Seguire
il Signore richiede umiltà e fiducia, decisione e fortezza, disciplina
interiore e perseveranza. Il cristiano parte seguendo e finisce servendo. Come
pastori o mercenari, si lasciano tracce molto differenti: si ‘è’ o si appare,
si è fedeli o si vive alla giornata, si serve l’altro o ci si serve dell’altro.
Oggi è molto perseguita la bellezza narcisistica, cosmetica, effimera, la quale
non lascia trasparire la bellezza ‘altra’, quella del vero e del buono. Satana
è ladro di esistenze e signore dei mercenari per denaro, potere e
superficialità. Non è casuale che egli conosca e utilizzi a proprio vantaggio
la potenza della bellezza fasulla. L’affidamento a Dio invece crea la bellezza
di chi ama e opera per la comunione. È questa la via della felicità.
Anche tra i credenti pare
diffusa una certa ‘avarizia/accidia’ spirituale, che tende all’isolamento non solo per non condividere, ma anche per non
dipendere da alcuno. Un atteggiamento idolatrico, figlio della mancanza di
fiducia in Dio. Antidoto all’avarizia spirituale sono anzitutto la conversione dei desideri,
da sintonizzare su quelli di Cristo (il cristiano non si ispira genericamente ai ‘valori’),
l’unità interiore della persona (la sequela è totalizzante e mai parziale)
e la condivisione perché «nessuno ha il diritto di essere felice da solo» (R.
Follereau). Ogni
giorno occorre allenarsi nella testimonianza, decidendo di «essere in Cristo» come ‘stato di
vita’, fino a giungere «alla misura dell’uomo perfetto» (Col 1,28). È proposto di vivere in se stessi la vita del Risorto: è la
scelta del ‘con chi stare’ nel quotidiano. I Santi di ogni tempo testimoniano che
il Risorto è più che sufficiente a riempire il cuore e a trasformare tutto:
pensieri, sentimenti,
progetti, passato-presente-futuro. Qui sta il senso vero di ogni vocazione: considerare e
accogliere la vita come un dono da partecipare con animo libero e gioioso. Ogni
ripiegamento
autoreferenziale corrisponde ad uno spreco.
Per motivi economici e
culturali, i giovani sembrano preferire scelte emotive, frammentate e non
definitive (convivenze, lavori precari, timore della trasmissione della vita, aumento delle
separazioni, appartenenze deboli, sincretismo religioso ecc.). Nel migliore dei casi, si
sceglie il volontariato, importante ma reversibile. Solo una qualità alta della
vita cristiana in famiglia, in parrocchia/movimenti/associazioni può favorire il fiorire di nuove
vocazioni di speciale consacrazione e il sostegno a chi è già dedito totalmente al Signore. Ma
questo vale anche per la vocazione al matrimonio e per altre vocazioni sempre meno abbracciate:
quelle alla missione educativa e alla politica come servizio.
Su
Cristo, pietra scartata dal mondo ma scelta da Dio come testata d’angolo, si
può edificare con solidità e serenità la propria umanità. La Pasqua di Cristo è
garanzia di riuscita, profezia del compimento dell’amore, superamento della
paura, forza di un’unione più grande. In Cristo si possono dunque dire vari
‘sì’: alla vita, che va amata, difesa e diffusa; alla propria identità di maschio
e di femmina, all’accettazione di sé nei pregi e nei limiti; all’opera della
grazia, che tiene conto della natura umana e insieme la supera; alla Chiesa,
luogo di perdono e di festa.
I grandi ‘sì’ definitivi
passano attraverso i ‘sì’ semplici di ogni giorno. A partire dalla famiglia e dalla scuola, palestre delle decisioni
future (l’importanza di accompagnare i ragazzi e i giovani, come pure gli
adulti, nei ‘momenti di passaggio’: scelta della scuola, trasferimenti per
ragioni di studio o lavoro, accettazione di nuove ‘presenze’ nelle relazioni
familiari per separazioni e nuove unioni ecc.). L’ascolto della Parola, la
preghiera personale, la frequenza ai sacramenti, la pratica della confessione e
della direzione spirituale, la vita di corresponsabilità nel gruppo ecclesiale,
il servizio vissuto con fedeltà predispongono ad un rapporto di amicizia tale
col Signore che segna il progetto della propria esistenza.
Dio
non si vede, ma si vedono i suoi figli. Guai se i cristiani sono mercenari, non
sono più solidi e avvincenti nella proposta, attrattivi e convincenti nell’argomentazione,
efficaci nella soluzione delle nuove emergenze culturali, sociali, politiche.
Questo implica il ripensamento del ministero del parroco (da ‘tuttofare’ a
maestro della Parola, confessore e direttore spirituale, guida pastorale
significativa) e della parrocchia, casa di preghiera e scuola di comunione con
Cristo e con gli altri. Va ripensata l’attuale impostazione della pastorale in
generale e di quella giovanile in particolare.
Più si ascolta Gesù e più
si matura una coscienza ecclesiale, cioè
si avverte la gioia di essere Chiesa e si è più disponibili ad allargare la
tenda del proprio cuore per accogliere altri fratelli. Diceva S. Agostino:
«Cesseranno di essere nostri fratelli, quando non diranno più ‘Padre Nostro’».
Per realizzare l’anelito di Cristo di un solo gregge e di un solo pastore urge
uno spirito di vera ‘ascesi relazionale’ in vista di un’autentica comunione. Né
faciloni nell’escludere altri dalla Chiesa, perché illusi di essere migliori
degli altri, né qualunquisti nell’accesso ad essa. Ai vicini, che sono pochi, è
affidata la missione di essere lievito per i ‘lontani’, che sono molti. Questo
è possibile se la Chiesa non è vissuta come ‘stazione di servizio’, ma come
famiglia, nella quale la povertà umana non spaventa più perché è assunta dal
Cristo, il quale è per tutti perdono e festa. I posti vuoti devono suscitare
una maggiore sollecitudine d’amore per tutta la Chiesa. Nessuno può essere soltanto
spettatore o fruitore della Chiesa!
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