venerdì 25 novembre 2011

304 - GESÙ, I POVERI E NOI

Per una pausa spirituale durante la settimana della Solennità di Gesù Cristo, Re dell’universo

Una affermazione piuttosto comune dice: «Il povero è Gesù», o qualcosa di equivalente. L’affermazione è legittima, a patto che essa sia accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di un modo abbreviato di dire, che salta una mediazione, come si vedrà più oltre. Quando ci si dimentica di ciò, possono crearsi dei malintesi: persone motivate ad aiutare i poveri perché sono Gesù, quando constatano che un povero ha comportamenti giudicati immorali o comunque riprovevoli o anche solo scostanti, lasciano cadere sentimenti e opere della solidarietà, proprio perché non riescono più ad identificare quel povero con Gesù. Ora, proprio le condizioni di grande povertà, di miseria, come Benedetto XVI ha recentemente sottolineato, possono provocare degrado morale: se la somiglianza con Gesù fosse la condizione per aiutarli, proprio una tale condizione li escluderebbe dalla solidarietà.
Va detto che i poveri vanno aiutati perché sono poveri, e perché la mancanza dell’indispensabile fa soffrire e umilia, e costituisce una situazione ingiusta, che reclama di essere corretta. E chiunque incontra un povero in stato di necessità ed ha la possibilità di aiutarlo, ha anche il dovere di farlo. Persino la legislazione civile conosce il reato di omissione di soccorso. Ciò corrisponde ad un principio presente in tutte le sapienze etiche, e che perciò sembra corrispondere ad una verità tanto fondamentale quanto universale: il mio prossimo è un essere umano, un altro me stesso, non devo comportarmi con lui come non vorrei che gli altri si comportassero con me, se mi trovassi nella medesima condizione.
Ma nella prospettiva della fede, Gesù, o meglio la nostra relazione con Gesù, che posto ha in tutto questo? A questa domanda si può rispondere seguendo due traiettorie. La prima riguarda il rapporto che Gesù stesso stabilisce con chi è povero. Si tratta di un rapporto d’amore così intenso che fa sì che Gesù introietti, per così dire, la sofferenza del sofferente. Un missionario mi ha riferito che una mamma, con un piccino in braccio, andò a chiedere un po’ di cibo e disse: «Padre, è brutto quando ho fame nel mio stomaco, ma è più brutto quando ho fame nello stomaco del mio bambino». L’amore di una madre rende comprensibile questo modo di parlare. Ebbene, il rapporto di Gesù con i poveri è analogo: il Risorto li ama talmente che le sofferenze e le umiliazioni che cadono su di loro egli le sente su di sé. Per questo è stato detto che Gesù rimane in agonia fino alla fine del mondo, fino a quando un solo essere umano sarà in agonia. Per questo chi perseguita un battezzato perseguita Gesù, chi dà da mangiare ad un povero allevia la fame di Gesù. Non perché il povero sia Gesù, ma perché Gesù, nell’amore, fa sua la fame dell’affamato. E per questo non c’è amore autentico a Gesù che non si traduca anche in fame e sete di far indietreggiare le sofferenze dei suoi fratelli su questa terra: ogni dolore, ogni oppressione eliminata in un fratello è anche eliminata dal cuore di Gesù. E non è qui il caso di ribadire ciò che è ben noto: c’è un privilegio di attenzione verso il povero da parte di Gesù.
La seconda traiettoria studia la relazione che viene a crearsi tra noi e Gesù, quando veniamo a trovarci davanti ad un povero o veniamo a conoscenza di una situazione di povertà, e noi siamo in grado di fare qualcosa. Il povero non è Gesù, ma la provocazione che viene verso di noi dal suo bisogno ci colloca come responsabili davanti a Gesù, così che il sì o il no che diciamo al povero, lo diciamo a Gesù. Per comprendere ciò è necessario analizzare che cosa succede quando veniamo provocati ad una decisione. Il legame che c’è tra noi e le nostre decisioni non assomiglia affatto a quello che si crea tra una gallina e l’uovo che ha deposto. Quando noi prendiamo una decisione, non decidiamo mai soltanto dell’azione esterna che da noi prende vita, ma decidiamo anche e sempre di noi stessi, così che il legame tra la decisione e noi è permanente. È per questo che noi siamo responsabili, e cioè dobbiamo rispondere, delle decisioni che prendiamo. Quando decido di rifiutare l’aiuto al povero, pur avendo la possibilità di farlo, non prendo soltanto una decisione da egoista, ma faccio anche di me stesso un egoista. Intervengo su di me, modifico il mio essere a somiglianza dell’azione che compio. Per questo Gesù ha attirato così fortemente l’attenzione sul fatto che non sono le realtà esterne a noi che decidono della nostra qualità morale, ma le decisioni che partono dal nostro interno. Chi rifiuta la solidarietà fa di sé un egoista, chi sceglie la via della menzogna fa di sé una persona falsa e inaffidabile, chi si decide per l’ingiustizia fa di sé una persona ingiusta.
Alla luce di tutto ciò comprendiamo come in ogni provocazione alla decisione ciò che ci viene chiesto non è soltanto una nostra prestazione, è il nostro stesso io che viene posto in gioco. La cosa diventa molto evidente quando si tratta di una decisione nei confronti di un mio simile: non viene richiesto solo un mio atto di solidarietà, è la mia persona che viene richiesta, e precisamente perché io faccia di me un fratello solidale. Ma un mio simile non potrebbe avanzare una esigenza così radicale nei miei confronti, se attraverso di lui non venisse verso di me colui che è il Signore e il Giudice. Solo la presenza del Signore giustifica pienamente una tale richiesta non solo di donazione, ma di autodonazione. Così il povero non è Gesù, ma la sua povertà mi pone davanti a Gesù, e la risposta che darò al povero è in fin dei conti rivolta al Signore e al Giudice della mia vita.

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