sabato 12 maggio 2012

386 - LA VITE E I TRALCI

All’inizio del capitolo 15 di Giovanni troviamo la grande immagine della vigna, che riprende le ricche tradizioni di questa similitudine nell’Antico Testamento. Isaia aveva composto il canto della vigna parlando del suo diletto (Is 5,1-7); i salmi vi avevano fatto riferimento, uno in modo particolare (Sal 79/80) celebra la vigna che è Israele e proprio in riferimento a queste immagini bibliche Giovanni elabora l’allegoria cristologica della vite, intesa non tanto come una singola pianta, bensì come una vigna, cioè un insieme organico di viti.
Il discorso inizia con una tipica formula giovannea di autopresentazione cristologica con l’aggiunta importante di un riferimento anche a Dio Padre: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore» (v.1). Nell’Antico Testamento Dio era presentato come il proprietario della vigna, ovvero il contadino che l’ha piantata e la cura, mentre con l’immagine della vigna era rappresentato il popolo. Adesso è Gesù stesso a presentarsi così, in quanto riassume in sé la storia di Israele: è lui quel virgulto nuovo, quella nuova piantagione che comprende in sé l’intera umanità. Perciò delinea con una serie di immagini agricole la vicenda dell’umanità in rapporto con Dio in quanto legata a Gesù Cristo. Non si può infatti essere il popolo di Dio a prescindere da Gesù Cristo.
Come definendosi «pastore» (Gv 10,11.14) ha aggiunto l’aggettivo «kalós» (= ‘bello’), così ora al termine «vite» aggiunge l’aggettivo «alēthin» (= ‘vera’). Nel linguaggio giovanneo tale qualifica fa riferimento all’idea di rivelazione, perché la verità (in greco: altheia) è Gesù in persona, in quanto rivelatore del Padre. Perciò precisare che egli è la vera vite significa che tale allegoria è un’immagine di rivelazione, cioè aiuta a capire chi è Gesù e chi è Dio: il Padre è l’origine e il curatore, colui che ha piantato la vigna e la coltiva, colui che opera affinché porti frutto; il Figlio a sua volta si rivela come l’autentico Israele, realizzazione delle promesse profetiche a favore dell’umanità, reale possibilità di frutto.
L’attenzione di Giovanni non è però rivolta all’antefatto della vigna, ma all’attuale condizione in cui si realizza o no la fruttificazione. L’impostazione dell’intero discorso è di tipo allegorico, in quanto ad ogni particolare dell’immagine agricola corrisponde un analogo elemento della realtà personale: ha già detto che il Padre è l’agricoltore e Gesù la vite; poco dopo (v. 5) dirà che i discepoli sono i tralci. A questo punto è importante la presentazione di alcune tipiche azioni di viticultore: il taglio dei tralci infruttuosi e la potatura dei tralci fruttuosi.
Al centro dell’attenzione sta infatti il frutto, cioè il fine della vite stessa: che cosa significa in questa comparazione allegorica? Vi si può riconoscere il risultato concreto dell’opera compiuta dal Cristo, ovvero l’effetto prodotto dalla rivelazione di Gesù, dal fatto che egli comunica a noi il suo Spirito e la sua vita divina. Il frutto è chiarito nel v. 8 – alla fine della pericope – tramite il riferimento al ‘discepolato’: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Il linguaggio della «gloria» in Giovanni indica la presenza potente e operante di Dio stesso nelle vicende storiche e umane: quindi in questo contesto comprendiamo come Gesù voglia dire che l’efficace azione di suo Padre si riveli nel fatto che gli uomini portino molto frutto, cioè diventino discepoli del Figlio. «Discepolo» (mathēts) è colui che «impara» (manthánein): la docilità all’insegnamento di Gesù, l’accoglienza della sua parola, l’accettazione di lui in persona come parola (Lógos) di Dio porta ogni uomo ad assimilare la stessa vita divina. Tale disponibilità a diventare discepoli del Figlio consente l’efficacia dell’opera divina e trasforma effettivamente la persona umana.
Perciò si comprende l’imperativo centrale: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Il verbo «rimanere» (ménein) è fondamentale in questo discorso e nella teologia giovannea, dal momento che esprime l’immagine piena della comunione fra Gesù e il Padre, fra Gesù e l’umanità. Fin dall’inizio del racconto l’evangelista ha messo sulle labbra dei discepoli la domanda decisiva: «Maestro, dove rimani?» (Gv 1,38). Si rivolgono a lui, chiamandolo ‘maestro’ (didáskale), proprio perché vogliono imparare da lui; e la prima cosa che vogliono imparare non è il suo indirizzo di casa, bensì la consistenza della sua vita. Quel giorno «rimasero» con lui (Gv 1,39) come inizio di un processo che deve portarli ad una mutua e profonda comunione di vita. Tale linguaggio, che percorre tutto il vangelo di Giovanni, riguarda la nostra relazione personale con Gesù, riconoscendo che solo in stretta unione a lui possiamo arrivare al Padre e realizzare la nostra vita. «Senza di me non potete far nulla!» (v. 5).
L’azione di dimorare rimanda al tema dell’ascolto. L’autentico discepolo anzitutto ascolta la parola del maestro e poi la custodisce con l’intento di attuarla nella vita. Tale procedimento è proposto con la variazione dello stesso verbo: «Se le mie parole rimangono in voi» (v. 7). In questo caso c’è una perfetta unità di intenti e di vita fra il Cristo e i suoi discepoli, cosicché – volendo quello che anch’egli vuole – si rivolgono al Padre nella preghiera, certi di realizzare l’unico progetto divino.
In tale prospettiva possiamo chiarire le immagini allegoriche della vite. Il tralcio non è autonomo, non può fruttificare da sé; deve rimanere nella vite per portare frutto. Così il discepolo, che accoglie la parola di Gesù e la custodisce con docilità, può sperimentare nella propria vita l’opera divina che trasforma e conforma al Figlio. Al contrario il discepolo che non aderisce in tal modo al Cristo, resta infruttuoso; di conseguenza viene tagliato e gettato via, per cui si secca e non gli resta altro che essere bruciato nel fuoco (allusione allegorica al giudizio di condanna finale).
Una terza via è rappresentata dalla potatura, operazione molto importante che l’esperto viticultore compie per permettere una grande produzione. Gesù si dimostra attento osservatore della vita comune e delle azioni umane, in cui riconosce importanti analogie con l’azione divina. I contadini hanno condensato la loro esperienza al riguardo in un proverbio del genere: «Più gliene togli, più te ne dà». Anche se, quando viene potata, «piange come una vite», quei tagli esperti producono
infatti effetti benefici e garantiscono un frutto abbondante. Tale particolare agricolo è applicato allegoricamente alla dinamica della vita cristiana, ricordando che il verbo tradotto con «potare» in greco è «purificare» (kathairêin): la parola che Gesù annunzia ai discepoli li rende «puri» (katharói), ovvero rimuove lo scarto e rende possibile il frutto (v. 3). Eppure tale opera di purificazione non è fatta una volta per tutte, ma richiede continuità nel tempo, fino a raggiungere l’obiettivo della perfetta somiglianza. Lo stesso linguaggio ricorre ancora nell’episodio della lavanda dei piedi, dove Gesù riconosce che i discepoli sono «puri, ma non tutti» (cfr. Gv 13,10): pur avendo fatto il bagno, hanno ancora bisogno di essere lavati ai piedi, per divenire veramente puliti.

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