sabato 26 novembre 2011

305 - IL SIGNORE VIENE A SALVARCI - 27 Novembre 2011 – Iª Domenica di Avvento

(Isaia 63,16-64,7 1Corinzi 1,3-9 Marco 13,33-37)

Nella prima domenica di Avvento inizia per il mondo cristiano il cammino di preparazione al Natale. L’annuncio che il Signore viene a salvarci diventa una chiamata ad andare incontro a colui che viene a liberarci, un invito a riconoscerlo come salvatore: la liberazione vera e profonda che il credente attende, infatti, non è opera umana, ma solo grazia di Dio. Per sperimentare la vera libertà occorre non indurire il cuore e soprattutto vigilare, non permettere che le sirene del mondo assopiscano la nostra coscienza.
È con una preghiera, con un’invocazione accorata, che si apre la liturgia della Parola di questa domenica: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti» (1ª lettura). Sono parole che sgorgano da una certezza, fondata su un’esperienza: «Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore».
Ma perché si richiede l’intervento di Dio? Che cosa ci si attende da lui? Certo, la situazione è difficile, segnata dall’ingiustizia sociale e dalla sperequazione economica. Non è sugli effetti, però, che ci si attarda, ma sulla causa di ogni male: un cuore indurito, insensibile, impermeabile ai richiami della coscienza, incapace di discernere tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto, tra bello e brutto. Tutto, a questo punto, «viene pietrificato in una generica superficialità, finché tutto alla fine va bene perché tutto è indifferente». La voce del profeta, dunque, ci segnala un pericolo e ci fornisce una diagnosi lucida.
I discepoli di Gesù sanno che Dio ha mantenuto le promesse: nel suo Figlio ha offerto misericordia e grazia. Mediante lui ha ‘riscattato’ gli uomini dal potere del male e del peccato. Colui che è venuto nella carne ritornerà per portare a compimento il piano del Padre. Proprio per questo bisogna restare vigilanti, ‘vegliare’, ‘fare attenzione’ (vangelo).
Non si tratta di uno sforzo eroico, che ognuno conduce in solitario, ma piuttosto di assecondare l’opera di Dio, la sua grazia, e di condividere la ricchezza dei suoi doni per far crescere la comunità (2ª lettura):
PREGHIERA - Signore Gesù, ci sono appuntamenti che non si possono perdere.
Ne va della nostra esistenza e, in questo caso, ciò che è in gioco è addirittura la vita eterna. Ecco perché tu ci inviti a vegliare, a tenere gli occhi ben aperti su quanto sta accadendo perché ‘quel giorno’ non ci trovi impreparati.
Signore Gesù, l’attesa del tuo ritorno dà senso al mio pellegrinaggio: se sono pronto ad affrontare sacrifici e privazioni, se sono disposto a fare la figura del perdente, dello sconfitto, rimanendo fedele al tuo Vangelo, è perché so bene che ‘in quel momento’ ogni cosa verrà rivelata. E apparirà che non mi sono sbagliato nell’affidarti la mia vita, nell’aver seguito la bussola della tua parola.
Signore Gesù, non permettere che mi lasci vincere dal sonno, ingannato da tranquillanti a poco prezzo smerciati come pillole di felicità, in grado di dare solo una pienezza illusoria.
Signore Gesù, liberami da tutto ciò che mi impedisce di attendere serenamente il tuo passaggio. Liberami dall’ansia e dall’agitazione, dalla tentazione insana di vendere la mia coscienza in cambio di qualche vantaggio destinato a venir meno.

venerdì 25 novembre 2011

304 - GESÙ, I POVERI E NOI

Per una pausa spirituale durante la settimana della Solennità di Gesù Cristo, Re dell’universo

Una affermazione piuttosto comune dice: «Il povero è Gesù», o qualcosa di equivalente. L’affermazione è legittima, a patto che essa sia accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di un modo abbreviato di dire, che salta una mediazione, come si vedrà più oltre. Quando ci si dimentica di ciò, possono crearsi dei malintesi: persone motivate ad aiutare i poveri perché sono Gesù, quando constatano che un povero ha comportamenti giudicati immorali o comunque riprovevoli o anche solo scostanti, lasciano cadere sentimenti e opere della solidarietà, proprio perché non riescono più ad identificare quel povero con Gesù. Ora, proprio le condizioni di grande povertà, di miseria, come Benedetto XVI ha recentemente sottolineato, possono provocare degrado morale: se la somiglianza con Gesù fosse la condizione per aiutarli, proprio una tale condizione li escluderebbe dalla solidarietà.
Va detto che i poveri vanno aiutati perché sono poveri, e perché la mancanza dell’indispensabile fa soffrire e umilia, e costituisce una situazione ingiusta, che reclama di essere corretta. E chiunque incontra un povero in stato di necessità ed ha la possibilità di aiutarlo, ha anche il dovere di farlo. Persino la legislazione civile conosce il reato di omissione di soccorso. Ciò corrisponde ad un principio presente in tutte le sapienze etiche, e che perciò sembra corrispondere ad una verità tanto fondamentale quanto universale: il mio prossimo è un essere umano, un altro me stesso, non devo comportarmi con lui come non vorrei che gli altri si comportassero con me, se mi trovassi nella medesima condizione.
Ma nella prospettiva della fede, Gesù, o meglio la nostra relazione con Gesù, che posto ha in tutto questo? A questa domanda si può rispondere seguendo due traiettorie. La prima riguarda il rapporto che Gesù stesso stabilisce con chi è povero. Si tratta di un rapporto d’amore così intenso che fa sì che Gesù introietti, per così dire, la sofferenza del sofferente. Un missionario mi ha riferito che una mamma, con un piccino in braccio, andò a chiedere un po’ di cibo e disse: «Padre, è brutto quando ho fame nel mio stomaco, ma è più brutto quando ho fame nello stomaco del mio bambino». L’amore di una madre rende comprensibile questo modo di parlare. Ebbene, il rapporto di Gesù con i poveri è analogo: il Risorto li ama talmente che le sofferenze e le umiliazioni che cadono su di loro egli le sente su di sé. Per questo è stato detto che Gesù rimane in agonia fino alla fine del mondo, fino a quando un solo essere umano sarà in agonia. Per questo chi perseguita un battezzato perseguita Gesù, chi dà da mangiare ad un povero allevia la fame di Gesù. Non perché il povero sia Gesù, ma perché Gesù, nell’amore, fa sua la fame dell’affamato. E per questo non c’è amore autentico a Gesù che non si traduca anche in fame e sete di far indietreggiare le sofferenze dei suoi fratelli su questa terra: ogni dolore, ogni oppressione eliminata in un fratello è anche eliminata dal cuore di Gesù. E non è qui il caso di ribadire ciò che è ben noto: c’è un privilegio di attenzione verso il povero da parte di Gesù.
La seconda traiettoria studia la relazione che viene a crearsi tra noi e Gesù, quando veniamo a trovarci davanti ad un povero o veniamo a conoscenza di una situazione di povertà, e noi siamo in grado di fare qualcosa. Il povero non è Gesù, ma la provocazione che viene verso di noi dal suo bisogno ci colloca come responsabili davanti a Gesù, così che il sì o il no che diciamo al povero, lo diciamo a Gesù. Per comprendere ciò è necessario analizzare che cosa succede quando veniamo provocati ad una decisione. Il legame che c’è tra noi e le nostre decisioni non assomiglia affatto a quello che si crea tra una gallina e l’uovo che ha deposto. Quando noi prendiamo una decisione, non decidiamo mai soltanto dell’azione esterna che da noi prende vita, ma decidiamo anche e sempre di noi stessi, così che il legame tra la decisione e noi è permanente. È per questo che noi siamo responsabili, e cioè dobbiamo rispondere, delle decisioni che prendiamo. Quando decido di rifiutare l’aiuto al povero, pur avendo la possibilità di farlo, non prendo soltanto una decisione da egoista, ma faccio anche di me stesso un egoista. Intervengo su di me, modifico il mio essere a somiglianza dell’azione che compio. Per questo Gesù ha attirato così fortemente l’attenzione sul fatto che non sono le realtà esterne a noi che decidono della nostra qualità morale, ma le decisioni che partono dal nostro interno. Chi rifiuta la solidarietà fa di sé un egoista, chi sceglie la via della menzogna fa di sé una persona falsa e inaffidabile, chi si decide per l’ingiustizia fa di sé una persona ingiusta.
Alla luce di tutto ciò comprendiamo come in ogni provocazione alla decisione ciò che ci viene chiesto non è soltanto una nostra prestazione, è il nostro stesso io che viene posto in gioco. La cosa diventa molto evidente quando si tratta di una decisione nei confronti di un mio simile: non viene richiesto solo un mio atto di solidarietà, è la mia persona che viene richiesta, e precisamente perché io faccia di me un fratello solidale. Ma un mio simile non potrebbe avanzare una esigenza così radicale nei miei confronti, se attraverso di lui non venisse verso di me colui che è il Signore e il Giudice. Solo la presenza del Signore giustifica pienamente una tale richiesta non solo di donazione, ma di autodonazione. Così il povero non è Gesù, ma la sua povertà mi pone davanti a Gesù, e la risposta che darò al povero è in fin dei conti rivolta al Signore e al Giudice della mia vita.

sabato 19 novembre 2011

303 - ALLA FINE SAREMO GIUDICATI SULLA MISERICORDIA - 20 Novembre 2011 – Solennità di Gesù Cristo, Re dell’universo

(Ezechiele 34,11-12.15-17 1ª Corinti 15,20-26.28 Matteo 25,31-46)

Il brano del vangelo di Matteo di oggi è una originale elaborazione redazionale del primo evangelista, anche se il suo contenuto fondamentale rispecchia il messaggio di Gesù circa la priorità da riconoscere alla misericordia verso i poveri.
Con un dittico letterario accuratamente parallelo e redatto in forma di duplice dialogo del re giudice, «assiso sul suo trono di gloria», si viene a conoscere la motivazione fondamentale e riassuntiva per cui i popoli sono alla fine ‘benedetti’ e fatti eredi del regno, oppure ‘maledetti’ e destinati al fuoco eterno.
L’elemento più sorprendente nei ‘dialoghi’ è costituito dal fatto che i due gruppi separati, perché riconosciuti dal giudice divino ‘benedetti o maledetti’, devono ammettere di non aver mai visto il Signore quando hanno soccorso o trascurato (non servito) coloro che egli considerava e considera come «i suoi fratelli più piccoli»! Dunque, il ‘servizio della misericordia’ era e doveva essere motivato dalla gratuità di un animo e di una coscienza che liberamente si dedicano al prossimo (come il ‘buon samaritano’ della parabola lucana), non perché folgorati e costretti da una motivazione prodigiosa (vedere il Signore)!
Soltanto Matteo, fra gli evangelisti, fa assistere anticipatamente a questo grandioso evento finale. Non si tratta propriamente di una parabola, bensì di un annuncio; ovviamente formulato ricorrendo allo scenario simbolico di pecore e capri e di un pastore nel ruolo di giudice e re, che conclude l’avventura della storia umana. Dunque, cessa in certa misura il linguaggio figurativo, per far posto ad una sorprendente rivelazione: il Cristo pastore e giudice dichiara, ai popoli adunati per l’ultimo episodio della loro storia, che lui era presente e reperibile in questo mondo là dove c’erano affamati, assetati, emigrati, malati!
Tradizionalmente la catechesi cristiana ha denominato «opere di misericordia» gli interventi di aiuto e di servizio verso i poveri, ossia verso quelli che si trovano in stato di necessità e in situazione di personale impotenza. I vangeli ci fanno anche sapere – come nella pagina odierna – che tali opere erano state già quelle di Cristo Signore. Ai credenti, che si considerano suoi discepoli, Gesù di Nazaret rivela dunque dove e come li attende, per incontrarli anche ai nostri giorni. Un appuntamento non previsto né programmato da chi non si considera credente cristiano. Eppure, quando anche verso affamati, assetati, emigrati, nudi, malati e carcerati ci si muovesse per compassione e interessamento spontaneo e ‘umanitario’, il Signore Gesù dichiara di essere in quei suoi fratelli più piccoli ed emarginati. Se l’uomo non lo cerca espressamente e intenzionalmente, non per questo egli si rende assente e irreperibile!
Preghiera - Attenti all’ortodossia delle nostre professioni di fede, pronti a vagliare con scrupolo le parole che rivolgiamo a Dio, disposti ad accrescere continuamente la conoscenza delle Sacre Scritture, noi restiamo sconcertati, Gesù, di fronte alla domanda che tu ci rivolgerai alla fine dei tempi e da cui dipenderà la nostra eternità.
Non ci chiederai conto, infatti, di quello che abbiamo detto o scritto, ma di quello che abbiamo fatto. E non potremo produrre a nostra difesa e a nostro vanto né i capitali ammucchiati in banca, né i tesori raggranellati in borsa, né le proprietà che figurano al catasto o i successi ottenuti con questa o quella attività.
Conteranno unicamente i gesti compiuti per sfamare e dissetare, per accogliere e vestire, per curare e sostenere. Sarà un triste e doloroso risveglio, Gesù, se ti saremo passati accanto senza neppure vederti, presi dai nostri affari, condotti dal giro vorticoso dei nostri interessi. Perché eri tu che avevi fame e sete, tu che eri straniero, infermo o prigioniero…

302 - LA TRAGICA POSSIBILITÀ DI FALLIRE TOTALMENTE

Per una pausa spirituale durante la XXXIIIª settimana

Nessuno vorrebbe fallire la propria vita. Il desiderio inscritto in ogni persona umana diventa più forte quando il contesto propone modelli di esistenza riusciti, che costituiscono uno stimolo a rimuovere la possibilità che il compimento non sia raggiungibile. Ad alimentare il desiderio contribuisce anche la reazione alla prospettiva minacciosa, quasi terroristica, che ha contraddistinto alcuni secoli della storia cristiana. In tal senso l’emancipazione dalla paura va di pari passo con l’addio all’inferno, la predicazione del quale aveva costituito uno dei mezzi più efficaci per ricordare ai credenti la necessità di obbedire a Dio. Va da sé che tale prospettiva implicava una concezione di Dio che accentuava la dimensione di lui come giudice e quindi pronto a punire chiunque non fosse stato fedele alla sua legge.
Quanto del desiderio di vendetta tesa a rimettere ordine nel mondo si celasse in questa concezione non sarebbe difficile dimostrare. Innegabile nella visione allusivamente evocata è la specularità tra visione di Dio e visione del destino dell’uomo. Va riconosciuto che il clima generale nel quale le due visioni si proponevano era connotato da un senso di totale dipendenza delle persone dai ‘potenti’, alla cui mercé la generalità degli individui si sentiva. Non va dimenticato che nella delineazione del concetto vulgato di Dio il dinamismo della proiezione ha agito (e agisce) in forma notevole. Del resto la teologia non è sempre l’ispiratrice della predicazione; si può anzi constatare che la predicazione, e con essa la catechesi, attinge molto più alla sensibilità diffusa che alle sottili distinzioni dei teologi. Queste vengono spesso considerate lontane dalla vita e quindi, alla fine, inutili per orientarla. Tuttavia la teologia ha contribuito notevolmente negli ultimi decenni a mostrare il limite di una concezione retributiva che poneva sullo stesso piano l’esito fausto e quello infausto dell’esistenza umana.
In tal senso la riflessione dotta ha aperto una via di uscita dalla paura. E far uscire dalla paura ha significato, per un verso, liberare gli umani dall’angoscia di essere in balìa di una potenza minacciosa e quindi da un opprimente senso di colpa; per un altro, far riscoprire il volto più genuino di Dio, quello presentato da Gesù, che coincide con la misericordia. Per quanto attiene al primo aspetto ha giocato, pur con i suoi limiti, un ruolo importante anche la critica alla religione proveniente dalla psicanalisi, che nei suoi vari orientamenti si è presentata sulla scena in termini quasi messianici: la liberazione dal senso di colpa, benché abbia portato a indebolire il senso del peccato, ha indiscutibilmente contribuito a pacificare le coscienze e a disporre a un rapporto più sereno anche con Dio. La riflessione teologica che si è lasciata provocare da questi stimoli e contestualmente da quelli provenienti da una lettura più attenta del messaggio biblico ha permesso che nella predicazione e nella catechesi si giungesse a proporre un’immagine meno oppressiva dell’esistenza cristiana e a concepire il destino ultimo degli umani anzitutto in termini di salvezza. Il nativo desiderio di vivere in levità connesso con il portato della teologia ha perciò gradualmente portato a mettere in discussione la possibilità di un fallimento totale dell’esistenza, ancor più se questo dovesse essere pensato come condanna definitiva. Questa infatti contraddirebbe sia la volontà salvifica di Dio sia il desiderio delle persone umane.
Ci si trova così di fronte al superamento della concezione agostiniana, secondo la quale l’umanità sarebbe massa damnata a causa del peccato di origine, e la salvezza sarebbe frutto di una grazia riservata a qualcuno, a indiscutibile discrezione di Dio. Il cambio di visione non poteva che portare il pensiero vulgato a negare l’esistenza dell’inferno o ad ammettere che, nel caso esso esistesse, sarebbe vuoto. La legittimazione di tale pensiero è stata trovata sia nella tradizione teologica antica, soprattutto nella dottrina della cosiddetta apocatastasi (attribuita a Origene, benché sull’esattezza dell’attribuzione siano state avanzate riserve; si tratta della dottrina secondo la quale alla fine tutte le creature, compresi i demoni, sarebbero reintegrati nella condizione originaria di bontà; la dottrina fu condannata nel sesto secolo) sia nella teologia di Hans Urs von Balthasar, la cui opera Sperare per tutti, nella divulgazione, è diventata esposizione delle ragioni della negazione dell’inferno.
Ovvio che un’accentuazione dell’esito salvifico del destino umano è conforme alla confessione di fede in Cristo Salvatore, e quindi, per dirla con Karl Rahner, escatologia della salvezza ed escatologia della condanna non stanno sullo stesso piano; farlo sarebbe dimenticare che il destino umano è disposto anzitutto da Dio Salvatore. Tuttavia, negare la possibilità che gli umani possano rifiutare la destinazione loro assegnata da Dio sarebbe considerare i medesimi umani come semplici recettori di un’azione salvifica che non mette in gioco la loro libertà. Va da sé che libertà umana e azione di Dio non possano essere poste allo stesso livello. Resta però indiscutibile che una salvezza che non coinvolgesse il soggetto umano non produrrebbe in lui alcuna trasformazione e quindi non potrebbe neppure essere detta salvezza.
Sulla scorta di tale considerazione, che mette in gioco la responsabilità degli umani, si deve mantenere la tragica possibilità di un fallimento dell’esistenza. Che poi tale possibilità si attui di fatto per pochi o per molti, nessuno può dirlo. In tal senso le visioni di alcuni che, in occasione di apparizioni mariane, si troverebbero davanti agli occhi un inferno stracolmo di peccatori, vanno lette più come frutto di un immaginario modellato da catechesi non totalmente genuine che non come conferma della dottrina cattolica. Va peraltro ricordato che gli interventi magisteri ali sull’inferno sono ridottissimi. Per di più si deve tenere conto che la Chiesa nella sua massima autorità può dichiarare beate e sante alcune persone, ma non è abilitata a dichiarare che alcune persone sono dannate. E ciò perché il compito della Chiesa è annunciare la salvezza.

sabato 12 novembre 2011

301 - I TALENTI RICEVUTI DAL SIGNORE, DA METTERE A FRUTTO! - 13 Novembre 2011 – Domenica XXXIIIª Tempo Ordinario

(Proverbi 31,10-31 1ª Tessalonicesi 5,1-6 Matteo 25,14-30)

La traccia sobria ed essenziale della parabola dei talenti lascia appena intravedere il profondo messaggio di Gesù circa la relazione da vivere da parte delle creature con il Signore della nostra esistenza. Sta qui l’efficacia inequivocabile della parabola interpretata da Matteo, da non ‘sciupare’ perciò in eccessive elaborazioni allegoriche! Nel tempo della Chiesa, che precede e prepara quello conclusivo, quando il Signore ritornerà, in questo tempo il Signore consegna ai suoi servi i suoi beni: subentrino a lui nell’utilizzarli e nel gestirli! E lo facciano con libertà, genialità, senza sentirsi costretti da direttive dettagliate: ciascuno secondo la sua capacità! A disposizione dei servi c’è molto tempo. Il padrone non ha fretta di chiedere conto del lavoro fatto. E quando ritorna, non gli importa quanto hanno guadagnato, egli apprezza il fatto che sono rimasti fedelmente legati a lui: riceveranno autorità su molto, e soprattutto, entreranno nella gioia del loro Signore.
Davvero sconcertanti perciò risultano il comportamento e le dichiarazioni del servo malvagio: non ha capito l’animo e le intenzioni del suo padrone, che agli occhi e all’animo di quel servo dovette risultare semplicemente un ‘datore di lavoro’, anzi uno che lo sfruttava! Perciò non soltanto deve ammettere che ha paura di lui, ma mostra di comprenderlo in stridente contrasto con la fiducia e la fede degli altri due suoi amici.
Ecco una delle mete dell’approdo alla fede: scoprire Dio magnanimo e vicino! Quando lo si considera lontano, infatti, si è tentati di pensarlo a propria misura, o anche semplicemente di dimenticarlo. Le strade che possono portare l’uomo a incontrarsi con Dio sono assai varie. Una loro caratteristica e costante è però quella di riconoscere che quanto si è e si possiede è tutto dono di Dio, da trafficare per lui e per il prossimo che egli ci fa incontrare.
Può anche accadere che qualcuno metta i suoi talenti a servizio del prossimo per soli motivi di coscienza e di coerenza interiore. Ebbene, prima o poi troverà quel Signore che gli aveva dato i talenti così bene trafficati. Gli dirà allora: ogni volta che operavi il bene a vantaggio dei miei fratelli più piccoli, lo consideravo già fatto per fedeltà a me (cfr. Mt 25,31-46).
Preghiera -Se ci affida tanti beni preziosi – questo mondo e le sue risorse, e tanti doni di intelligenza e di grazia – allora Dio, il padre tuo, ha veramente fiducia in noi. Non è affatto un padrone esoso, né uno sfruttatore esigente, ma piuttosto uno che fa appello alla nostra responsabilità, alla nostra inventiva, alla nostra operosità. Tanto è vero che, alla fine, invita ad entrare nella sua gioia e cosa può esserci di più desiderabile della pienezza che ci offre per l’eternità?
La ricchezza, però, che mette nelle nostre mani non è un regalo destinato solo a noi, a nostro esclusivo beneficio. Sotterrare la nostra fede, coprire la nostra speranza, mortificare la carità, significa in definitiva condannarle alla sterilità e vederle appassire. Si tratta di doni inestimabili, ma anche molto fragili, bisognosi di essere spesi nella vita quotidiana.
Ecco perché la tua parabola, Gesù, ha anche un finale amaro: è il destino di chi si è illuso di poter vivere di rendita, tirando i remi in barca.

300 - L’OLIO CHE NON SI PUÒ PRESTARE: LE DELEGHE IMPOSSIBILI

Per una pausa spirituale durante la XXXIIª settimana

Nella vita di ciascun uomo vi sono delle parole e delle azioni che non possono in alcun modo essere delegate. Gli altri possono sì aiutarci, ma mai sostituirsi a noi in quello che personalmente, e in modo responsabile, siamo chiamati a dire e realizzare.
La pagina evangelica delle vergini sagge e stolte ci presenta una di queste impossibili deleghe. Se l’olio – il combustibile per le lampade – già nel giudaismo, come nei Padri, è stato considerato come le buone/giuste azioni, ne consegue che, quando saremo dinanzi al Signore, ciascuno presenterà quanto compiuto. O, con altre parole, tutto ciò che la vita ci ha offerto per l’esercizio della nostra personale responsabilità, alla fine dei tempi ci verrà chiesto, con la tragedia che non avremo alcuna possibilità per colmare il vuoto che presentiamo, chiedendo ad altri un, ormai impossibile, aiuto. Siamo responsabili in prima persona di quanto detto o non detto, operato o non operato. Per questo, «nessuno deve appoggiarsi sulle opere e sui meriti altrui, perché è necessario che ognuno compri olio per la propria lampada» (Ireneo di Lione).
Ma quanto finora considerato per i singoli ha, al contempo, una valenza comunitaria, perché il numero dieci presente nella parabola dice l’interezza della comunità cristiana (cfr. 2 Cor 11,3). Vi sono, così, delle responsabilità prettamente ecclesiali – per questo non delegabili – che vanno assolte, delle quali ci verrà chiesto conto dal Signore, e nei riguardi delle quali risponderemo pienamente: l’annuncio evangelico, il dono eucaristico, l’amore vicendevole fino al perdono illimitato, la testimonianza trasparente del Dio di Gesù Cristo. Sono, questi, soltanto alcuni ambiti essenziali della vita e dell’azione della Chiesa che esigono la sua piena assunzione di responsabilità nell’attesa che lo Sposo ritorni. Ambiti che ricordano come la Chiesa è in funzione del suo Signore e del Regno e che nella sua vita, nel frattempo storico assegnatole, deve annunciare agli altri uomini e donne l’Evangelo liberante di Gesù.
La prudenza delle cinque vergini, poi, significa vivere sempre preparati alla Parusia, essere cioè vigilanti/pronti durante l’attesa. E anche questo non è delegabile, memori sempre della parola di Gesù: «due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato» (Mt 24,40), perché non si può vigilare/essere pronti al posto di un altro. Ovvero, se la vigilanza/prontezza è l’attesa gioiosa e amante del Signore che viene, proprio queste caratteristiche non possono essere inoculate nel profondo del cuore di un’altra persona. O si ama o non si ama lo Sposo. Pertanto, la delega impossibile consiste proprio nel trovarsi pronti alla venuta del Signore Gesù, rispetto a chi non lo sarà.
La vigilanza dice, inoltre, la fedeltà che deve caratterizzare il discepolo nell’adempimento del dono della fede cristiana ricevuta nel Battesimo, nella vocazione alla quale il Signore ci ha chiamati, nel luogo e con le persone con le quali Egli vuole che ci santifichiamo. Ed anche questa vigilanza non può essere delegata e si manifesta sempre più come atto responsabile del credente che aspetta il ritorno del Signore in atteggiamento di profonda fede nella sua promessa e nella consequenziale fedeltà all’oggi di Dio che è il tempo quotidiano.
Olio che non si può prestare è, ancora, tutto il tempo vissuto nell’ascolto del Signore e nello stare alla sua presenza. Non si può delegare ad altri quanto è responsabilità di ciascuno. Non vi sono persone e luoghi deputati a questo. È l’interezza della compagine ecclesiale che deve avvertire l’impellenza di una vita vissuta nel e col Signore. Per questo la tradizione cristiana ha sempre raccomandato l’esigenza di nutrire e custodire la vita spirituale, personale ed ecclesiale.
Tutte queste impossibili deleghe non potranno mai spegnere però il grido che sempre si alzerà a Dio da parte della comunità ecclesiale: che sia misericordioso verso tutti gli uomini e le donne e ci renda tutti commensali del banchetto eterno.

sabato 5 novembre 2011

299 - LE VERGINI SAGGE E LE VERGINI STOLTE - 06 Novembre 2011 – Domenica XXXIIª Tempo Ordinario

(Sapienza 6,12-16 1ª Tessalonicesi 4,13-18 Matteo 25,1-13)

La vigilanza dice la fedeltà che deve contrassegnare il cristiano nel suo vivere secondo lo stato, gli impegni e le relazioni a cui è quotidianamente chiamato. E questa vigilanza, che si manifesta come agire responsabile del credente, non può essere delegata ad altri. Essa esprime il grado di maturità della nostra fede e nutre la vita spirituale, l’impegno personale ed ecclesiale.
La parabola delle vergini sagge e di quelle stolte è stata per secoli tema d’interpretazione artistica nelle cattedrali e nelle chiese. Raccolti idealmente in una serie ben ordinata di sculture, affreschi e vetrate, questi prodotti dell’arte e della fede costituirebbero una galleria di messaggi spirituali e culturali ancora di grande attualità. È, infatti, sempre un’esigenza dello spirito umano motivare l’esistenza con scelte concrete e con la speranza. Assai eloquente è la risposta del Signore alle ragazze stolte, arrivate tardi all’appuntamento fissato: Non vi conosco!
Che questa scena costituisca la nota più drammatica dell’ultimo episodio della storia umana – quello del giudizio finale – trova una conferma in un testo parallelo che Matteo colloca a conclusione del Discorso della montagna. Val la pena di ascoltarlo integralmente da Matteo 7,21-23: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”».
Non si tratta dunque più di ‘vergini stolte’, ma di persone che «in quel giorno» riterranno sufficiente produrre titoli personali di benemerenze qualificate, attuate «nel tuo nome» (ossia in quello del Signore): Matteo lo evidenzia tre volte, al v. 22! E al v. 13, conclusivo della nostra parabola, l’appello del Signore viene formulato con un comando, a cui si fa seguire la motivazione: non si sa né il giorno né l’ora! Pertanto: Vegliate!
A conclusione di un’esistenza male impostata la voce dall’interno aggiunge al «non vi conosco» delle vergini stolte un comando: “Via da me, operatori di iniquità!”di chi si accontenta di dire: “Signore,Signore”! L’inerzia, il vuoto d’impegno nel vivere la propria presenza nella società, il sottrarsi alle personali responsabilità verso il prossimo e verso Dio non fanno di un uomo o di una donna soltanto degli esseri inutili e insipienti, bensì pure degli operatori di male! Nessuno è a questo mondo soltanto per se stesso. Il bene evitato, il vuoto non occupato, l’omissione di un contributo personale alla crescita comune... è già stoltezza e fallimento spirituale!
Preghiera - La nostra esistenza, Gesù, è percorsa da un’attesa perché ognuno di noi ha un appuntamento decisivo e non ne conosce né il giorno né l’ora. Ecco perché le nostre lampade devono rimanere accese: per non giungere impreparati a quell’incontro da cui dipende la nostra sorte eterna.
La nostra esistenza, Gesù, esige che teniamo gli occhi bene aperti perché sono tanti gli incontri che tu ci riservi per sostenerci lungo il cammino. Ecco perché non deve venir meno quest’olio prezioso che ci permette di rimanere desti e pronti.
È l’olio della fede che ci fa discernere la tua presenza in mezzo a noi. È l’olio della speranza che ci consente di affrontare serenamente gli ostacoli e le difficoltà. È l’olio profumato della carità che fa fiorire in noi mille gesti e parole di fraternità e di misericordia, di pace e di giustizia.

venerdì 4 novembre 2011

298 - QUANDO LE GUIDE ED I MAESTRI NELLA CHIESA DANNO SCANDALO

Per una pausa spirituale durante la XXXIª settimana (SECONDA PARTE)

In realtà la comunità dei credenti in Gesù di Nazaret non ha, non deve avere né guide né modelli, almeno nel senso assoluto/sacralizzato. Si potrebbe anzi dire che il primo e fondamentale scandalo sia questo: un eccesso di mediazione religiosa molto visibile, molto pesante, non solo istituzionalizzata ma sacralizzata, può solo appannare l’unicità della mediazione di Gesù, il suo essere modello per chi crede in lui, l’impegno della sequela fedele e creativa. (Non «fedele e tuttavia creativa»; ma «fedele proprio in quanto creativa»).
È scandaloso, cioè fuorviante e diseducativo – e non unicamente imputabile ai mezzi di comunicazione, sempre un po’ malati di estrinsecismo –, il fatto che la visibilità della Chiesa istituzionale risulti dominante rispetto al fatto cristiano, che dicendo Chiesa d’istinto si pensi al papa e a una gerarchia piramidale prima che a Cristo e al suo Vangelo. In questo senso il Papa, qualunque Papa, potrebbe essere di scandalo, anche qualora fosse personalmente irreprensibile; di scandalo per i credenti e per i non credenti, indotti a una visione deformata dell’essere cristiani.
Al sentir parlare di scandalo offerto da «guide e maestri» nella Chiesa, molti oggi sono indotti in modo quasi automatico a pensare a tristi fatti recenti avidamente amplificati dai mezzi di comunicazione, soprattutto gli episodi di pedofilia da parte di membri del clero. Benché si tratti di episodi gravi e dolorosi, che richiedono una riflessione più profonda e un esame di coscienza da parte di tutte le componenti della Chiesa, oseremmo dire che lo scandalo più specifico e preoccupante non è questo: individui psichicamente labili o corrotti o disonesti si trovano in ogni ambito, come pure altri individui che avrebbero il dovere di vigilare sul loro operato e, per amicizia o per altri motivi, coprono le loro colpe incorrendo così in una sorta di complicità più o meno diretta.
Coloro che nella Chiesa hanno potere a qualunque titolo danno scandalo quando antepongono se stessi all’Evangelo e al bene degli esseri umani: quando affermano di porre al centro l’uomo e la sua dignità, mentre in effetti al centro si trova solo la preoccupazione di riaffermare quanto si è sempre affermato, anche se ormai giustamente percepito da molti come non più sostenibile, di mantenere il più possibile un dominio ecclesiastico sulle coscienze che per lungo tempo è stato confuso con l’autentico vivere cristiano.
Danno scandalo quando impongono o tentano di imporre fardelli troppo pesanti, come dice Gesù, sulle spalle dei fedeli. Danno scandalo – cioè sono di ostacolo alla crescita nella fede – perché, rendendo difficile e quasi anti-umana la fedeltà ai princìpi cristiani, aprono di fatto la strada alla disaffezione e all’abbandono, ma soprattutto perché inducono a formarsi un’immagine deformata e terribile di Dio: non più il Dio di Gesù di Nazaret, ma una specie di divinità astratta e irragionevole, gelosa della felicità dei suoi figli e/o indifferente alla loro sofferenza.
Danno scandalo perché contenuti e stile di certi discorsi ecclesiastici non rendono affatto l’idea di un «lieto annuncio» cristiano, non aiutano nessuno a sentire la fede come novità e liberazione. Danno scandalo quando riducono la fede cristiana a una specie di religione civile (non a caso assai gradita a tanti atei conservatori!) e inducono la gente – dentro la Chiesa e fuori – a identificarla con un misto di ordine, perbenismo, assenza di senso critico, diffidenza di ogni ‘diverso’ e di ogni ‘nuovo’, mentre la logica del vangelo diventa un optional, se non un’anomalia, tanto rispettata a parole quanto di fatto ininfluente. Danno scandalo quando mostrano una non disinteressata apertura verso le correnti più retrive, insieme a un’intollerante severità verso quelle più avanzate. Danno scandalo, infine, quando nel loro agire, nelle loro esortazioni, nelle loro intenzioni manca la trasparenza: cioè quella che i vangeli chiamano la purezza di cuore, e il cui contrario è appunto l’ipocrisia.
L’aspetto più inquietante per noi è che Gesù, nello stesso cap. 23 (vv. 25-26), chiama ‘ciechi’ gli ipocriti, che a forza di ingannare gli altri finiscono con l’ingannare se stessi e non veder più il proprio stato, confondendo le tenebre con la luce. È una cecità particolarmente grave quando si manifesta in coloro che dovrebbero essere e sono considerati le guide spirituali del popolo di Dio. In effetti il peccato di ipocrisia in ogni tempo insidia soprattutto le persone religiose, oggi come al tempo di Gesù. Una potente spinta all’ipocrisia può venire dal ruolo che si ricopre, talvolta dissimulata dinanzi alla propria coscienza con l’imperativo del buon esempio, di non dare scandalo: si potrebbe quasi parlare di una meta-ipocrisia.

297 - QUANDO LE GUIDE ED I MAESTRI NELLA CHIESA DANNO SCANDALO

Per una pausa spirituale durante la XXXIª settimana (PRIMA PARTE)

Lo scandalo è l’idea al centro del vangelo di domenica 30 ottobre – che è certo la pagina più dura del vangelo di Matteo, forse la più dura di tutti i vangeli.
Che cosa è lo scandalo nella Scrittura, lo sappiamo: è l’inciampo, ciò che ostacola il cammino di un altro – il cammino di fede, in questo caso; indistinguibile per noi dal cammino di crescita e di autenticità personale. Si sa però anche come l’idea di scandalo, attraverso i secoli, perdendo la sua iniziale connotazione biblico-teologica e assumendo una connotazione esclusivamente morale (anzi moralistica, nel senso deteriore), abbia conosciuto un processo di imborghesimento e banalizzazione davvero impressionante. È diventata in sostanza funzionale allo status quo e ha fatto identificare l’essere cristiani con una specie di benintenzionato perbenismo, conformista e conservatore, inducendo a perdere di vista la grande, scomoda novità dell’evangelo e la sua carica di appello. Così oggi si parla di scandalo, nella Chiesa come nella società civile, quasi solo in riferimento a fatti di sesso o di denaro, o di entrambi. Benché questi fatti possano avere in effetti una portata di scandalo – perché non solo esercitano un effetto diseducante sugli spiriti più fragili, ma corrodono la spontanea fiducia negli altri che è tanto necessaria alla vita sociale –, la fede e l’essere cristiani in genere risentono in modo più grave di altre forme di scandalo: forme tanto più insidiose quanto meno avvertite e pensate come scandalo.
Così misericordioso e accogliente verso i peccatori e gli irregolari, Gesù sembra talvolta durissimo verso gli ‘irreprensibili’ a cui gli altri guardano come modelli e che hanno una funzione di guida nella vita religiosa; in questo stesso cap. 23 di Matteo, poco più avanti, si trova una serie di invettive nei confronti degli «scribi e farisei ipocriti», che colpiscono per la loro violenza. Il nostro stile espressivo è diverso, anche a prescindere dalle idee; oggi chi si esprimesse in modo simile sarebbe subito accusato di poca carità o di poca prudenza, forse anche di poca civiltà… E tuttavia sappiamo pure che da parte di Gesù la tenerezza di certi momenti come la durezza di altri manifestano amore e coinvolgimento senza fine, così come l’atteggiamento sfuggente ed enigmatico di certi altri momenti, che ha una particolare carica di appello.
Gesù mette in guardia i suoi discepoli e le folle da coloro che si atteggiano a guide e modelli e operano in senso contrario rispetto a ciò che vorrebbero rappresentare. In senso contrario, perché? Facile sarebbe rispondere «perché si comportano male», insomma perché trasgrediscono in privato la Legge che pubblicamente glorificano e tutelano con strati di proibizioni e di interpretazioni. Ma ciò non è sempre vero. Alcuni di quelli contro cui Gesù si scaglia erano effettivamente irreprensibili quanto al ‘fare’, non però quanto allo spirito.
La Legge in Israele è vivente presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perciò pecca contro la Legge non solo e non tanto chi viola uno dei precetti della Legge, ma anche chi la riduce alla materialità dei suoi precetti; pecca contro la Legge chi rende troppo difficile avvertire in essa la presenza, l’amore, l’attenzione costante di Dio – magari perché ne rende troppo gravosa e angosciosa l’osservanza, perché usa la Legge per imporre la presenza e l’influenza propria. Perciò lo scandalo è tanto più grave e tanto più insidioso e doloroso quando proviene da coloro che hanno la funzione riconosciuta di guide e responsabili, di maestri, di ‘modelli’.