che è già stato dato.

«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (v. 10). Il vocabolo ‘comandamento’, oltre a richiamare i «Dieci comandamenti», suona un po’ troppo come ordine; l’originale greco «entolḗ» ha una sfumatura più delicata, che possiamo chiarire attraverso l’etimologia. Composto dalla preposizione en (= ‘in’) e dalla radice del verbo téllō (= ‘mettere’), il termine corrisponde all’italiano «proposta» o – ancora meglio – all’inglese input: evoca quindi una parola che mette dentro all’ascoltatore una spinta all’azione, una raccomandazione che offre una possibilità buona di vita. I comandamenti di Gesù infatti coincidono con la proposta del suo amore e non sono imposizione esterna di precetti da eseguire con le proprie forze umane: l’amore con cui il Figlio ha amato i discepoli produce un effetto, li rende cioè capaci di fare altrettanto. La forma plurale («i miei comandamenti») può alludere alle varie parole dette da Gesù e ai vari modi con cui egli ha mostrato di amarli. Ma certamente coincide con la formula al singolare, adoperata in precedenza, che bene riassume questa fondamentale idea giovannea: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). La novità sta nel dono dell’agápē: l’amore del Padre è stato donato al Figlio, Gesù l’ha donato agli uomini, rendendoli così partecipi dello stesso legame divino e capaci di intessere nuovi e buoni legami umani.

Compito dei discepoli è «custodire» (tēréō) tale dono. L’espressione giovannea è molto più ricca di quel che in italiano suona «osservare i comandamenti»: non si tratta di eseguire degli ordini, bensì di custodire un dono, conservare una relazione, accogliere e vivere la logica della relazione generosa.

«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v. 11). La parola che Gesù ha rivelato ai suoi è fonte della gioia. Come comunica il «suo» amore, così trasmette anche la «sua» gioia (chará). La gioia promessa da Gesù è ciò che san Tommaso d’Aquino definisce come gaudium, ovvero «la presenza del bene amato». Quando è presente, un bene amato produce gioia; chi, incontrando Gesù, lo riconosce come il vero bene, il sommo Bene, e a lui aderisce personalmente con tutto il cuore, si scopre sorpreso dalla gioia. La gioia non sta nelle concrete situazioni della vita, ma piuttosto nella comunione di vita con Gesù Cristo, perché il premio è lui stesso. La gioia sta nell’essere con Cristo: questa è infatti per ogni persona la possibilità di raggiungere la pienezza di vita, così come è l’origine dell’amore vicendevole.

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (v. 12). Con la stessa espressione di Gv 13,34 viene ribadito che l’amore di Gesù non è solo ‘modello’, ma soprattutto ‘causa’ dell’affetto vicendevole fra i discepoli: l’agápē rivelata dal Messia rende coloro che l’accolgono capaci di uno stile analogo. E prosegue precisando in che cosa consiste tale amore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (v. 13). Qualcuno potrebbe osservare che sarebbe ancora più grande «dare la vita per i propri nemici»: ma questo è proprio ciò che intende dire Gesù. Infatti Egli ha dato la propria vita per quelli che non si meritavano nulla, come spiega bene san Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Gesù è morto per i nemici, affinché diventassero amici: l’amore di Cristo trasforma i nemici in amici. Questa è la grandezza dell’agápē di Dio!

Divenuti amici per grazia, gli uomini sono esortati a custodire il dono e a rimanere in tale disposizione, vivendo di fatto ciò che è stato proposto (cfr. v. 14). «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (v. 15). Gesù, rivelatore del Padre, ci ha fatto conoscere i segreti del cuore di Dio: da questo comprendiamo che ci ha trattato da amici, dal momento che gli aspetti più preziosi della nostra vita interiore li comunichiamo solo ad un amico autentico di cui si ha grande fiducia, a cui si vuole bene. Non ci ha trattati da servitori, a cui si danno solo indicazioni di cose da fare, ma ci ha aperto il suo cuore, mettendoci a parte della sua intima relazione con il Padre e con lo Spirito. All’origine di tale relazione d’amicizia c’è la libera scelta del Signore, l’iniziativa è la sua: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (v. 16a). Ci ha trattati da amici, ci ha fatti diventare amici. È necessario quindi rimanere amici!

«Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (v. 16b). Ritorna a questo punto il tema della vigna (cfr. Gv 15,5.8) e si precisa nuovamente che l’obiettivo è «portare frutto». Non si tratta però di prospettiva aziendale di massimo rendimento; il frutto sta nel diventare discepoli ovvero amici, il grande frutto consiste in una vita profondamente legata al Cristo con tutti i benefici che ne conseguono. Perché se uno è in Cristo, chiede al Padre proprio quello che egli vuole e quindi ottiene tutto (v.16c). La scelta operata da Gesù è finalizzata appunto a tale amore comunitario capace di restare. L’origine di tutto è l’amore comunitario di Dio, il fine di tutto è l’amore comunitario umano. La storia della salvezza parte di lì e lì vuole arrivare. Dopo aver ricamato sugli stessi temi, l’abilità dell’evangelista porta al culmine la sezione, riprendendo il tema fondamentale: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (v. 17).

388 - “AMATEVI COME IO VI HO AMATO”

Per una pausa spirituale durante la Sesta Settimana di Pasqua


La proposta di Cristo di amare come lui ama è una provocazione per l’attuale cultura che predilige soluzioni rapide e desiderio imperante di libertà assoluta. La smania di tenersi sempre connessi fa sì che le relazioni siano sostituite dai contatti virtuali, cioè anonimi. I social network sembrano invitare a bypassare la dimensione più bella e complessa che è quella dell’incontro personale e della fatica di guardare l’altro negli occhi.

Nell’epoca delle ‘passioni tristi’ va ricercato un nuovo stile nei rapporti (coppia, famiglia, Chiesa, città), la cura dei legami, l’incontro con le persone nella scoperta della loro ricchezza. È tempo di educare alla relazione come strumento di crescita, attraverso il guardarsi e l’ascoltarsi, il rispettarsi e l’aiutarsi. È il momento di apprendere a stare con gli altri in maniera onesta e positiva per elaborare insieme regole più umanizzanti di convivenza e di costruzione della ‘casa comune’. Al conformismo e al consumismo del mordi-e-fuggi e della finzione, va sostituito il coraggio dell’agápē, che fa sentire nel proprio cuore la piaga bruciante nella carne dell’altro e che fa decidere di prendersi a cuore l’altro, nella varietà dei ruoli e delle responsabilità. Lo Spirito stimola alla condivisione e alla fantasiosa onnipotenza dell’amore. Anche la sproporzione delle sfide e il senso della propria impotenza non possono far arrendere al fatalismo o ripiegare nel quietismo. Il Figlio di Dio bandisce ignoranza e oblio, estraneità e pigrizia nei confronti degli altri, fratelli di fede e bisognosi.

Esistono almeno quattro modi di rapportarsi agli altri:

1. Essere ‘tra’ gli altri. È la modalità più povera della relazione umana, non ha interazione e reciprocità: si sta fra gli altri come se fossero cose, con una distanza emotiva che li rende estranei; non si vuole male, ma si ignora tutti e tutto, si è indifferenti e anonimi.

2. Essere ‘con’ gli altri. È la dimensione della relazione affettiva, fatta di attenzione e di ascolto, di tenerezza e di sintonia profonda. È motivo di gioia incontrare l’altro con le sue doti e i suoi limiti, come essere ‘altro’ da noi, compreso anche il conflitto, come passaggio alla negoziazione di un significato comune.

3. Essere ‘per’ gli altri. È la consapevolezza di non poter essere felici da soli. Senza rinunciare alla propria individualità, si supera l’egoismo, ponendo liberamente il proprio baricentro fuori di se stessi, nell’apertura all’altro, nel dono di sé e nel servizio gratuito.

4. Essere ‘in’. È l’originario orientamento di ogni persona a Dio. Il senso dell’esistenza umana sta nella sua auto-trascendenza, nell’apertura costitutiva a Qualcuno che sta al di sopra e al di là di se stessi, nell’adesione all’Amore infinito che dà pieno compimento alla propria finitudine. Solo Dio è l’appagamento della sete d’amore di ognuno, il riposo ultimo di ogni cuore in ricerca.

Gli uomini sono angeli dotati di un’ala soltanto, diceva il vescovo T. Bello: possono volare solo rimanendo abbracciati. Nel volo della vita è fondamentale avere sia l’ala dell’altro sia quella di Dio, il quale sostiene e guida entrambi. La novità di Gesù è la sinfonia dell’unico amore a Dio e al prossimo. Scriveva M. Delbrêl: «La carità fraterna è come un viadotto ad una sola arcata, che lega Dio e gli uomini. Questa arcata non la si può dividere. Come un biglietto di andata-ritorno è un unicum». Con la consapevolezza che non vi è modo di amare tutti gli uomini senza amare quelli che si conoscono di un amore concreto, di un amore attivo. Sant’Agostino esorta: «Quando ami, corri. I tuoi piedi sono il tuo amore. Quali sono questi due piedi? I due comandamenti dell’amore: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Corri con questi due piedi verso Dio». Attenti, dunque, a non zoppicare!

Per costruire la Chiesa è necessario che la maggioranza dei suoi membri operi il passaggio da «la comunità per me» a «io per la comunità», dai propri interessi a quelli della comunità. Non c’è vera comunità se non quando si cerca la pienezza, la pace e la felicità di tutti gli altri. Due sono i virus mortali per la comunità cristiana. Il primo è rappresentato da chi viene considerato ‘nemico’: quanti sono in disaccordo con noi, ci emarginano e noi ignoriamo, criticano sempre e ci innervosiscono. Questo spirito di inimicizia genera fazioni, con tensione e aggressività, e trascina la comunità all’autodistruzione. Il secondo virus è dato dall’eccesso di amicizia e di simpatia umana, che porta alla chiusura agli altri, alla routine e alla mediocrità, alla mancanza di cammino di maturazione personale ed ecclesiale. In entrambi i casi prevale la comunità ‘psichica’, cioè costruita su criteri umani, psicologici e sociologici, funzionali.

La Chiesa invece nasce dall’Alto, dal cuore di Cristo crocifisso e dalla Pentecoste, dalla conversione profonda. La Chiesa è ‘miracolo’, ‘novità’ cioè opera dello Spirito che cambia i cuori e li rende capaci di amare tutti i membri della comunità, indipendentemente dall’età e dall’origine, dal carattere e dal ministero svolto. Più una comunità è varia per abitudini, mentalità e servizi e più testimonia la presenza del Risorto tra i fratelli di fede. Lo Spirito rivela la comune chiamata di Dio alla festa, l’alleanza primaria con Gesù, l’accettazione dell’altro non idealizzato, l’esercizio del perdono in vista della sopportazione e dell’aiuto vicendevole, la sincera collaborazione al servizio variegato della missione.

sabato 12 maggio 2012

387 - L’AMORE È IL DONO DEL RISORTO - 13 MAGGIO 2012 – Sesta Domenica di Pasqua

(Atti 10,25-48  1ªGiovanni 4,7-10  Giovanni 15,9-17)
L’amore è il dono del Risorto e il segno distintivo dei cristiani. San Paolo afferma che «la realtà è Cristo» (Col 2,17) e dunque occorre provare a pensare e a vedere Cristo in tutti e in tutto. Realista è chi costruisce la storia su questo fondamento, Cristo. La realtà di Cristo è sempre lo spazio creativo dell’amore. «Andare avanti» nella vita cristiana significa sempre «andare dentro» le profondità dell’Amore. Solo amando si possono toccare le profondità della realtà di Cristo, perché si entra nell’amore gratuito di Dio per l’umanità, nell’amore sorgivo del Padre, nella gratuita comunicazione che il Figlio di Dio ha fatto di se stesso donandosi agli uomini, nella fecondità dell’amore divino che è lo Spirito Santo; in un cuore trinitario, in un abbraccio: si entra nel mistero.
L’attenzione cade sul «come io ho amato voi». Cristo, che ha donato totalmente la propria vita, diventa il modello del rapporto con gli altri. Il comandamento di Gesù è lui stesso, la stessa vita: è come se dicesse: «Se ami, allora vivrai come me», una vita buona e riuscita, felice e costruttiva. L’amore generato dallo Spirito spinge a donarsi, non proietta fuori di sé, alla ricerca di ciò che non si ha, non si è e non si può. L’ira e l’odio, il giudizio sugli altri e la paura, l’egoismo e la lamentela, fanno perdere il controllo e l’armonia di sé, tolgono piacere alle scelte, innescano l’autodistruzione, scagliano sempre fuori di sé e impediscono il collegamento con Gesù. Si tratta invece di ‘rimanere’ nell’Amore, di restare uniti a Gesù perché egli possa essere presente nei credenti con tutta la sua energia vitale.
Amando come Gesù si evitano due rischi: il ‘mipiacismo’ e il ‘migiovismo’. Il primo male appartiene alla cultura del diletto, di ciò che piace: è la scuola dell’egoismo e del relativismo, con al centro l’io e non Cristo.
Il secondo male è il frutto della cultura del giovamento. È lecito ciò che giova al singolo: è utilitarismo sfrenato, indipendentemente dal discernimento di ciò che è oggettivamente bene o male. È la via dell’illegalità e della devianza.
Dalla parola gratis ne derivano due completamente opposte: gratificazione e gratitudine. Il cristianesimo della gratitudine, della gratuità, è dei generosi di cuore che danno la vita per la Chiesa, per gli ultimi, per i fratelli. Il cristianesimo della gratificazione è incentrato sulla ricerca orgogliosa di se stessi, sulla pretesa e sulla contabilizzazione (dare per avere, accumulo), senza oblazione del proprio tempo e delle proprie capacità. Questo sfigura la persona e genera una perdita di umanità.
Cristo testimonia che non basta non fare il male, occorre compiere il bene. Non c’è solo passività, ma ci deve essere attività nello Spirito, un di più nello Spirito. Dio non dice solo ‘date’, ma date ‘con larghezza’; non dice solo ‘aiutate’, ma aiutate ‘con sollecitudine’; non dice ‘fate opere di misericordia’, ma fatelo ‘con allegrezza’; non dice solo ‘amate’, ma amate ‘sinceramente’; non dice solo ‘astenetevi dal male’, ma ‘odiatelo’; non dice solo ‘attenetevi al bene’, ma ‘aderitevi con il cuore’. Ecco il fervore che scaturisce dalla relazione personale e comunitaria con Cristo.
PREGHIERA - Tu non vuoi, Gesù, che la nostra relazione con te sia all’insegna dell’effimero: tu ci chiedi di viverla nella trama quotidiana dei giorni, nella solidità e nella fedeltà che sfidano il tempo.
Tu non ci offri, Gesù, contatti eccezionali, seppur sporadici, ma un amore durevole, una fiducia a tutta prova, un legame indissolubile che, se lo vogliamo, nulla e nessuno potrà mai spezzare.
E ci chiedi di passare dalle parole ai fatti: di mostrarci obbedienti ai tuoi comandi proprio come hai fatto tu che hai accolto la volontà del Padre tuo anche nell’ora oscura dell’angoscia e del dolore. Come il tuo amore si è reso visibile e concreto nella nostra storia, così tu ci inviti a rendere la nostra risposta autentica e credibile nello spazio della nostra esistenza.
Donaci, allora, un amore generoso e perseverante che non viene meno nel tempo della prova quando gli viene chiesto di sacrificarsi.

386 - LA VITE E I TRALCI

All’inizio del capitolo 15 di Giovanni troviamo la grande immagine della vigna, che riprende le ricche tradizioni di questa similitudine nell’Antico Testamento. Isaia aveva composto il canto della vigna parlando del suo diletto (Is 5,1-7); i salmi vi avevano fatto riferimento, uno in modo particolare (Sal 79/80) celebra la vigna che è Israele e proprio in riferimento a queste immagini bibliche Giovanni elabora l’allegoria cristologica della vite, intesa non tanto come una singola pianta, bensì come una vigna, cioè un insieme organico di viti.
Il discorso inizia con una tipica formula giovannea di autopresentazione cristologica con l’aggiunta importante di un riferimento anche a Dio Padre: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore» (v.1). Nell’Antico Testamento Dio era presentato come il proprietario della vigna, ovvero il contadino che l’ha piantata e la cura, mentre con l’immagine della vigna era rappresentato il popolo. Adesso è Gesù stesso a presentarsi così, in quanto riassume in sé la storia di Israele: è lui quel virgulto nuovo, quella nuova piantagione che comprende in sé l’intera umanità. Perciò delinea con una serie di immagini agricole la vicenda dell’umanità in rapporto con Dio in quanto legata a Gesù Cristo. Non si può infatti essere il popolo di Dio a prescindere da Gesù Cristo.
Come definendosi «pastore» (Gv 10,11.14) ha aggiunto l’aggettivo «kalós» (= ‘bello’), così ora al termine «vite» aggiunge l’aggettivo «alēthin» (= ‘vera’). Nel linguaggio giovanneo tale qualifica fa riferimento all’idea di rivelazione, perché la verità (in greco: altheia) è Gesù in persona, in quanto rivelatore del Padre. Perciò precisare che egli è la vera vite significa che tale allegoria è un’immagine di rivelazione, cioè aiuta a capire chi è Gesù e chi è Dio: il Padre è l’origine e il curatore, colui che ha piantato la vigna e la coltiva, colui che opera affinché porti frutto; il Figlio a sua volta si rivela come l’autentico Israele, realizzazione delle promesse profetiche a favore dell’umanità, reale possibilità di frutto.
L’attenzione di Giovanni non è però rivolta all’antefatto della vigna, ma all’attuale condizione in cui si realizza o no la fruttificazione. L’impostazione dell’intero discorso è di tipo allegorico, in quanto ad ogni particolare dell’immagine agricola corrisponde un analogo elemento della realtà personale: ha già detto che il Padre è l’agricoltore e Gesù la vite; poco dopo (v. 5) dirà che i discepoli sono i tralci. A questo punto è importante la presentazione di alcune tipiche azioni di viticultore: il taglio dei tralci infruttuosi e la potatura dei tralci fruttuosi.
Al centro dell’attenzione sta infatti il frutto, cioè il fine della vite stessa: che cosa significa in questa comparazione allegorica? Vi si può riconoscere il risultato concreto dell’opera compiuta dal Cristo, ovvero l’effetto prodotto dalla rivelazione di Gesù, dal fatto che egli comunica a noi il suo Spirito e la sua vita divina. Il frutto è chiarito nel v. 8 – alla fine della pericope – tramite il riferimento al ‘discepolato’: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Il linguaggio della «gloria» in Giovanni indica la presenza potente e operante di Dio stesso nelle vicende storiche e umane: quindi in questo contesto comprendiamo come Gesù voglia dire che l’efficace azione di suo Padre si riveli nel fatto che gli uomini portino molto frutto, cioè diventino discepoli del Figlio. «Discepolo» (mathēts) è colui che «impara» (manthánein): la docilità all’insegnamento di Gesù, l’accoglienza della sua parola, l’accettazione di lui in persona come parola (Lógos) di Dio porta ogni uomo ad assimilare la stessa vita divina. Tale disponibilità a diventare discepoli del Figlio consente l’efficacia dell’opera divina e trasforma effettivamente la persona umana.
Perciò si comprende l’imperativo centrale: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Il verbo «rimanere» (ménein) è fondamentale in questo discorso e nella teologia giovannea, dal momento che esprime l’immagine piena della comunione fra Gesù e il Padre, fra Gesù e l’umanità. Fin dall’inizio del racconto l’evangelista ha messo sulle labbra dei discepoli la domanda decisiva: «Maestro, dove rimani?» (Gv 1,38). Si rivolgono a lui, chiamandolo ‘maestro’ (didáskale), proprio perché vogliono imparare da lui; e la prima cosa che vogliono imparare non è il suo indirizzo di casa, bensì la consistenza della sua vita. Quel giorno «rimasero» con lui (Gv 1,39) come inizio di un processo che deve portarli ad una mutua e profonda comunione di vita. Tale linguaggio, che percorre tutto il vangelo di Giovanni, riguarda la nostra relazione personale con Gesù, riconoscendo che solo in stretta unione a lui possiamo arrivare al Padre e realizzare la nostra vita. «Senza di me non potete far nulla!» (v. 5).
L’azione di dimorare rimanda al tema dell’ascolto. L’autentico discepolo anzitutto ascolta la parola del maestro e poi la custodisce con l’intento di attuarla nella vita. Tale procedimento è proposto con la variazione dello stesso verbo: «Se le mie parole rimangono in voi» (v. 7). In questo caso c’è una perfetta unità di intenti e di vita fra il Cristo e i suoi discepoli, cosicché – volendo quello che anch’egli vuole – si rivolgono al Padre nella preghiera, certi di realizzare l’unico progetto divino.
In tale prospettiva possiamo chiarire le immagini allegoriche della vite. Il tralcio non è autonomo, non può fruttificare da sé; deve rimanere nella vite per portare frutto. Così il discepolo, che accoglie la parola di Gesù e la custodisce con docilità, può sperimentare nella propria vita l’opera divina che trasforma e conforma al Figlio. Al contrario il discepolo che non aderisce in tal modo al Cristo, resta infruttuoso; di conseguenza viene tagliato e gettato via, per cui si secca e non gli resta altro che essere bruciato nel fuoco (allusione allegorica al giudizio di condanna finale).
Una terza via è rappresentata dalla potatura, operazione molto importante che l’esperto viticultore compie per permettere una grande produzione. Gesù si dimostra attento osservatore della vita comune e delle azioni umane, in cui riconosce importanti analogie con l’azione divina. I contadini hanno condensato la loro esperienza al riguardo in un proverbio del genere: «Più gliene togli, più te ne dà». Anche se, quando viene potata, «piange come una vite», quei tagli esperti producono
infatti effetti benefici e garantiscono un frutto abbondante. Tale particolare agricolo è applicato allegoricamente alla dinamica della vita cristiana, ricordando che il verbo tradotto con «potare» in greco è «purificare» (kathairêin): la parola che Gesù annunzia ai discepoli li rende «puri» (katharói), ovvero rimuove lo scarto e rende possibile il frutto (v. 3). Eppure tale opera di purificazione non è fatta una volta per tutte, ma richiede continuità nel tempo, fino a raggiungere l’obiettivo della perfetta somiglianza. Lo stesso linguaggio ricorre ancora nell’episodio della lavanda dei piedi, dove Gesù riconosce che i discepoli sono «puri, ma non tutti» (cfr. Gv 13,10): pur avendo fatto il bagno, hanno ancora bisogno di essere lavati ai piedi, per divenire veramente puliti.

sabato 5 maggio 2012

385 - IO SONO LA VITE VOI I TRALCI - 06 MAGGIO 2012 – Quinta Domenica di Pasqua

(Atti 9,26-31  1ªGiovanni 3,18-24  Giovanni 15,1-8)
 Quello che Gesù è venuto a presentarci è una Notizia del tutto nuova, bella, talmente sconvolgente che a noi appare paradossale. Egli non ci presenta infatti una religione, intesa come insieme di pratiche, di atteggiamenti che l’uomo deve fare nei confronti di Dio, ma una fede: dove con questo termine intendiamo l’accoglienza di Gesù Dio-con-noi. Un Dio che si è fatto come noi per farci come lui.
Ci sono due cammini diversi: in tutte le religioni l’uomo è orientato a Dio e scopo della sua esistenza è servire Dio; tutto quello chefa lo fa per Dio. Con Gesù, invece, è Dio che prende l’iniziativa, che invade con la sua bontà, che vuole comunicare tutto il suo amore all’uomo per diventarne l’intimo amico. Questo è l’obiettivo della vita del credente: fondersi con Dio, il che non significa essere diminuiti ma potenziati. È Dio che comunica la sua forza. Non un Dio che assorbe le energie dell’uomo, come nelle antiche religioni, ma comunica loro le sue. L’uomo allora cosa deve fare? Non deve fare altro che espandersi verso gli altri uomini: con Dio e come Dio il cristiano va verso gli altri.
Dio non è più solo il traguardo dell’uomo, ma è all’inizio, la fonte; con lui e come lui si può andare verso il prossimo. L’Eucaristia è il momento privilegiato per la comunità cristiana, nel quale Dio si mette al nostro servizio per comunicarci la sua stessa forza.
La vera insidia per la fede oggi non è tanto la persecuzione quanto l’evanescenza della figura di Cristo. Essa si esprime sia tramite l’indifferenza o la non-incidenza di Cristo nella vita delle persone, sia tramite la stima-rispetto ma come per un personaggio da museo: illustre ma ormai superato: non il Vivente, ma ‘il Vissuto’ in un tempo lontano e diverso dal nostro.
A livello di fede questa evanescenza si manifesta nella riduzione della esperienza cristiana a ‘ispirazione, insegnamento, condotta, valori’. Cose importanti ma che non possono sostituire il rapporto con Colui che ha detto: «Senza di me non potete fare niente». Ci si ferma così al suo insegnamento morale o di vita, o alle pratiche religiose ‘cristiane’; oppure si vive la sequela in modo moralistico, riducendola a un corretto comportamento. Tutto questo fa certamente parte dell’esperienza cristiana, ma prima di tutto c’è l’essere innestati a Cristo. Senza di questo la fede non tocca il fondo del nostro essere, ma solo la periferia. Una simile sequela non sarà trascinante, piena di energia, gioiosa, creativa. Così facendo, disattendiamo dunque la natura vera del rapporto di Gesù con noi, che è quello della vite con i tralci, un rapporto di comunione in cui la buona linfa della sua vita nutre e sostiene la nostra esistenza. La liturgia odierna intende aiutarci a riscoprire la singolarità del rapporto che lega Cristo a ciascuno di noi e a rinnovare la nostra adesione di appartenenza e di sequela.
Gesù è riuscito a sintetizzare tutto quanto detto sopra con una splendida immagine: la vite e i tralci. Ogni affermazione della odierna pagina evangelica è profonda e densa di significato. Il vignaiuolo è il Padre. La vite è Gesù. I tralci siamo noi. L’uomo dei campi guarda la sua vigna con gli occhi dell’amore. Essa è la sua opera d’arte e la pensa come fonte della sua speranza. La lavora e la protegge, la difende dai predatori e su di essa costruisce la sua vita. Così Cristo guarda e protegge noi, come frutto del suo amore, come speranza quotidiana. Di più: Gesù vuole entrare in intimità con ciascuna persona, essere bevanda di vita, ricca di forza vitale e donatrice di consolazione e di gioia. Il vino nell’antichità era considerato un elisir di vita e una bevanda di immortalità. Per questo motivo in nessun banchetto poteva mancare un calice di vino. Nell’ultima cena Gesù si è fatto nostra bevanda: come l’uva viene schiacciata nel torchio per diventare fonte di vita, così Gesù dona persino il suo sangue per donarci una vita piena e gioiosa. Il segreto della nostra esistenza è di rimanere uniti a lui!
PREGHIERA - Ognuno di noi, Gesù, desidera che la sua vita sia feconda e porti un frutto buono ed abbondante. Ognuno di noi vorrebbe sfuggire ad una sterilità che mortifica e rende inutile la sua esistenza. Ognuno di noi si attende di poter esprimere il meglio di se stesso, quanto di più prezioso e nobile si porta dentro.
Eppure tutto questo non è possibile se non rimaniamo uniti a te, se ci lasciamo afferrare dall’illusione di poter fare da soli, contando unicamente sulle nostre forze. Liberami, dunque, Signore, dall’orgoglio che non mi permette di riconoscere le mie debolezze. Liberami dalla presunzione di non aver bisogno di te e degli altri, della tua grazia e del loro aiuto.
Donami la gioia di accogliere con rinnovata riconoscenza la linfa vitale che tu immetti nel circuito della mia vita. Donami la perseveranza che mi induce a rimanere attaccato a te anche quando arriva il tempo doloroso della potatura e non solo la festa del raccolto.

384 - DIO CHIAMA ANCHE OGGI … BASTA ASCOLTARLO!

Per una pausa spirituale durante la Quarta Settimana di Pasqua
 Immersi nella ‘modernità liquida’, anche il solo dirsi cristiani è una sfida: è facile per tutti essere «cristiani inaffidabili, vaporosi». La tentazione è di avere più facce, come Giano Bifronte, forse la migliore icona del presente. Credere all’impossibile consente di evitare l’aurea mediocrità propugnata dai quietisti, aridi in spirito e intelletto: il peggio che possa capitare a un giovane.
Seguire il Signore richiede umiltà e fiducia, decisione e fortezza, disciplina interiore e perseveranza. Il cristiano parte seguendo e finisce servendo. Come pastori o mercenari, si lasciano tracce molto differenti: si ‘è’ o si appare, si è fedeli o si vive alla giornata, si serve l’altro o ci si serve dell’altro. Oggi è molto perseguita la bellezza narcisistica, cosmetica, effimera, la quale non lascia trasparire la bellezza ‘altra’, quella del vero e del buono. Satana è ladro di esistenze e signore dei mercenari per denaro, potere e superficialità. Non è casuale che egli conosca e utilizzi a proprio vantaggio la potenza della bellezza fasulla. L’affidamento a Dio invece crea la bellezza di chi ama e opera per la comunione. È questa la via della felicità.
Anche tra i credenti pare diffusa una certa ‘avarizia/accidia’ spirituale, che tende all’isolamento non solo per non condividere, ma anche per non dipendere da alcuno. Un atteggiamento idolatrico, figlio della mancanza di fiducia in Dio. Antidoto all’avarizia spirituale sono anzitutto la conversione dei desideri, da sintonizzare su quelli di Cristo (il cristiano non si ispira genericamente ai ‘valori’), l’unità interiore della persona (la sequela è totalizzante e mai parziale) e la condivisione perché «nessuno ha il diritto di essere felice da solo» (R. Follereau). Ogni giorno occorre allenarsi nella testimonianza, decidendo di «essere in Cristo» come ‘stato di vita’, fino a giungere «alla misura dell’uomo perfetto» (Col 1,28). È proposto di vivere in se stessi la vita del Risorto: è la scelta del ‘con chi stare’ nel quotidiano. I Santi di ogni tempo testimoniano che il Risorto è più che sufficiente a riempire il cuore e a trasformare tutto: pensieri, sentimenti, progetti, passato-presente-futuro. Qui sta il senso vero di ogni vocazione: considerare e accogliere la vita come un dono da partecipare con animo libero e gioioso. Ogni ripiegamento autoreferenziale corrisponde ad uno spreco.
Per motivi economici e culturali, i giovani sembrano preferire scelte emotive, frammentate e non definitive (convivenze, lavori precari, timore della trasmissione della vita, aumento delle separazioni, appartenenze deboli, sincretismo religioso ecc.). Nel migliore dei casi, si sceglie il volontariato, importante ma reversibile. Solo una qualità alta della vita cristiana in famiglia, in parrocchia/movimenti/associazioni può favorire il fiorire di nuove vocazioni di speciale consacrazione e il sostegno a chi è già dedito totalmente al Signore. Ma questo vale anche per la vocazione al matrimonio e per altre vocazioni sempre meno abbracciate: quelle alla missione educativa e alla politica come servizio.
Su Cristo, pietra scartata dal mondo ma scelta da Dio come testata d’angolo, si può edificare con solidità e serenità la propria umanità. La Pasqua di Cristo è garanzia di riuscita, profezia del compimento dell’amore, superamento della paura, forza di un’unione più grande. In Cristo si possono dunque dire vari ‘sì’: alla vita, che va amata, difesa e diffusa; alla propria identità di maschio e di femmina, all’accettazione di sé nei pregi e nei limiti; all’opera della grazia, che tiene conto della natura umana e insieme la supera; alla Chiesa, luogo di perdono e di festa.
I grandi ‘sì’ definitivi passano attraverso i ‘sì’ semplici di ogni giorno. A partire dalla famiglia e dalla scuola, palestre delle decisioni future (l’importanza di accompagnare i ragazzi e i giovani, come pure gli adulti, nei ‘momenti di passaggio’: scelta della scuola, trasferimenti per ragioni di studio o lavoro, accettazione di nuove ‘presenze’ nelle relazioni familiari per separazioni e nuove unioni ecc.). L’ascolto della Parola, la preghiera personale, la frequenza ai sacramenti, la pratica della confessione e della direzione spirituale, la vita di corresponsabilità nel gruppo ecclesiale, il servizio vissuto con fedeltà predispongono ad un rapporto di amicizia tale col Signore che segna il progetto della propria esistenza.
Dio non si vede, ma si vedono i suoi figli. Guai se i cristiani sono mercenari, non sono più solidi e avvincenti nella proposta, attrattivi e convincenti nell’argomentazione, efficaci nella soluzione delle nuove emergenze culturali, sociali, politiche. Questo implica il ripensamento del ministero del parroco (da ‘tuttofare’ a maestro della Parola, confessore e direttore spirituale, guida pastorale significativa) e della parrocchia, casa di preghiera e scuola di comunione con Cristo e con gli altri. Va ripensata l’attuale impostazione della pastorale in generale e di quella giovanile in particolare.
Più si ascolta Gesù e più si matura una coscienza ecclesiale, cioè si avverte la gioia di essere Chiesa e si è più disponibili ad allargare la tenda del proprio cuore per accogliere altri fratelli. Diceva S. Agostino: «Cesseranno di essere nostri fratelli, quando non diranno più ‘Padre Nostro’». Per realizzare l’anelito di Cristo di un solo gregge e di un solo pastore urge uno spirito di vera ‘ascesi relazionale’ in vista di un’autentica comunione. Né faciloni nell’escludere altri dalla Chiesa, perché illusi di essere migliori degli altri, né qualunquisti nell’accesso ad essa. Ai vicini, che sono pochi, è affidata la missione di essere lievito per i ‘lontani’, che sono molti. Questo è possibile se la Chiesa non è vissuta come ‘stazione di servizio’, ma come famiglia, nella quale la povertà umana non spaventa più perché è assunta dal Cristo, il quale è per tutti perdono e festa. I posti vuoti devono suscitare una maggiore sollecitudine d’amore per tutta la Chiesa. Nessuno può essere soltanto spettatore o fruitore della Chiesa!