sabato 13 luglio 2013

498 - CHI È IL MIO PROSSIMO - 14 Luglio 2013 – XVª Domenica del Tempo ordinario

(Deuteronomio 30,10-14 Colossesi1,15-20 Luca 10,25-37)

La prossimità non si riduce a una questione di denaro offerto o ricevuto. Si fonda su atteggiamenti che possono essere vissuti in qualsiasi condizione. Per essere il prossimo di qualcuno, in primo luogo è indispensabile saper vedere l’altra persona nella sua concretezza, cogliendo quanto sta vivendo. Non è raro infatti che si viva una contiguità abituale e non si ‘veda’. Non ci si chiede cosa passi nella mente e nel cuore di un altro. Non si notano i suoi stati d’animo che corrono appena sotto pelle, spesso celati per pudore o per orgoglio. Per superficialità, per comodità, per quieto vivere si passa oltre. Si giustifica il disinteresse, dichiarando che si tratta di rispetto della privacy. Si alimenta così una solitudine reciproca che si comprende soltanto quando si vive in prima persona una condizione di bisogno. Non è detto poi che la prossimità, che si manifesta come gentile interessamento e come condivisione, sia da riservare ai casi di dolore o di povertà. Si può essere prossimi anche a chi è nella gioia o gode di qualche fortuna, partecipando sinceramente e superando una serpeggiante invidia che talvolta sa spingere a mormorare o a seminare sospetti.
Corrisponde alla prossimità evangelica quell’atteggiamento che non si concentra su se stessi e sui propri vantaggi. Lo vive chi è libero da un egoismo miope, superandolo non per attitudine spontanea, ma per scelta e per le virtù tipiche di una personalità matura. Questa capacità ha un risvolto anche nel modo e nei sentimenti con cui si affrontano le situazione difficili o dolorose: non si può avere la pretesa né di dissolvere il dolore altrui né di trovare soluzioni radicali e definitive per i mali dell’umanità. Se la sensazione di insufficienza e di dolorosa impotenza sono sentimenti sani, possono essere talvolta dovuti a una sorta di desiderio di onnipotenza come se con la propria buona volontà si potesse mettere fine al disagio. In realtà ogni essere umano può fare sempre e solo qualcosa per gli altri e per il mondo. La consapevolezza della vastità dei problemi come le guerre, la fame, le malattie, le distruzioni o le ingiustizie deve restare sempre viva e pungente, ma come stimolo a non arrendersi e a mettere in gioco quel poco o tanto che si può.
A questo punto allora può intervenire qualche altra considerazione: tenendo conto che allungare 20 centesimi a un mendicante non solo è offensivo, ma non dà alcuna soluzione ai suoi problemi se questi sono veri, si può reagire in modo diverso dicendo con gentilezza ma anche con fermezza: «Hai fame? Ti accompagno in quel bar per un pasto o un panino»; «Devi comprare il latte o i pannolini per il bambino? Ecco là un supermercato. Facciamo la spesa»; «Non hai lavoro? Vieni sabato a tagliare l’erba del prato». Questi esempi vorrebbero suggerire sia di non umiliare coloro che per qualsiasi motivo chiedono sia di offrire loro un aiuto se il bisogno è autentico, senza farsi prendere in giro. In fondo si tratta di dedicare alla persona che chiede un momento in più di quanto occorre per allungare una moneta.
Rivolgendo la parola al povero in strada per prendere atto della sua richiesta, si tratta la persona da persona e non da disturbo da scacciare. Si dà a chi chiede un frammento del proprio tempo. Ci si colloca proprio nella direzione indicata dal racconto evangelico: il samaritano vede, interviene, porta a termine il soccorso immediato, ma non rimedia soltanto all’emergenza. Si prende cura del bisognoso anche per il futuro. È proprio la continuità a fare la differenza perché un intervento nell’emergenza è comprensibile e forse comune, ma un aiuto che si prolunghi oltre questo è una scelta ponderata, onerosa più di un soccorso occasionale.
Il vangelo non dedica una parola per dire se quell’uomo aggredito e abbandonato sulla strada fosse buono o cattivo, onesto, simpatico o saggio. Si deve quindi concludere che l’aiuto è dovuto non per le qualità della persona colpita, ma solo perché è nel bisogno. Ci sono poveri insistenti e testardi, fastidiosi e senza senso della misura che non rinunciano a tallonare il passante per ottenere un’offerta, ma ci sono altri poveri, spesso i più pressati dal bisogno. Non si riconoscono a occhio nudo e non stendono la mano. Sono i ‘nuovi’ poveri, persone che hanno perso il lavoro, padri separati che non riescono a mantenersi dopo aver versato gli alimenti, famiglie che hanno perso la casa per un mutuo o un affitto che non possono saldare, anziani che non possono più vivere con la pensione che percepiscono … In genere si nascondono perché si vergognano della loro situazione come se fosse una colpa. Accade così che nessuno veda e si lasci che il bisogno li schiacci. In questi casi è solo una rete di rapporti umani che può accorgersi della situazione: vicini di casa, amici, parenti. Spesso è proprio questo che si è indebolito o addirittura dissolto.
Il card. Carlo Maria Martini ha reso popolare la comprensione del testo evangelico di Luca, trasformando la domanda «Chi è il mio prossimo?» in invito a «Farsi prossimo». Ci sono mille modi e mille strategie per dar seguito a questo invito, mettendo in conto che scegliere di accostarsi a qualcuno in difficoltà, talvolta scomoda, riserva incognite e non dà il diritto di aspettarsi un grazie. Alla fine la scelta di farsi prossimo comprende anche quella di lasciar andare per la sua strada chi è stato soccorso senza avanzare pretese o coltivare attese di perenne gratitudine.

PREGHIERA 
Hai rovesciato la situazione, Gesù. e hai dato alla parola ‘prossimo’ un significato imprevisto. Solo così, in effetti, si può venir fuori da quel tunnel senza via d’uscita in cui ci portano i nostri sospetti, i nostri rancori, le nostre inimicizie, le reti mortifere dei nostri pregiudizi, delle nostre paure, delle nostre reticenze.
Finché il prossimo rimane una persona da aiutare mi posso sempre permettere di scegliere, di distinguere, di tener ben separati gli amici dai nemici, i connazionali dagli stranieri, i simpatici dagli antipatici, i benevoli dagli ostili, i collaboratori dai concorrenti.
Le cose cambiano quando il prossimo è colui che aiuta ed io mi trovo nella sgradevole posizione di chi ha un assoluto bisogno di essere soccorso, aiutato. Allora non importa se colui che si ferma è addirittura uno straniero, un eretico, un nemico dei miei, un samaritano. Ciò che importa è che mi raggiunga il suo gesto di compassione che mi salva.

martedì 2 luglio 2013

497 - LA FATICA DI SCEGLIERE: COSA SARÀ MAI “CHIAMATA”?- 30 Giugno 2013 – XIIIª Domenica del Tempo ordinario

(1ºRe 19,16B.19-21 Galati 5,1.13-18 Luca 9,51-62)

Due elementi caratterizzano la vita nel tempo dell’abbondanza: il desiderio di indipendenza, di autosufficienza e, conseguentemente, l’autoreferenzialità, l’individualismo che considera la persona preziosa in sé e non in relazione all’altro. Da qui derivano molte delle situazioni che ci mettono sovente in difficoltà: • il fascino dell’efficienza accresciuto dallo sviluppo tecnologico sempre più sofisticato; • la pigrizia nell’approfondimento della conoscenza, che ci fa usare delle cose senza scoprire e valorizzare la logica più interiore che sta dietro la facciata di ogni realtà; • la velocità nel cambiamento degli scenari, che accresce il senso dell’onnipotenza e rende difficoltosa la memoria attenuando il valore dell’esperienza personale; • la difficoltà nell’accreditare la testimonianza altrui e nel medesimo tempo l’ingenuità di entrare senza il filtro dell’esperienza nel castello fatato dei maghi della pubblicità; • la partigianeria accentuata dal desiderio di affermazione e dalla sottovalutazione del diverso da noi; • la paura del definitivo, del “sì” senza ritorno. È ciò che sovente provoca il fallimento del patto matrimoniale e mina le vocazioni più forti, destinate a cambiare il corso della vita; • il prolungamento indefinito del tempo dell’adolescenza, che si spinge fino alla giovinezza inoltrata e addirittura al tempo della maturità, sempre più ritardato; • il bisogno di sicurezza, di essere coperti alle spalle; ed ecco i figli che non lasciano la casa paterna pur prendendosi le libertà e le autonomie che li pongono in contrasto di ideali verso i genitori. Si valorizza la casa come luogo di rifugio e nel medesimo tempo non si vuole rivestire “l’abito” della casa (con i conflitti ormai classici: «Questa casa non è un albergo!»).
La fatica di scegliere, nella società dei consumi, si è fatta improba. Fatica di scegliere e anche fatica vocazionale: sia esistenziale che professionale. Si entra nella vita non dalla porta di servizio, dove ci attendono gli abiti da lavoro, il grembiule e un maestro che ci insegna l’arte di comporre le tessere del mosaico “esistenza umana”. Si pretende di entrare dalla porta principale (o meglio, gli adulti pretendono di fare entrare i figli da tale porta), aperta a tutti e spalancata, dove i servitori attendono e la tavola è sempre imbandita.
Il regno della libertà è sovente abitato da persone con gli occhiali dalle lenti deformanti. Si cerca una libertà intesa come “non scelta” e conseguentemente come “non vincolo”. La libertà non è ‘indifferenza’. La libertà più vera non è quella che ci libera dagli altri o dalle cose, ma da noi stessi.
In questo contesto risuona l’appello evangelico di Gesù: «vieni e seguimi». L’atteggiamento di Cristo che chiama è: • di rispetto totale della persona nel fare la proposta e nell’attendere risposta; • di pazienza perché la maturazione ha bisogno del suo tempo; • di rispetto anche per i ‘resti’ («Raccogliete i pezzi avanzati», «Non spegnete il lucignolo fumigante»); • di superamento delle barriere e delle differenze: chiamata rivolta a tutti, raccolta degli invitati tra i poveri “della strada”; • di superamento dei pregiudizi (Gesù tocca ammalati e impuri); • di tenacia nel perseguire la salvezza di tutti (in cerca della “pecorella smarrita”).

La risposta è differente: • ci sono persone in attesa di un messia che assecondi il loro desiderio di salvezza, ma che hanno già bene in mente quale salvezza debba essere; • altri sono liberi da precomprensioni e attendono il Messia come il Cielo lo invierà; sono disposti a leggere i segni dei tempi come i re magi, come i pastori, come Maria nel tempo dell’incarnazione, come i lebbrosi, il centurione, le donne accanto a Gesù nella vita pubblica, come gli apostoli risanati nello Spirito, i discepoli di ogni parte del mondo conosciuto nel tempo della Chiesa; • ci sono minoranze di integralisti che intendono la chiamata come un arruolamento militare, ‘talebano’, e si incaricano della salvezza del mondo facendo saltare le cervella al prossimo; • ci sono testimoni tiepidi in gran quantità, mossi dall’emozione appena sentono la voce che chiama, ma distratti ed in altre cose affaccendati, continuamente rivolti a guardare indietro; • ci sono testimoni coraggiosi, disposti a giocare la vita in una battaglia di risonanza pubblica con il rischio di subire il fascino del potere e di scambiare il coraggio con il desiderio di successo; • c’è poi l’esercito dei senza nome che accettano la vita come un dono e una responsabilità, che seguono il Signore in silenzio, talvolta senza distinguerne chiaramente la voce.

Un tempo i catechisti per indicare le possibilità di risposta alla chiamata del Signore dicevano: «Ci sono due vie: una stretta e scoscesa che sale verso il paradiso; una larga, comoda e lastricata che conduce, scendendo, all’inferno». Oggi la strada larga e lastricata, anziché essere quella del vizio e del peccato, rischia di essere quella dell’indifferenza, della non passione e della non identità. Forse non condurrà diritta all’inferno perché al Signore sta più a cuore la nostra vita di quanto non stia a cuore a noi stessi. Tra la morta gora dell’indifferenza e del qualunquismo e il muro dell’integralismo passa la via della responsabilità assunta con pazienza e tenacia, senza pretese di verità possedute o di chiavi messe in tasca (i ‘maestri’ d’Israele chiudevano la porta e ne nascondevano la chiave), umile e gioiosa, aperta al futuro e serena nelle sue memorie. Questa è la via del Regno, che ci indica il Signore Gesù quando chiama e dice: «Chi vuole essere il mio discepolo prenda la sua croce e mi segua», «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», «Se il seme caduto a terra non muore non porta frutto».

PREGHIERA
Il tuo percorso, Gesù, è giunto ad una svolta decisiva: tu vai verso Gerusalemme perché è lì che la tua missione trova il suo compimento, è lì che avverrà quel passaggio doloroso che sfocerà nella risurrezione e nella gloria.
Sarai giudicato e condannato, inchiodato ad una croce come un ribelle, un malfattore, ma il tuo sangue salverà l’umanità e costituirà il sigillo indelebile per un’alleanza nuova ed eterna tra Dio e tutte le sue creature.
Ti dirigi verso Gerusalemme, risoluto e fiducioso, anche se sai che ti attendono la sofferenza e la morte. Sei disarmato e privo di appoggi: non hai più un villaggio, non hai una casa tua, non hai persone votate alla tua incolumità, alla tua difesa. Conti solamente sull’amore del Padre che ti ha mandato, sulla presenza dello Spirito che non viene meno. Ecco perché chiedi a chi ti vuol seguire la tua stessa risolutezza, la tua stessa fiducia, la tua stessa povertà, nel vivere un distacco che è solo l’inizio di un cammino di sacrificio e di offerta.