All’inizio del
capitolo 15 di Giovanni troviamo la grande immagine della vigna, che riprende
le ricche tradizioni di questa similitudine nell’Antico Testamento. Isaia aveva
composto il canto della vigna parlando del suo diletto (Is 5,1-7); i
salmi vi avevano fatto riferimento, uno in modo particolare (Sal 79/80)
celebra la vigna che è Israele e proprio in riferimento a queste immagini
bibliche Giovanni elabora l’allegoria cristologica della vite, intesa non tanto
come una singola pianta, bensì come una vigna, cioè un insieme organico di
viti.
Il discorso
inizia con una tipica formula giovannea di autopresentazione cristologica con
l’aggiunta importante di un riferimento anche a Dio Padre: «Io sono la
vera vite e il Padre mio è l’agricoltore» (v.1). Nell’Antico Testamento Dio era
presentato come il proprietario della vigna, ovvero il contadino che l’ha
piantata e la cura, mentre con l’immagine della vigna era rappresentato il
popolo. Adesso è Gesù stesso a presentarsi così, in quanto riassume in sé la
storia di Israele: è lui quel virgulto nuovo, quella nuova piantagione che
comprende in sé l’intera umanità. Perciò delinea con una serie di immagini
agricole la vicenda dell’umanità in rapporto con Dio in quanto legata a Gesù
Cristo. Non si può infatti essere il popolo di Dio a prescindere da Gesù
Cristo.
Come definendosi
«pastore» (Gv 10,11.14) ha aggiunto l’aggettivo «kalós» (=
‘bello’), così ora al termine «vite» aggiunge l’aggettivo «alēthinḗ»
(= ‘vera’). Nel linguaggio giovanneo tale qualifica fa riferimento all’idea di
rivelazione, perché la verità (in greco: alḗtheia) è Gesù in
persona, in quanto rivelatore del Padre. Perciò precisare che egli è la vera
vite significa che tale allegoria è un’immagine di rivelazione, cioè aiuta
a capire chi è Gesù e chi è Dio: il Padre è l’origine e il curatore, colui che
ha piantato la vigna e la coltiva, colui che opera affinché porti frutto; il
Figlio a sua volta si rivela come l’autentico Israele, realizzazione delle
promesse profetiche a favore dell’umanità, reale possibilità di frutto.
L’attenzione di
Giovanni non è però rivolta all’antefatto della vigna, ma all’attuale
condizione in cui si realizza o no la fruttificazione. L’impostazione
dell’intero discorso è di tipo allegorico, in quanto ad ogni particolare
dell’immagine agricola corrisponde un analogo elemento della realtà personale:
ha già detto che il Padre è l’agricoltore e Gesù la vite; poco dopo (v. 5) dirà
che i discepoli sono i tralci. A questo punto è importante la presentazione di
alcune tipiche azioni di viticultore: il taglio dei tralci infruttuosi e la
potatura dei tralci fruttuosi.
Al centro
dell’attenzione sta infatti il frutto, cioè il fine della vite stessa: che cosa
significa in questa comparazione allegorica? Vi si può riconoscere il risultato
concreto dell’opera compiuta dal Cristo, ovvero l’effetto prodotto dalla
rivelazione di Gesù, dal fatto che egli comunica a noi il suo Spirito e la sua
vita divina. Il frutto è chiarito nel v. 8 – alla fine della pericope – tramite
il riferimento al ‘discepolato’: «In questo è glorificato il Padre mio: che
portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Il linguaggio della
«gloria» in Giovanni indica la presenza potente e operante di Dio stesso nelle
vicende storiche e umane: quindi in questo contesto comprendiamo come Gesù
voglia dire che l’efficace azione di suo Padre si riveli nel fatto che gli
uomini portino molto frutto, cioè diventino discepoli del Figlio. «Discepolo» (mathētḗs) è colui che
«impara» (manthánein): la docilità all’insegnamento di Gesù,
l’accoglienza della sua parola, l’accettazione di lui in persona come parola (Lógos)
di Dio porta ogni uomo ad assimilare la stessa vita divina. Tale disponibilità
a diventare discepoli del Figlio consente l’efficacia dell’opera divina e
trasforma effettivamente la persona umana.
Perciò si
comprende l’imperativo centrale: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Il
verbo «rimanere» (ménein) è fondamentale in questo discorso e nella
teologia giovannea, dal momento che esprime l’immagine piena della comunione
fra Gesù e il Padre, fra Gesù e l’umanità. Fin dall’inizio del racconto
l’evangelista ha messo sulle labbra dei discepoli la domanda decisiva:
«Maestro, dove rimani?» (Gv 1,38). Si rivolgono a lui,
chiamandolo ‘maestro’ (didáskale), proprio perché vogliono imparare da
lui; e la prima cosa che vogliono imparare non è il suo indirizzo di casa,
bensì la consistenza della sua vita. Quel giorno «rimasero» con lui (Gv 1,39)
come inizio di un processo che deve portarli ad una mutua e profonda comunione
di vita. Tale linguaggio, che percorre tutto il vangelo di Giovanni, riguarda
la nostra relazione personale con Gesù, riconoscendo che solo in stretta unione
a lui possiamo arrivare al Padre e realizzare la nostra vita. «Senza di me non
potete far nulla!» (v. 5).
L’azione di
dimorare rimanda al tema dell’ascolto. L’autentico discepolo anzitutto ascolta
la parola del maestro e poi la custodisce con l’intento di attuarla nella vita.
Tale procedimento è proposto con la variazione dello stesso verbo: «Se le
mie parole rimangono in voi» (v. 7). In questo caso c’è una perfetta unità
di intenti e di vita fra il Cristo e i suoi discepoli, cosicché – volendo quello
che anch’egli vuole – si rivolgono al Padre nella preghiera, certi di
realizzare l’unico progetto divino.
In tale
prospettiva possiamo chiarire le immagini allegoriche della vite. Il tralcio
non è autonomo, non può fruttificare da sé; deve rimanere nella vite per
portare frutto. Così il discepolo, che accoglie la parola di Gesù e la
custodisce con docilità, può sperimentare nella propria vita l’opera divina che
trasforma e conforma al Figlio. Al contrario il discepolo che non aderisce in
tal modo al Cristo, resta infruttuoso; di conseguenza viene tagliato e gettato
via, per cui si secca e non gli resta altro che essere bruciato nel fuoco
(allusione allegorica al giudizio di condanna finale).
Una terza via è rappresentata
dalla potatura, operazione molto importante che l’esperto viticultore compie
per permettere una grande produzione. Gesù si dimostra attento osservatore della
vita comune e delle azioni umane, in cui riconosce importanti analogie con
l’azione divina. I contadini hanno condensato la loro esperienza al riguardo in
un proverbio del genere: «Più gliene togli, più te ne dà». Anche se, quando
viene potata, «piange come una vite», quei tagli esperti producono
infatti effetti
benefici e garantiscono un frutto abbondante. Tale particolare agricolo è
applicato allegoricamente alla dinamica della vita cristiana, ricordando che il
verbo tradotto con «potare» in greco è «purificare» (kathairêin): la
parola che Gesù annunzia ai discepoli li rende «puri» (katharói), ovvero
rimuove lo scarto e rende possibile il frutto (v. 3). Eppure tale opera di
purificazione non è fatta una volta per tutte, ma richiede continuità nel
tempo, fino a raggiungere l’obiettivo della perfetta somiglianza. Lo stesso
linguaggio ricorre ancora nell’episodio della lavanda dei piedi, dove Gesù
riconosce che i discepoli sono «puri, ma non tutti» (cfr. Gv 13,10): pur
avendo fatto il bagno, hanno ancora bisogno di essere lavati ai piedi, per
divenire veramente puliti.
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