sabato 30 aprile 2011

196 - BEATI QUELLI CHE HANNO CREDUTO - 01 Maggio 2011 – Seconda domenica di Pasqua (Atti 2,42-47 1ª Pietro 1,3-9 Giovanni 20,19-31)

“Nel vangelo d’oggi c’è un cenacolo e una porta chiusa. Una porta chiusa per timore di qualcuno è storia di tutti i giorni, anticipata nel servo della parabola che sotterra il talento per paura di perderlo. Per fortuna che al Signore non importa nulla dei nostri catenacci, ed esce ed entra come vuole con la sua carità. Egli cammina o si ferma, opera o riposa, parla o tace, senza badare ai nostri timori. Il Signore mostra di non offendersi dell’incredulità di Tommaso, ma ne fa anzi un argomento per la nostra fede. Non è vero che al Signore dispiacciono certe resistenze. Quando sono resistenze ragionevoli, quando è l’uomo leale, l’uomo onesto, che, prima di affidarsi a un altro, prova se può fare da sé, il Signore non può essere malcontento. Basta approfondire un po’ l’episodio di Tommaso. È vero che egli si è mostrato contegnoso e renitente, e che prima di gridare: “Signore mio e Dio mio”, ha voluto essere sicuro della piccola garanzia che offrono i sensi, ma, adesso, il Signore sa che può contare su di lui più che sugli altri, che quel grido è un credo che verrà continuato anche davanti al martirio. Tipi come Tommaso ci mettono un po’ ad inginocchiarsi, ma, quando si inginocchiano, si inginocchiano veramente, quando amano, amano veramente. Quando Tommaso si offre, è un uomo che si offre. E se china la sua testa davanti a lui, è una testa d’uomo che di china. Così comincia l’adorazione ‘in spirito e verità’” (Primo Mazzolari, La parola che non passa).
Preghiera - Non è facile venire alla fede, Gesù: ognuno ha un suo percorso particolare che deve compiere portando alla luce gli interrogativi e le domande che si porta dentro e cercando, senza stancarsi, una risposta.
La gioia degli altri apostoli che ti incontrano vivo, risorto dalla morte, contrasta in modo evidente con le richieste di Tommaso. Tommaso non può accontentarsi di quello che gli riferiscono gli altri: è stato troppo grande il dolore per quello che ti è accaduto e ora non vuole affrontare una cocente delusione. Tommaso ha bisogno, Gesù, di vedere e di toccare, di mettere il suo dito nel segno dei chiodi, di mettere la sua mano nel tuo fianco squarciato dalla lancia. Tommaso, l’incredulo, è tuttavia lo stesso che dà voce alla prima professione di fede, colui che ti accoglie e ti dichiara come il suo Signore e il suo Dio.
Gesù, accompagna tutti noi che, senza aver visto, siamo approdati alla fede in te, risorto da morte. Donaci di affidarti la nostra esistenza per avere la vita nel tuo nome.
TRE FATTI ILLUMINANO QUESTA GIORNATA
1)Inizio del Mese di Maggio
, tradizionalmente dedicato a Maria, nostra Madre. Perchè non recitare per tutto il mese un rosario o, almeno, una o più decine insieme … in famiglia? Sarebbe un bel segno pasquale! Ogni giorno sul blog aggiungeremo una breve preghiera o riflessione sulla Madonna.
Preghiera a Maria – “Quando vedesti il tuo Figlio risorto dalla tomba, il terzo giorno, Sposa di Dio, Vergine santissima, cessò tutto il dolore che come madre avevi patito nel vederlo soffrire. Fosti piena di gioia, assieme ai discepoli che, con te, inneggiavano a Lui. Risplendi, risplendi, nuova Gerusalemme, poiché la gloria del Signore è sorta sopra di te; e tu rallegrati, o pura madre di Dio.” ( Liturgia bizantina) Intercedi per noi, o Vergine santa, la tua fede che sa obbedire senza chiedere segni o ragioni, e, quando tutto sembra finito, sa attendere il rinascere della vita. Amen.
2)La Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo per l’esempio di una vita pienamente dedicata al Regno.
3)La festa del lavoro - Alcune dimensioni fondamentali del lavoro:
* una necessità per poter vivere, una necessità per sé e per la propria famiglia che spesso porta fatica e sudore;
* il luogo della realizzazione della persona, delle sue capacità e potenzialità;
* il momento primario di servizio alla società civile, luogo dove si manifesta l’utilità sociale dell’impegno di ciascuna persona;
* un luogo di solidarietà e uno strumento per la crescita della solidarietà sociale;
* in un ottica cristiana il lavoro va collocato nella prospettiva del Regno. Ciò significa anzitutto ripartire dalla scoperta che Dio “lavora” per l’uomo e per il suo bene: all’inizio sta sempre l’iniziativa di Dio, la sua promessa, la sua benedizione. Il lavoro umano pertanto non è attività fine a se stessa o solo dovere, ma simbolo del lavoro creativo di Dio e della sua benedizione. Se c’è una continua cura da parte di Dio sull’uomo e sul mondo, la vita quotidiana viene rivalutata e acquista il suo vero significato. Ma la prospettiva del Regno comporta anche che azione e contemplazione, lavoro e riposo siano due dimensione irriducibili, non contrapposte ma complementari della vita del cristiano. Lavoro e riposo sono il segno dell’immagine di Dio: l’uomo assomiglia a Dio nelle sue prerogative fondamentali, appunto lavoro e riposo.
“O Dio, che nella tua provvidenza hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro al disegno della creazione, fa’ che per l’intercessione e l’esempio di San Giuseppe siamo fedeli alle responsabilità che ci affidi, e riceviamo la ricompensa che ci prometti. Amen.”

venerdì 29 aprile 2011

195 - PER RITROVARE LA VERITA’ PASQUALE - 30 Aprile 2011 – Sabato 1ª sett. di Pasqua

L’aurora più sfolgorante della storia poggia su un’assenza significativa che sembra negare una presenza essenziale. La prima produce sconcerto, ribaltoni ed ansia. La presenza risulta ancor più necessaria per esaltare la vita, per costruire la pace, per rendere nuova la gioia. E tutto ruota attorno a Lui che manca e tutto il resto sembra irrimediabilmente scomparso. Questo capovolgimento delle attese crea lo sconvolgimento dei dati di fatto. E per ritrovare l’ordito della verità pasquale si inizia la corsa della ricerca, dell’annuncio, della conferma.
È stato tanto il bene compiuto da Gesù; sono stati illuminanti i messaggi da Lui consegnati alla storia degli uomini; è risultata una questione di vita o di morte la sua presenza o la sua assenza tra di noi. Ora che non è più, si scopre l’essenzialità della presenza del Messia: è insufficiente farne memoria, bisogna celebrarne il memoriale. La legge, la dottrina e le parole non bastano. Per incontrare, conoscere e vivere il suo messaggio bisogna ritrovarlo Risorto sulle nostre strade, accoglierlo come pane azzimo capace di soddisfare la fame di vita di ogni vivente, sperimentarlo come costruttore di pace nel groviglio delle conflittualità violente del tempo presente.
Tutto questo evidenzia come senza di Lui siamo poveri di verità, mendicanti di infinito, segnati da debolezze esistenziali. Solo la sua risurrezione mette in atto le vertigini che ci immettono nella nuova storia dell’umanità. Solo la sua presenza ci dona la paressia necessaria per annunciare l’evento pasquale fino ai confini della terra. Solo la Pasqua ci libera dalla codardia dei pusillanimi nello spirito. E tuttavia solo di fronte al Risorto emerge la relatività della nostra storia perché la storia, ormai, deve fare i conti con Lui.
Si riparte col nuovo di fronte al sepolcro vuoto: “ so che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto come aveva detto”. Questa novità inizia con l’incredibile atteggiamento dell’apostolo amato che, giunto al sepolcro “si chinò, vide i teli posati là … poi entrò, e vide e credette”.
La Pasqua è, per ogni cristiano, l’inizio del pellegrinaggio al sepolcro vuoto. Ogni domenica il sepolcro ci attende per riempirlo della pienezza della Parola in quanto tutto si è compiuto “secondo le Scritture”. Ed è la fecondità della Parola che ce lo fa incontrare risorto nel gesto dello spezzare il pane. Solo i ricercatori appassionati e instancabili del Risorto diventano gli annunciatori credibili e completi di questo evento pasquale. E qui che trova senso il pianto della gioia. E qui la gioia nata dal pianto della vita diventa contagiosa.

194 - L’INCONTRO DEFINITIVO - 29 Aprile 2011 – Venerdì 1ª sett. di Pasqua

Il commento dell’evangelista è rivolto al proprio lettore perché diventi consapevole che un cammino di fede, una sua autentica maturazione, non può prescindere dall’incontro con le Scritture, in quanto testimonianza del piano salvifico di Dio. È vero che il discepolo amato comincia a constatare l’azione di Dio in quella tomba, e perciò in quella morte dl maestro, ma dovrà anch’egli superare l’ignoranza delle Scritture e giungere con esse e comprendere come la croce non sia estranea al piano salvifico di Dio, ma faccia un’unità indissolubile con la risurrezione. Sono proprio le Scritture a rendere comprensibile l’evento della morte, collocandolo nel piano della rivelazione divina in favore della vita del mondo ( “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito …” Giovanni 3,16). Esse impediscono di percorrere le false piste di rappresentazione della realtà del Risorto e della risurrezione semplicemente come una messa tra parentesi o un annullamento di quanto è avvenuto con la morte di Gesù. I segni che il discepolo amato ha visto quel mattino sono transitori, non disponibili ad altri e tanto meno alle generazioni successive, mentre le Scritture sono accessibili in ogni momento e a tutti coloro che le aprono con fede. È chiaro, per Giovanni, che le Scritture rivelano il volto di un Dio che entra nella storia degli uomini e che si fa imponente per manifestare in modo irreversibile la sua fedeltà alla promessa. La risurrezione di Gesù è l’atto che pone definitivamente il sigillo della fedeltà di Dio sulla vicenda del Nazzareno. Il v. 10 (non riportato purtroppo dalla pericope liturgica) vede i due discepoli tornare nuovamente a casa: “ I discepoli perciò se ne tornano di nuovo a casa”. In un certo senso le tenebre da cui erano partiti non sono ancora del tutto dissipate e il rischio del ripiegamento su se stessi è ancora molto forte. Per questo ci vorrà il dono dello Spirito! Quando il discepolo amato sarà rivestito della forza dello Spirito, nella sera di quel medesimo giorno, diventerà quello che è chiamato ad essere: il testimone dell’amore di Cristo.

193 - NEL SEPOLCRO … CON IL DISCEPOLO AMATO - 28 Aprile 2011 – Giovedì 1ª sett. di Pasqua

L’identità di questo discepolo resta per il quarto vangelo volutamente misteriosa. Infatti non è mai indicato con il suo nome, ma con la qualità che gli deriva dalla sua relazione con Gesù, perché è questa relazione che fa di lui una persona nuova. Identificarlo con Giovanni – anche se storicamente potrebbe essere possibile, forse plausibile – è compiere un’operazione indebita, che va contro l’intenzione dell’evangelista. Il discepolo che Gesù amava rappresenta infatti il discepolo che in ogni tempo dovrà essere presente nella comunità, in quanto si lascia raggiungere dall’amore di Gesù, ne ascolta i segreti del cuore e non si scandalizza di fronte al suo amore quando sembra perdente, sprecato. In definitiva, non è un discepolo anonimo, perché riceve il nome nuovo di ‘amato’. Il discepolo amato riconosce l’autorità di Pietro e per questo lo attende e lo lascia entrare per primo nel sepolcro, limitandosi per il momento a guardarvi dentro dall’esterno e a notare che i teli sono ancora nella loro posizione. “Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva” (v.6). Questo ‘lo seguiva’, detto di Pietro rispetto al discepolo amato, non può essere certamente, nel dettato giovanneo, una semplice annotazione spaziale e temporale, ma un indizio teologico: il discepolo amato deve essere ‘seguito’, cioè il suo lasciarsi raggiungere dall’amore di Cristo deve diventare esemplare per ogni cammino di discepolato e per realizzare un autentico servizio dell’autorità nella comunità. Dopo che Pietro è entrato nel sepolcro e ha visto l’inconsueta scena, vi entra anche il discepolo amato, che ha una reazione ben diversa. L’oggetto visto è il medesimo, ma il discepolo amato scorge ben più in profondità, e inizia a penetrare nel mistero, e cioè in quella rivelazione di Dio che lì si è compiuta. Comincia allora ad aprirsi alla fede pasquale, per cui nella morte di Gesù non si è consumato un fallimento, ma si è manifestato l’amore divino che trionfa sulla morte. Il discepolo amato, dunque, non si arresta davanti ai segni materiali collegati alla morte di Gesù, ma si apre allo sguardo della fede, per cui questi segni diventano indizi rimandati ad un ‘oltre’, ad una dimensione trascendente, divina: “ e vide e credette”. Certamente questa fede pasquale è ancora germinale e dovrà anch’essa maturare negli incontri con il Risorto, attraverso il dono dello Spirito. Non è allora contraddittorio con questa iniziale apertura alla fede da parte del discepolo amato quanto l’evangelista aggiunge, subito dopo, a modo di commento: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti” ( v.9).

192 - NEL SEPOLCRO … CON PIETRO - 27 Aprile 2011 – Mercoledì 1ª sett. di Pasqua

Una volta giunto al sepolcro ed entratovi, Pietro osserva qualcosa che attira la sua attenzione: “Osservò i teli posati là , e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte” (vv. 6-7). I teli funebri sono collocati con una disposizione tale da far capire che la tomba non è stata violata, perché non ci sono segni di saccheggio, di trafugamento. Se i teli son là dove devono essere, mentre il corpo è inspiegabilmente assente, la cosa è diversa per il sudario, che è “in disparte, ripiegato in un luogo”. La posizione del sudárion ha dunque per l’evangelista un significato particolare, che però è oggetto di interpretazioni molto varie. La differenza con il racconto della risurrezione di Lazzaro è palese, perché Lazzaro era uscito dal sepolcro ancora avvolto nei teli funerari e con la faccia coperta dal sudario. ( “Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario” Giovanni 11,44). Nel caso della tomba di Gesù, gli ‘addobbi’ della morte sono svuotati o allontanati. Va notato anche il participio passivo per indicare il sudario ripiegato, quasi a suggellare un atto che decreta la sconfitta della morte. È una smobilitazione degli addobbi che deve preparare all’intuizione della fede, e cioè che in quella tomba Dio ha agito. Ma quanto Pietro vede resta per lui enigmatico ed egli non coglie affatto i segni della morte sconfitta in quel sepolcro vuoto, in quei teli svuotati e in quel sudario avvolto in un luogo a parte. Peraltro quest’ultima espressione, dato che il termine ‘luogo’ è nel quarto vangelo solitamente riferito al tempio, potrebbe anche essere un’annotazione polemica: l’istituzione che ha decretato la morte di Gesù è ora posta sotto la sentenza di morte, mentre il condannato è riabilitato.

191 - UNA MISTERIOSA ATTRAZIONE - 26 Aprile 2011 – Martedì 1ª sett. di Pasqua

La comunicazione di Maria di Magdala spinge i due interlocutori, Pietro e il discepolo amato, ad andare a verificare l’accaduto. Sta cominciando qualcosa di nuovo, e lo si avverte dal verbo utilizzato a proposito di Pietro che ‘esce’ con l’altro discepolo. È un uscire che richiama l’esodo: per il momento sono ancora nell’Egitto dell’incredulità, ma potranno giungere alla terra della fede, alla libertà del credere. C’è qualcosa di sorprendente in questo movimento, che diventa una corsa a perdifiato, quasi come se una forza misteriosa li attirasse verso quella tomba. Non è una gara a chi arriva primo, ma un voltare le spalle al passato, con la segreta speranza che ci sia un futuro diverso. Certamente il discepolo amato ha una prevalenza in questa corsa, perché la forza che lo attira è maggiore, è la forza di quell’amore da cui si è lasciato amare.! Più faticosa e lenta la corsa di Pietro, quasi fosse ancora appesantito dal ricordo del suo rinnegamento, dalle esitazioni dovute al suo passato di discepolo infedele. Va poi ricordato che la lettura tradizionale ha associato i due discepoli e il loro rispettivo correre al sepolcro alla polarità, sempre presente nella comunità cristiana, tra carisma ed istituzione, tra amore ed autorità, tensione che sarà risolta nel dialogo tra Gesù e Pietro sul lago Tiberiade (Giovanni 21,15-24). Sostando sulla figura di Pietro, si può intuire che sta avvenendo qualcosa in lui, anche se non è ancora davvero visibile. L’ultima volta che il quarto vangelo ne ha parlato, Pietro era come impietrito e paralizzato attorno al fuoco, presso il quale cercava invano di scaldarsi, mentre rinnegava il suo Maestro. Ora la paralisi è superata, e il movimento lascia trasparire un cambiamento, anche se non si può ancora parlare di una vera speranza in una vittoria sulla morte, di una fede nella vita del Crocifisso. È forse per questo che giunge al sepolcro in ritardo?
Oggi si celebra la festa del Beato Giovanni Battista Piamarta(1841-1913). Nacque a Brescia da povera famiglia. Divenuto sacerdote nel 1865, si dedicò all’educazione della gioventù in varie parrocchie della diocesi. Colpito dalle deplorevoli condizioni dei giovani, diede inizio all’Istituto Artigianelli (1886) in Brescia e alla celebre Colonia Agricola (1896) di Remedello Sopra (BS) con la collaborazione dell’agronomo Padre Giovanni Bonsignori. Promosse la vita religiosa, fondando la Congregazione “Sacra Famiglia di Nazareth” (1900), a cui appartengo, e con Madre Elisa Baldo quella delle “Umili Serve del Signore” (1911). Si distinse per una profonda pietà e per un grande amore per i giovani del mondo del lavoro, ai quali dedicò tutte le sue energie.
Il 12 Ottobre del 1997 è stato proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II che ha detto di lui: “Piamarta, seguendo l’esempio di Gesù, accompagnò molti ragazzi e giovani ad incontrare lo sguardo amoroso ed esigente del Signore. Quanti, grazie alla sua opera pastorale, poterono avvicinarsi con allegria alla vita, avendo appreso una professione, ma soprattutto avendo avuto la grazia di incontrare Gesù ed il suo messaggio di salvezza … Egli ha lasciato un grande segno nella diocesi di Brescia e nella Chiesa intera. Dove attingeva questo straordinario uomo di Dio l’energia sufficiente per le sue molteplici attività? La risposta è chiara: la preghiera assidua e fervente era la fonte del suo ardore apostolico instancabile e dell’attrattiva benefica che esercitava sopra tutti quelli che si avvicinavano a lui. Egli stesso affermava, come ricordano vari testimoni suoi contemporanei: “Con la preghiera noi siamo forti della stessa forza di Dio … Posso tutto … Tutto è possibile con Dio, per Lui ed in Lui!”

190 - UN NUOVO INIZIO - 25 Aprile 2011 – Lunedì 1ª sett. di Pasqua

Premessa - Il tempo pasquale è il centro dell’anno liturgico. La centralità compete a questo tempo per il fatto che è un tempo privilegiato per la memoria di Gesù Cristo, crocifisso e risorto. È memoria dell’evento pasqua che resta presente nella sua piena efficacia, e perciò anche esperienza vitale che anima la fede dei cristiani, confessione e testimonianza della vita nuova inaugurata dalla risurrezione di Gesù.
Le letture di questo tempo pasquale esortano a porre l’esistenza quotidiana in continuo riferimento con questa memoria del mistero della Pasqua. La professione di fede nel Risorto comporta sempre anche la consapevolezza di quanto Dio ha operato in lui per noi. Il richiamo all’agire di Dio nella storia dà valore anche al presente e orienta ad un futuro nuovo da costruire. Dio ci chiama ad essere collaboratori.
La fede pasquale può allora comunicare anche un realistico senso di ottimismo. Il cristianesimo non è esperienza di indifferenza o di scetticismo, ma consapevolezza che Dio opera nella storia per condurla ad un fine buono. Nei vangeli pasquali ricorre spesso la promessa dello Spirito che dona la pace. Si allude qui allo shalom di cui parla spesso la Bibbia: non una semplice assenza di conflitti, ma una presenza riconciliante e capace di costruire armonia nell’uomo e tra gli uomini. Un’armonia che ha la sua radice nell’armonia dell’uomo con Dio, frutto della Pasqua di Gesù.
Dedicheremo il tempo pasquale a meglio conoscere tutti i brani dei vangeli che parlano della resurrezione di Gesù Cristo, nostro Signore.
Un nuovo inizio - Il testo del vangelo di Giovanni (20,1-9) della visita alla tomba vuota costituisce un racconto di rivelazione del mistero di Cristo come colui che ha vinto la morte e che perciò la morte non ha potuto trattenere nel sepolcro. Ma è anche un racconto di trasformazione, perché in uno dei due discepoli che corrono alla tomba avviene qualcosa che è come l’inizio della fede, il principio di un’apertura al nuovo mondo di Dio.
Vi è un nuovo inizio, anche se i protagonisti umani della vicenda non lo sanno ancora. Per questo l’evangelista introduce il racconto con l’intrigante formulazione: “Il primo giorno della settimana” (letteralmente: l’uno dopo il sabato). Annotazione cronologica con valore simbolico, allusiva alla nuova creazione, che è ormai in atto e che diventerà evidente nel racconto dell’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala, dove lui è come il nuovo Adamo, custode del giardino di Dio. L’altra indicazione cronologica riguarda l’ora del giorno: “ … di mattino, quando era ancora buio”. Di mattino perché è già iniziato il giorno della risurrezione; quando è ancora buio perché i protagonisti umani, che si muovono intorno al sepolcro di Gesù, sono ancora immersi in un’atmosfera d’incredulità. La prima ad apparire in scena è Maria di Magdala, che corre al sepolcro, vede la pietra tolta da esso e corre a segnalare il fatto a due dei discepoli, che nel racconto giovanneo hanno un ruolo di spicco: Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava. Maria è certamente mossa da un profondo affetto per il Maestro, affetto che traspare dal suo andare al sepolcro di primo mattino, e poi dal suo ritornare di corsa a comunicare la notizia per lei sconvolgente circa il sepolcro di Gesù. Non c’è ancora in lei un atteggiamento di fede, che sgorgherà solo quando la parola del Risorto la raggiungerà interpellandola per nome. Pertanto il sepolcro è solo un mnēmêion, cioè un luogo per la memoria, ma non per l’appuntamento con un vivente. L’assenza del corpo di Gesù nel sepolcro è interpretata da lei con schemi meramente umani, e cioè come risultato di un trafugamento del cadavere. Ella non pensa affatto ad una possibile azione di Dio; il suo amore per Gesù è grande, e lei non è riuscita a comprendere il senso di quella morte, che le appare solo come la fine irrimediabile. In questa ottica, Maria di Magdala rappresenta quell’umanità che guarda a Gesù con simpatia, con sincera ammirazione, magari anche facendone propri gli insegnamenti, ma non riconoscendo in lui colui che ha vinto la morte e che ha fatto trionfare la vita. Se Maria di Magdala si aprirà alla fede nella risurrezione, ciò non sarà dovuto ad una sua autonoma maturazione interiore, ma all’azione del Risorto, alla forza della sua parola e del suo Spirito. In definitiva, ella si aggira nelle tenebre perché in lei non è ancora sorto il sole della fede; e, del resto, nelle tenebre restano per il momento avvolti anche gli altri discepoli.

venerdì 22 aprile 2011

189 - BUONA PASQUA!



188 - ALLELUIA! CRISTO E’ RISORTO…E’ VERAMENTE RISORTO! - 24 Aprile 2011 – Domenica di Pasqua - (Atti 10,34a.37-43 Colossesi 3,1-4 Giovanni 20,1-9)

In questa domenica la Chiesa esprime la sua gioia per la risurrezione di Gesù e professa la sua fede: Gesù vive, al di là della morte. Egli è il primo dei viventi, il lui il Padre rinnova la sua creazione. La comunità cristiana riceve così la missione di annunciare al mondo, nella forza dello Spirito di Gesù, la speranza di una vita resa nuova. Al di là di ogni naufragio, al di là di tutte le sofferenze, oltre le barriere e le divisioni possiamo ricostruire le nostre storie personali e lavorare per una storia dell’umanità all’insegna della riconciliazione e dell’amore. Ogni uomo e ogni donna possono impegnarsi per diffondere una nuova cultura della vita.
Il Vangelo del giorno di Pasqua racconta lo stupore dell’umanità, qui rappresentata da due apostoli, davanti al sepolcro vuoto: quella tomba vuota parla di un’assenza e contemporaneamente di una forma nuova di presenza. Anche per noi oggi essa resta un segno eloquente: il male può essere sconfitto dalla forza creativa che viene da Dio. Coloro che ci vogliono convincere dell’assenza di Dio non possono cancellare la luce del mattino di Pasqua.
Preghiera - C’è un sepolcro vuoto, il tuo sepolcro, Gesù, e Maria dà voce alla prima congettura: hanno portato via il tuo corpo, l’hanno privata della possibilità di piangerti e di gridare il suo dolore.
C’è un sepolcro vuoto, il tuo sepolcro, Gesù, e Pietro e Giovanni vanno a constatare l’annuncio ricevuto. Vanno in fretta, corrono, come ogni volta che viene offerto un segno da parte di Dio … Come Maria che ha raggiunto in fretta la casa di Zaccaria, il sacerdote … Come i pastori che, nella notte, hanno deciso di andare subito a vedere quel bambino venuto per diventare la gioia di tutta l’umanità.
C’è un sepolcro vuoto, il tuo sepolcro, Gesù, e chi ha ricevuto il dono della fede come l’altro discepolo, Giovanni, comincia a credere, si apre alla realtà ancora misteriosa, inspiegabile, ma straordinariamente bella.
Si, tu sei vivo: la morte non ha potuto fermarti! Si, tu sei vivo: nel cuore di chi si affida a te accendi una speranza che non viene meno!

187 - IN SILENZIO DAVANTI ALLA TOMBA DI GESU’ - 23 Aprile 2011 – Sabato Santo

La terra è sfinita. Tutto dorme e attende. Mentre l’anima di Gesù è scesa, per portarvi la vittoria, fino al profondo degli inferi, il suo corpo dorme pacificamente nella tomba, in attesa delle meraviglie di Dio.
Perché questo Grande Sabato non è come gli altri? Qualcosa è radicalmente cambiato. La cortina del Tempio si è lacerata da poco, brutalmente, scoprendo il Santo dei Santi. Il Tempio non è più al suo posto. Il Sabato non è più nel Sabato. La Pasqua nella Pasqua. Tutto è altrove. Tutto è qui accanto, accanto al corpo che dorme nella tomba. Tutto è attesa, tutto deve ora avvenire.
La Chiesa, sposa di Gesù, non si è disorientata. Essa persiste presso al tomba che serba il corpo amato. L’amore non si affievolisce, non si dispera; l’amore può tutto e spera tutto. Sa di essere più forte della morte.
Che cosa non ha fatto in quell’ora di tenebre l’amore di alcune persone, tra cui la vergine Maria, perché Gesù fosse strappato alla morte? Dio solo lo sa. Ha qualcuno presentito la densità di vita di cui questo cadavere e questa tomba sono colmi, come un giardino di primavera dove anche di notte è tutto un fruscio di vita e di linfa che scorre? Noi non lo sappiamo. Sappiamo solo che Giuseppe d’Arimatea fece rotolare una grande pietra all’entrata della tomba prima di andarsene, mentre Maria Maddalena e l’altra Maria erano là, di fronte alla tomba. Esse non sanno sicuramente ancora niente ma perseverano nell’amore. Il vuoto che improvvisamente si è creato davanti a loro è così grande che solo Dio potrebbe colmarlo. Con loro tutta la Chiesa attende nell’amore.
Il Sabato Santo è il giorno della sepoltura di Dio. Non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo ad essere un grande sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto aleggiante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano, pieni di vergogna e di angoscia, al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
“Disceso all’inferno”: questa confessione del Sabato Santo, sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema, nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Gesù si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la ‘terra di nessuno’ della solitudine è stata abitata da Lui.
Preghiera - Padre nostro che sei nei cieli e tieni lo sguardo su di noi, piccole creature della terra, ravviva la nostra fede e la nostra speranza davanti al mistero della morte. Anche Tu, insieme al tuo Figlio, hai voluto sperimentare il gelido silenzio del sepolcro. Anche Tu, che sei l’eterno Vivente, hai voluto, per amore e per compassione, diventare come un seme gettato nella terra. Per la tua sconvolgente umiltà ed empatia, donaci la grazia di saper accettare con animo forte e sereno la legge naturale della morte quale passaggio alla vita risorta.

186 - LA PASSIONE NEL VANGELO SECONDO GIOVANNI - 22 Aprile 2011 – Venerdì Santo

Il quarto vangelo (18,1-19,42) si distingue dai sinottici per originalità di schema e sensibilità di contenuto. Sebbene nel racconto della Passione mostri una grande affinità con gli altri scritti evangelici, sono comunque presenti tratti particolari che motivano la trattazione a parte del quarto vangelo. In modo sintetico elenchiamo le principali differenze, distinguendo omissioni e aggiunte.
Giovanni, confrontato con i sinottici, omette:
· Il racconto dell’agonia nel Getsemani;
· Il bacio di Giuda;
· Il processo giudaico davanti al Sinedrio;
· Gli oltraggi in casa del sommo sacerdote e gli scherni sotto la croce;
· Le tenebre al momento della morte.
Il quarto vangelo, peraltro, è il solo a ricordare:
· L’impressione di maestà che Gesù offre a coloro che lo arrestano;
· L’interrogatorio di Anna a Gesù sulla sua dottrina;
· L’ampio interesse per il processo romano davanti a Pilato con le scene dell’Ecce homo e dell’Ecce rex vester;
· La discussione a proposito del cartello sulla croce;
· L’interpretazione della divisione delle vesti secondo il Salmo 22;
· La presenza della madre e del discepolo prediletto sotto la croce;
· Il riferimento all’agnello pasquale e il colpo di lancia che fece uscire dal costato sangue e acqua.
In generale possiamo dire che Giovanni non insiste sui tratti tragici e umilianti, perché vede tutto immerso nella luce del compimento della storia della salvezza.
La documentazione diventa più facile e convincente quando si passa in rassegna una breve sequenza degli avvenimenti. Rispettando le unità di luogo, il racconto offre cinque scene che ora facciamo scorrere davanti a noi nel loro dinamismo essenziale.
Prima scena: Gesù e i suoi avversari (18,1-11) - All’inizio sono presentati i personaggi: Gesù e i suoi discepoli da una parte, Giuda con le guardie dall’altra. La nobile sovranità di Gesù e la sua padronanza sugli eventi si coglie in quel “Sono io”. Le parole hanno una tale potenza che i suoi nemici e le forze avversarie indietreggiano e cadono a terra: “Proprio nel momento in cui ci si aspetterebbe che la vittima disarmata crolli, Giovanni descrive Gesù nel pieno controllo della situazione” (D. Senior). Il “ Sono io” è ripetuto con insistenza e riveste particolare valore teologico: siamo in presenza della manifestazione del nome di Dio (cfr. Esodo 3,6.14). Colui che è cercato per essere messo a morte, è in realtà colui che guida la storia e determina il destino umano.
Seconda scena: Gesù davanti ad Anna (18,12-27) - L’importanza di questo episodio sta nelle dichiarazioni di Gesù davanti all’anziano sommo sacerdote, non più in carica, ma ancora molto influente. Con Anna viene subito citato Caifa, il sommo sacerdote in carica, quello che aveva suggerito in 11,50 che l’eliminazione di un solo uomo sarebbe stata di giovamento a tutti i Giudei. Con questo ricordo la storia si innesta alla teologia. Con delicatezza, pur senza sconti alla verità storica, l’evangelista presenta pure il contrasto tra Pietro e Gesù. Pietro era potuto entrare per la mediazione dell’“altro discepolo”, conosciuto nell’ambiente. Mentre costui è pacificamente qualificato come discepolo di Gesù, Pietro non accetta tale identità, ovviamente per paura di spiacevoli conseguenze. Si nota il contrasto fra l’interrogatorio di Pietro che rinnega il Maestro e quello di Gesù che manifesta apertamente la sua identità, anche se ciò gli può costare caro. Gesù dice di aver parlato e il verbo ‘parlare’ esprime bene l’attività rivelatrice di Gesù (cfr. 12,40-50). Lo schiaffo del servo è come la risposta del giudaismo e del mondo a questo insegnamento.
Terza scena: Gesù davanti a Pilato (18,28-19,16) - Questa parte si articola in sette quadri, tanti sono i movimenti di entrata e di uscita di Pilato. Nel primo colloquio con Pilato Gesù spiega il vero significato della sua regalità. Egli, il vero testimone della rivelazione messianica, cioè della “verità” che è lui stesso (cfr. 14,6), è “re” di coloro che ascoltano la sua parola. Pilato non ne afferra il senso, ed è però convinto della non colpevolezza di Gesù, sicché tenta di liberarlo. La incoronazione di spine sta al centro della sezione ed è posta in relazione con la regalità di Gesù: Giovanni non parla di sputi, di colpi sulla testa, di genuflessioni canzonatorie dei soldati; riferisce però degli schiaffi, interpretati come rifiuto violento della regalità da parte degli uomini. Poi viene la scena dell’“Ecce homo” che prepara quella finale dell’“Ecce rex vester”. Ora, un particolare serve alla teologia dell’evangelista: Gesù è condotto davanti al popolo con le insegne regali (corona di spine e mantello purpureo) e a lui non sono restituite, come dicono i sinottici, le sue vesti (cfr. Mt 27,31). Quindi Gesù continua ad indossare il mantello regale. È come dire che continua ad essere re. Segue un altro colloquio di Gesù con Pilato che tenta di salvarlo presentandolo alla folla come re, ma Gesù è respinto con un “ via, via!”. Il processo si conclude e Pilato consegna Gesù ai Giudei per la crocefissione.
Quarta scena: la croce di Gesù (19,17-37) - Un cartello con la condanna scritta in tre lingue (latino, greco, ebraico) proclama la regalità di Gesù di fronte al mondo. Nel racconto della Passione ben dodici volte è usato il titolo di ‘re’ e tre volte il termine ‘regno’. Se consideriamo che Matteo usa spesso ‘regno’ durante il ministero ma una sola volta nella Passione, comprendiamo che Giovanni con l’uso abbondante qualifica la Passione come epifania del Cristo-Re. Inoltre, la tunica non divisa simboleggia l’unità della Chiesa, realizzata dalla morte di Gesù, come aveva profetizzato Caifa (Cfr.11,52). Proprio di Giovanni è la scena di Maria e del discepolo prediletto sotto la croce. A loro Gesù rivolge toccanti parole che mettono in luce l’intenso valore ecclesiale della loro presenza. Dopo questo, Gesù pronuncia il “consummatum est”, espressione conclusiva del totale compimento della volontà del Padre. Gesù aveva annunciato solennemente ai discepoli in 4,34 che la totale accoglienza della volontà del Padre costituiva il suo programma di vita. Ora, nel momento di concludere l’esistenza terrena, dichiara solennemente che tale volontà è stata eseguita perfettamente e con pieno amore. La morte giunge a suggellare una vita d’amore. Nessuna sorpresa o novità per il lettore attento che già conosce l’interpretazione data da Gesù spesso alla morte: essa è intesa come un atto d’amore, un dono di vita per l’altro, un amore gratuito che si spinge fino alle frontiere dell’inimmaginabile(Cfr.15,13). “Trasformando tanto profondamente il significato della croce in segno di amore trionfale, il Vangelo di Giovanni capta il paradosso intrinseco alla rivelazione cristiana e dischiude il mistero senza fine dell’amore di Dio per il mondo” (D. Senior). L’ultimo quadro di questa scena è solo di Giovanni. A Gesù non sono state spezzate le gambe e tale fatto è collegato, grazie alla citazione biblica, al rituale dell’agnello pasquale (Cfr. Esodo 12,46). Gesù muore come agnello pasquale della nuova alleanza. Troviamo ancora un prezioso particolare che denota la sensibilità giovannea, che ben si coniuga con la lettura veterotestamentaria. Ora il riferimento è al profeta Zaccaria che aveva parlato di una fontana zampillante per gli abitanti di Gerusalemme (Zc 13,1), di uno spirito di grazia e consolazione e di uno sguardo a colui che hanno trafitto (Zc 12,10). Dal costato trafitto sgorga la vita dello spirito (Cfr. 7,38s.): la salvezza viene da Gesù crocifisso.
Quinta scena: la sepoltura (19,38-41) - La scena ci porta nuovamente in un giardino: questa volta è quello della sepoltura e non dell’arresto. L’evangelista anche sul finale presenta aspetti di regalità. Sono presenti o si danno da fare uomini di notevole importanza sociale, come Giuseppe di Arimatea e Nicodemo. Gesù è sepolto come i grandi uomini di questo mondo, da persona autorevole e con grande sfarzo: per lui si impiegano i profumi senza risparmio. Non a caso Giovanni registra la quantità di aromi impiegati, “circa cento libbre” (tradotto nelle nostre misure, si tratta di circa 32 Kg e la quantità è ben cento volte quella del profumo di Maria come viene raccontato in 12,3): sembrerebbe eccessiva, uno spreco, se non fosse per la somma dignità del defunto. La quantità serve appunto a indicare quanto fosse importante quel cadavere crocifisso. L’ultimo atto consiste nel deporre Gesù in un sepolcro nuovo, che Giovanni precisa essere vicino al luogo della sepoltura, perché ormai stava per finire la preparazione della festa e, al tramonto, iniziava ufficialmente la pasqua. Gli uomini hanno concluso ufficialmente la loro azione. Ora tocca a Dio orientare diversamente il corso degli eventi.

mercoledì 20 aprile 2011

185 - L’ULTIMA CENA: GESU’, MAESTRO E SIGNORE, IN TENUTA DI SERVO - 21 Aprile 2011 – Giovedì Santo

Il testo giovanneo (13,1-15) racconta quello che Gesù ha fatto nell’Ultima Cena: l’introduzione è solenne e fa percepire immediatamente il carattere eccezionale e l’importanza di quello che segue: “Prima della festa della Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (v.1). Si viene così subito invitati a seguire con un’attenzione del tutto speciale ciò che verrà narrato. La scena è, prima di tutto, una “ rivelazione in atto” il cui significato non è immediato: “ Capite quello che ho fatto per voi?”. Si comprende bene, comunque, la reazione di Pietro: “Tu non mi laverai mai i piedi”, e la sua resa quando esso gli appare come un gesto di purificazione. Ma si tratta, in effetti, di molto di più.
“… perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Lavando i piedi ai discepoli, Gesù ha mostrato loro quello che dovevano fare: “Vi ho dato l’esempio”. Solo ora noi possiamo capirlo veramente perché abbiamo visto come ha amato i suoi “sino alla fine”, fino a morire per loro perché abbiano parte con lui. Si tratta così di una rivelazione in atto del mistero di Dio, di Gesù e della sua Pasqua. “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi” (1 Giovanni 3,16). L’ha fatto liberamente, sapendo ciò a cui andava incontro perché ha voluto essere il servo dei suoi fino a questo punto, lui il Signore e il Maestro. Nello stesso tempo ci ha donato un esempio: “perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ogni discepolo del Signore, dunque, deve vivere per i suoi fratelli, sapendo che conservare gelosamente la vita per sé costituisce una pura perdita, mentre colui che se ne distacca la conserva per la vita eterna (Cfr. Giovanni 12,25).
Il ‘segno’ della lavanda dei piedi e il sacramento dell’Eucarestia. Anche se Giovanni non adopera questo vocabolo, la lavanda dei piedi può essere considerata come uno dei ‘segni’ che scandiscono il quarto vangelo e come un ‘segno’ della Passione. In effetti si può vedere come Gesù si è spogliato non solo delle sue vesti, ma anche totalmente di se stesso, assumendo la condizione di un ‘servo’ (Cfr. Filippesi 2,7-11). Gesù ha compiuto il segno della lavanda dei piedi nel corso del pasto che ha preso con i suoi discepoli prima di entrare nella sua Passione. Giovanni non lo dice, ma i suoi uditori sanno che è in quell’occasione che ha istituito l’Eucarestia. Secondo questa prospettiva il segno della lavanda dei piedi completa quello che dicono i sinottici e San Paolo al proposito: questo è il sacramento dell’amore di Dio e del Cristo e nello stesso tempo della carità fraterna.
Gesù che lava i piedi ai suoi apostoli non è solamente il Figlio di Dio in mezzo a noi, ma è curvo, in ginocchio, con la testa abbassata, ai nostri piedi. Non è solo con noi, seduto alla nostra tavola, ma addirittura a terra, ai piedi di questa tavola. Chi siamo noi perché Dio abbia voluto servirci fino a questo punto? O piuttosto, quanto è immensa questa tenerezza divina che si manifesta in questo modo ai nostri occhi pieni di sorpresa e di stupore? Attraverso i gesti del suo Signore, la Chiesa ritrova la sua vera identità. Il Giovedì Santo riconduce la comunità al gusto autentico del Vangelo e le ricorda che ogni ministero è di sua natura un servizio. La purifica dalla ricerca degli onori e di ogni vanagloria. Il gesto di Gesù è molto di più che un gesto di umiltà, è un gesto di ospitalità: in tal modo Egli accoglie i suoi discepoli. È ai piedi di ciascuno di noi che Gesù si inginocchia per farci partecipare alla sua vita.
“Fate questo in memoria di me”. È, in fondo, il testamento di Gesù, che sa di essere vicino alla morte. Ai suoi discepoli Egli domanda di celebrare l’Eucarestia, di condividere il pane a il vino, in sua memoria. Oggi, Giovedì Santo, il comandamento, rivolto a tutta la comunità, trova subito esecuzione. E questo accade grazie al ministero ordinato. Ma il comandamento non impegna solo a ripetere un rito: esso fa trasparire l’unico comandamento dell’amore. Gesù, infatti, invita i suoi discepoli a fare come Lui, ad offrirsi nell’amore. Ciò che si compie nel Cenacolo non è però destinato a restare rinchiuso in quelle mura: Gesù apre infatti una prospettiva nuova, ci fa guardare a quel banchetto escatologico in cui scorrerà il vino nuovo. Allora, finalmente, la Pasqua troverà compimento nel Regno.

184 - LA PASSIONE NEL VANGELO SECONDO LUCA - 20 Aprile 2011 – Mercoledì Santo

Il terzo vangelo presenta la Passione (22,1-23,56) prima di tutto come un martirio (o testimonianza), non di un’idea, ma della volontà di Dio: “ Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quando è stabilito” (22,22). La Passione di Gesù avviene secondo il piano di Dio, racchiusa nella visione teocentrica di Luca. L’evangelista ama sottolineare alcuni aspetti che anche per il futuro saranno normativi: il silenzio e la pazienza davanti agli insulti e alle accuse (cfr. 23,9), l’innocenza del condannato ammessa da Pilato e da Erode (cfr. 23,43), il perdono accordato a Pietro (cfr. 22,61) e ai peccatori (cfr. 22,51; 23,34). Per i discepoli la testimonianza di Gesù è un appello, un caldo e pressante invito a fare lo stesso. Infatti Stefano, che incarna il vero discepolo, si comporterà in modo analogo (cfr. Atti 6,59s.). Così Luca raffigura nella Passione il primo e vero martire. Nessuna sorpresa, di conseguenza, che il tema del testimone ricorra con tanta insistenza anche nel libro degli Atti. Affine al tema precedente è quello dell’innocenza. L’ idea non è certo nuova perché ricorre anche negli altri evangelisti, ma solo Luca espone i tre capi di accusa politici che l’autorità giudaica imputa a Gesù (cfr. 23,2) e il singolare fatto che per ben tre volte Pilato dichiari Gesù innocente (cfr. 23,4.14.22). Alla stessa conclusione di innocenza perverrà anche Erode (cfr. 23,15). Parimenti le donne che fanno lamento lungo la via crucis esprimono con il loro pianto che Gesù non è un criminale (cfr. 23,27). Chiaramente lo afferma il buon ladrone (cfr. 23,41). In questa linea è pure da leggere l’affermazione del centurione sotto la croce: “ Veramente quest’uomo era giusto (=innocente)” (23,47). Ricordiamo che per Marco e Matteo il centurione si era espresso così: “Veramente costui era figlio di Dio” (Mc 15,39; Mt 27,54). Il tema sarà continuato nel libro degli Atti. Il terzo vangelo è notoriamente conosciuto come il ‘vangelo della misericordia’, perché Gesù manifesta a più riprese compassione per i peccatori, per gli stranieri e per le donne, tre categorie che a quel tempo formavano il nutrito gruppo degli emarginati. Anche nel racconto della Passione riaffiora questa sensibilità: Gesù cura l’orecchio tagliato del servo (cfr. 22,50s.), guarda a Pietro e lo perdona (cfr. 22,61), non riversa attenzione alle proprie sofferenze ma a quelle delle donne di Gerusalemme che cerca di consolare (cfr.23,27-31), manifesta infine pubblicamente il suo perdono a coloro che lo stanno crocifiggendo, dichiarando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (23,34).
È pure risaputa la speciale attenzione di Luca alla preghiera (cfr. 3,21;5,16ss). Elementi di novità sono reperibili anche nel racconto della Passione. Oltre alle annotazioni sulla preghiera registrabili anche in Marco e Matteo, Luca aggiunge passi che denotano la sua sensibilità a questo tema. Gesù avverte Simone della tentazione imminente e aggiunge una preziosa assicurazione: “ Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede” (22,32). Il perdono di Gesù ai suoi assassini è formulato sotto forma di preghiera elevata al Padre: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”(23,24). E ancora rivolto al Padre, Gesù conclude la sua esistenza terrena, spegnendosi con le parole del Salmo 31 : “ Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (23,46).

183 - LA PASSIONE NEL VANGELO SECODNO MATTEO - 19 Aprile 2011 – Martedì Santo

Uno sguardo sommario a Matteo (26,1-27,66) permette di osservare un racconto ecclesiale e dottrinale presentato con uno stile chiaro. Egli evita le improvvisazioni, predilige le schematizzazioni, aiuta a capire i fatti con l’intelligenza che viene dalla fede della comunità. Ebreo che scrive a Ebrei, insiste molto sul compimento delle Sacre Scritture: in Gesù di Nazaret si realizzano tutte le profezie dedicate al Messia, al Servo sofferente, a colui insomma che la storia di Israele attendeva e che giustificava l’esistenza del popolo stesso. Abbozzando un rapido confronto con Marco, ritenuto la fonte principale di Matteo, si trovano queste principali differenze: innanzitutto Matteo abbrevia oppure omette quei passi di Marco che hanno valore esplicativo, adatti per i non Giudei; trova perciò inutile dire ai suoi lettori Giudei che gli azzimi erano “ quando si immolava la Pasqua” (Mc 14,12), oppure che “era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato” (Mc 15,42). D’altro canto Matteo tende a completare la frase o a rendere più chiaro il testo marciano: “uno dei presenti, estratta la spada” di Mc 14,47 diventa: “uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada” in Mt 26,51, affinché il lettore sappia subito e chiaramente che un tentativo di reazione violenta è venuto dai discepoli. È ancora Matteo a mostrare una tendenza alla drammatizzazione degli avvenimenti: egli dice che Pietro “negò davanti a tutti” (Mt 26,70), anziché ricorrere al semplice “negò” di Mc 14,68, volendo così ricordare che il suo rinnegamento è stato pubblico, proprio come pubblica era stata la sua attestazione di fedeltà incondizionata, la sua presunta superiorità su tutti gli altri (cfr. Mt 26,33). Alcuni allungamenti ed esplicitazioni in Matteo servono a precisare e a orientare meglio il lettore, come l’introduzione a tutto il racconto della Passione (cfr. Mt 26,1 s.); grazie a essa, si assicura un legame tra ciò che precede e ciò che avverrà. È come un titolo che contiene in embrione quanto si svilupperà. Alcune piccole note aiutano a chiarificare il testo o a individuare meglio le persone, come il caso di Giuda designato esplicitamente “traditore” (26,25). Matteo conosce il prezzo del tradimento fissato in “trenta monete d’argento” (26,15), elemento che ritornerà per ben sette volte per mostrare l’iniquità del processo da parte dei Giudei e la realizzazione del piano di Dio che porta a compimento le profezie (cfr. 27,3-10). Ancora da Matteo e solo da lui sappiamo della morte di Giuda (cfr. 27,5) e del sogno della moglie di Pilato (cfr. 27,19). Di quest’ultimo particolare non è difficile scorgere l’intento dottrinale: una pagana intercede per il Giusto, mentre il suo popolo reclama la morte di Gesù. Pure il particolare della lavanda delle mani di Pilato, espressione della volontà di declinare ogni responsabilità e la conseguente assunzione di ogni responsabilità da parte del popolo, è reperibile solo nel primo vangelo (cfr. 27,24s.). Caratteristica peculiare, anche se non esclusiva, di Matteo è quella di mostrare il compimento delle profezie. Per dare qualche esempio: Mt 26,3s. ha un riferimento al Salmo 31,14; Mt 26,15 cita Zaccaria 11,12; più genericamente Mt 26,56 attesta: “Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti”. Decisamente più importanti sono quelle aggiunte, rispetto al testo di Marco, che hanno valore di sottolineatura cristologica: Matteo ricorda a più riprese la filiazione divina di Gesù (cfr. Mt 27,40. 43.54) che Marco riserva solo per la rivelazione finale (cfr. Mc 15,39). Le parole di Gesù riportate in Mt 26,52-54 mostrano la sua piena adesione al piano di Dio, sono una giustificazione della non violenza e mettono in luce l’autorità che egli rivendica per la sua missione. È ancora il solo Matteo a rendere solenne la morte di Gesù con una serie di miracoli che le conferiscono una portata cosmica (cfr. Mt 27,51-53). Matteo, infine, aggiunge il brano delle guardie e della diceria sul cadavere (cfr. 27, 62-66). È sorprendente questa posizione degli avversari che, incapaci di accogliere la prorompente novità della risurrezione, parlano di trafugamento del cadavere da parte dei discepoli. Così, per via negativa, diventano testimoni dei fatti.
Grazie all’apporto peculiare di Matteo, il racconto già ricco di Marco diventa più chiaro, completo e con una nota più ecclesiale. Scrive I. Zedde: “ Il discepolo sa già per la fede che Gesù è il compimento di Israele, da esso rigettato, e che Israele si sostituisce. La Chiesa è il nuovo Israele, perché in Gesù e nella Chiesa c’è la morte e la risurrezione dello stesso Israele”.

182 - LA PASSIONE NEL VANGELO SECONDO MARCO - 18 Aprile 2011 – Lunedì Santo

Premessa – Vogliamo vivere questa Settimana Santa lasciandoci accompagnare dai racconti della passione che troviamo nel Vangelo. Una lettura che ci aiuta a vivere in modo pieno la settimana più importante dell’anno liturgico.
I racconti appartengono al patrimonio della Chiesa ed è la Chiesa a presentarli. La fedeltà alla tradizione non impedisce l’originalità di ogni evangelista. Matteo e Marco sono molto simili, anche se non uguali perché ciascuno presenta elementi propri. Luca si distacca molto dai due precedenti e si avvicina di più a Giovanni, con il quale condivide non poche analogie.
La passione secondo Marco (14,1-15,47) - La Passione non arriva improvvisa. La natura particolare del ministero di Gesù l’ha preparata, quasi l’ha provocata. Durante la vita pubblica sono registrati due complotti, in Mc 3,6 e 11,18, e diverse manifestazioni di ostilità nei confronti del Maestro di Nazaret. Egli stesso non nasconde ai suoi ciò che l’attende e per ben tre volte preannuncia il suo destino (Cfr. 8,31-33; 9,30-32; 10,32-34). La sorte di Gesù non trova totalmente impreparata la comunità, perché al capitolo 13 l’evangelista ha mostrato dove conduce la sequela: alla sofferenza che può anche diventare martirio. I discepoli sono chiamati a percorrere con Gesù il cammino dalla Galilea a Gerusalemme: “Il tema del viaggio è utilizzato per dimostrare che la croce è al centro della cristologia di marco” (D. Senior). Rifiutare la croce equivale a non capire colui che ha voluto fare della croce il segno del suo amore per gli uomini, equivale a non provare per Gesù un affetto sincero. La sequela sarebbe seriamente compromessa. Proprio durante la Passione, Marco non indulge a una rappresentazione oleografica dei discepoli, offrendo di essi al contrario l’immagine di persone deboli e dai facili cedimenti. La preghiera sofferta di Gesù doveva servire come esempio da imitare (cfr. 14,32), ma non trova corrispondenza e i discepoli si addormentano. Gesù si rivolge a Pietro chiedendogli: “Simone, dormi?” (14,37), chiamandolo cioè con il nome che portava prima di essere invitato alla sequela. Sembra che l’evangelista, con questa particolare denominazione, voglia indicare che non vegliare con Cristo è indegno del vero discepolo. Con il suo vangelo Marco mette in guardia i seguaci di Gesù ricordando che la croce è momento di crisi. Pietro che arriva a rinnegare il Maestro (cfr. 14, 66 – 72) documenta la cronica fragilità del credente che potrà essere superata solo nella piena fiducia in Cristo.
Mentre il discepolo dimostra la propria fragilità, Gesù testimonia la sua dignità, definendosi il Figlio dell’uomo della tradizione apocalittica (cfr. Daniele 7,13s.) che si presenta nella pienezza della sua gloria. Egli esplicita quanto Marco aveva annunciato fin dall’inizio (cfr. Mc 1,1) e quanto il centurione proclamerà (cfr. 15,39) come rappresentante di tutti i credenti venuti dal paganesimo. La Passione è al tempo stesso la suprema rivelazione di Gesù e la prova decisiva per i discepoli. Sarà il momento della morte a rivelare la verità con due segni (cfr. 15, 38s): il velo del tempio si squarcia in due – cioè l’era antica si è conclusa – e il centurione pagano riconosce in Gesù il Figlio di Dio – cioè tutta l’umanità ha accesso ai benefici di quella morte. Questi due segni hanno in sé il valore di una conclusione e rivelano il paradossale rovesciamento. La morte di Gesù non è vista come punto di arrivo, bensì come punto di partenza: i due segni del tempio e del centurione ne rivelano la fecondità e la presentano come slancio vittorioso verso la risurrezione. Si fa accenno alle donne (cfr. 15,40s.) che saranno le stesse testimoni del mattino di risurrezione, creando così un collegamento intenzionale tra morte e risurrezione. Quest’ultima è preparata da alcuni gesti di bontà: Giuseppe di Arimatea si fa coraggio e richiede a Pilato il cadavere di Gesù; Pilato accondiscende a questa richiesta e “ donò il cadavere a Giuseppe” (15,45). Inoltre, due donne osservano dove Gesù è stato deposto, ovviamente con l’intenzione di ritornare appena possibile per onorare il cadavere. Con questi gesti di bontà si chiude un dramma di malvagità. Qualcosa di grande si sta preparando e l’amore, che mai muore, sarà in grado di trasformare anche la malvagità degli uomini in storia della salvezza.
La Passione di Gesù e perfino la sua morte non sono presentate come elementi negativi, come un imprevisto fallimento o come una tragica fatalità. Di conseguenza, la risurrezione non sarà un rimedio, ma l’una e l’altra, Passione e Risurrezione, sono due parti di un unico progetto che il Servo sofferente profetizzato da Isaia aveva abbozzato e che Gesù porterà a compimento. Così il mistero della persona di Gesù rivela la sua parte più profonda e il vangelo tocca il suo vertice.

domenica 17 aprile 2011

181 - IL SENSO DI TUTTO: UN AMORE FOLLE! - 17 Aprile 2011 – Domenica delle Palme (Isaia 50,4-7 Filippesi 2,6-11 Matteo 26,14-27,66)

Settima tappa - Il vangelo della passione di Gesù è stimolo ad unirci al suo dolore per vivere anche la gioia della risurrezione. Il contrasto tra l’ingresso festoso in Gerusalemme e la proclamazione della passione fa riflettere sul significato della professione di fede in Gesù: egli è il vero messia, ma nella linea del Servo di Dio obbediente fino alla morte. La lettura della passione secondo il Vangelo di Matteo propone una immagine di Gesù come l’obbediente servo di Dio che adempie in tutto le Scritture. Attraverso il suo racconto della passione, tappa dopo tappa, Matteo ci porta ai piedi della croce: un’opportunità donata oggi a noi, che ci dichiariamo discepoli di questo Signore, per verificare il coraggio e la perseveranza della nostra fede. Gesù è il figlio di Dio che realizza il progetto del Padre: la sua fedeltà e la sua obbedienza nascono da una fiducia totale. E proprio lui, che percorre la via della passione e della morte, un giorno tornerà nella gloria. Il racconto, è vero, termina con una scena inequivocabile di sconfitta. L’ostilità e la determinazione dei nemici di Gesù sembrano averla vinta, il loro disegno di fermarLo giunto a compimento. Quel corpo martoriato, ormai senza vita, deposto in un sepolcro, sigillato da una pietra e sorvegliato dai soldati è l’immagine eloquente di una vicenda finita male. E tuttavia il vincitore è il Crocifisso. Al terzo giorno apparirà chiaramente che a pronunziare l’ultima parola non sono l’odio e la cattiveria, ma l’amore. Preghiera - Tu entri in Gerusalemme, Gesù, e la folla dei pellegrini ti festeggia, ti acclama come il Messia, l’atteso discendente di Davide. È un ingresso modesto il tuo: non su un cavallo, ma su un asino, non come un generale che umilia con la sua forza, ma come un re mite, che viene nella misericordia. È un entusiasmo temporaneo quello che ti viene tributato: già la croce si staglia all’orizzonte e le grida di gioia verranno presto sostituite dalla richiesta di condannarti ad una morte terribile e dolorosa. Eppure tu accetti i desti della gente e le parole che li accompagnano. Fra poco, infatti, non ci sarà spazio per nessun equivoco: tu non vieni a chiedere che ti offriamo la nostra esistenza, ma sei pronto a donare la tua; tu non vieni a giudicare, ma accetti piuttosto di essere ingiustamente condannato; tu non vieni a castigare, a punire e a stroncare, ma sei pronto a presentare il tuo dorso ai flagellatori, a farti inchiodare su una croce. Per la preghiera in famiglia - Ad ognuno di noi, oggi, tu affidi, Gesù, un ramoscello di olivo e ci chiedi di essere segno vivo di riconciliazione e di pace. Ad ognuno di noi domandi di amare e di perdonare come hai fatto tu.

lunedì 11 aprile 2011

180 - … PER UN CAMMINO DI FEDE! - 16 Aprile 2011 – Sabato 5ª sett. Quaresima

Nel segno della speranza e della fede - Il dono dello Spirito Santo cambia radicalmente la vita dei credenti. Essi non vengono esonerati dalla morte, ma non rimangono nelle sue mani. Come il Signore, conoscono un passaggio, una Pasqua, che sfocia nella risurrezione. Che cosa contraddistingue questa nuova condizione? La nostra speranza si radica in una certezza. A partire dal momento in cui il Cristo a preso su di sé le nostre ferite e a condiviso la morte, questa non ci fa più paura. Le nostre malattie e la nostra agonia non sono più senza senso, ma costituiscono un passaggio (pur stretto e difficile) verso la vita. I nostri sepolcri sono destinati ad essere scoperchiati e noi saremo chiamata a partecipare, corpo e anima ad una eternità di gioia. La fede diventa così la forza che ci salva: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. Il Signore interpella ognuno di noi (“Credi questo?”) e attende la nostra risposta personale, la nostra fede. A noi correre verso di Lui come Marta o gettarsi ai Suoi piedi come Maria per domandarGli di donarci la vita e di libarci da ogni traccia di morte presente nella nostra esistenza. Il percorso compiuto - Con il Vangelo di oggi noi viviamo l’ultima tappa del percorso predisposto per questo anno A. Ecco perché è bene a questo punto, rendere ragione del cammino realizzato. Al pozzo di Sicar, insieme alla samaritana, abbiamo scoperto che Gesù è l’acqua viva: solo Lui può spegnere la sete profonda che prova ognuno di noi e farci abitare da una sorgente che zampilla per la vita eterna. Alla piscina di Sìloe, insieme al cieco nato, Gesù si è rilevato come la luce del mondo, Colui che illumina la nostra esistenza e la strappa per sempre alle tenebre del disorientamento, alle forze del male. Oggi, nel villaggio di Betania in prossimità della tomba di Lazzaro Gesù si è manifestato come la risurrezione alla vita, l’unico capace di contrastare il potere della morte, che molti considerano ineluttabile. Tre tappe, scandite ognuna da un racconto, che ci permettono di comprendere il nostro Battesimo e la vita nuova che ci è stata regalata. Tre tappe che ci rinviano alla nostra esistenza odierna e aprono una serie di interrogativi su ciò che veramente le dà senso, su ciò che conta veramente ai nostri occhi. Tre incontri in cui ognuno di noi può ritrovarsi e rinvenire qualcosa del suo itinerario personale verso Gesù.

179 - L’INCONTRO CON GESU’ … 15 Aprile 2011 – Venerdì 5ª sett. Quaresima

L’ineluttabilità della morte - La morte, quella che colpisce gli altri e soprattutto quella con cui dobbiamo fare i conti in prima persona, detiene la terribile capacità di farci sentire del tutto disarmati. Disarmati e incapaci di fare qualcosa, se non di offrire il nostro cordoglio e di rassegnarci davanti a quanto accade. Essa ci appare ineluttabile e pertanto ogni nostra lotta sembra destinata all’insuccesso. Che cosa fare dal momento che Lazzaro è già da quattro giorni nel sepolcro? Il racconto ci mette davanti alle reazioni che tutto questo provoca. * C’è la gente, che è venuta a consolare Marta e Maria, ad esprimere partecipazione al loro lutto. * Marta, per prima, viene incontro a Gesù e non può fare a meno di evocare l’amicizia che legava Lazzaro al Maestro, ma anche la fiducia in una risurrezione che avverrà un giorno. * E c’è poi Maria, che ripete le parole della sorella e da sfogo al suo dolore, mettendosi a a piangere. Il racconto, induce a rilevare gli atteggiamenti di Gesù: ° Gesù dapprima sconcerta perché non si dirige subito verso Betania, una volta ricevuta la notizia della malattia di Lazzaro. ° Poi, nonostante il rischio che corre tornando in Giudea, e più in particolare a Gerusalemme, Gesù, si dirige decisamente verso la morte per affrontare, certo la morte dell’amico, ma anche per andare incontro alla sua. Un incontro che trasforma - L’incontro con Marta avviene fuori dal villaggio: Gesù entra nella casa degli amici solo dopo aver sconfitto la morte. Nel dialogo noi possiamo ravvisare gli elementi di un itinerario che parte da una certezza generica sulla risurrezione come principio o verità astratta (“So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”) per approdare in una fede esplicità in Gesù, “il Figlio di Dio, colui che viene nel modo”. La confessione di Marta diventa a questo punto testimonianza che coinvolge Maria. Questa per incontrare Gesù deve “uscire dalla casa del lutto, dove difronte alla morte si conosce solo il soffrire insieme, per aprirsi ad un ottica di fede e di speranza”. Il pianto di Maria e di coloro che l’attorniano è la reazione scomposta e disperata di fronte al volto mostruoso della morte. Anche Gesù piange e questo testimonia la sua umanità ferita dalla perdita di un amico, ma anche l’ira e lo sdegno per l’ingiustizia della morte. Se egli versa lacrime lo fa, tuttavia, senza clamore e senza urla. Una parola piena di autorità - E’ un Gesù “commosso profondamente” quello che si reca al sepolcro di Lazzaro. Ma è anche un Gesù determinato a contrastare e vincere il potere della morte, da troppo giudicato ineluttabile. Intendiamo il suo comando “Togliete la pietra”, e anche l’urlo che lo segue: “Lazzaro, vieni fuori!”. E’ un grido di vita che strappa l’amico dalle mani della morte e lo restituisce all’affetto delle sorelle e degli amici. Ma perché possa riprendere il suo posto in mezzo ai suoi anche gli uomini devono fare la loro parte: “Liberatelo e lasciatelo andare”.Solo Dio può vincere la morte e tuttavia Egli cerca creature disposte a collaborare con Lui per far trionfare la vita. Il segno compiuto non manca di destare la fede di coloro che l’hanno visto. Si tratta, comunque, solo di un anticipo. Sarà la luce della risurrezione di Gesù che lo farà apparire in tutto il suo profondo significato. Allora si rivelerà chiaramente l’identità del Maestro: Egli è veramente il Buon Pastore che offre la sua vita per le pecore e affronta senza paura la morte, per amore. Egli è colui che conosce ognuno per nome (Lazzaro) e chiama a seguirLo per la via in cui ci ha preceduto.

178 - LAZZARO VIENI FUORI! - 14 Aprile 2011 – Giovedì 5ª sett. Quaresima

Pochi versetti per raccontare il miracolo. L’evangelista segnala innanzi tutto le difficoltà elevate di fronte al comando di Gesù di togliere la pietra che chiude la tomba. Sono passati già quattro giorni, e certamente il processo di decomposizione è iniziato, segnalato dal fetore. Va anche notato che è anche probabile il riferimento ad una credenza che prende piede con l’ellenismo, per cui la morte è separazione dell’anima dal corpo. Per un po’, l’anima rimane vicina al corpo, quasi danzando una danza di saluto, ondeggiando intorno ad esso. Al terzo giorno si staccherebbe definitivamente per entrare nella sua dimensione più propria. È difficile tuttavia appurare in che misura Giovanni ospiti una tale credenza. Un fatto è comunque sicuro: la segnalazione che il cadavere è di quattro giorni, non fa che ribadire l’irrevocabilità della morte e il finire di tutto. A questo punto Gesù rivolge la preghiera al Padre, una preghiera di ringraziamento, di fiducia e di intimità piena; anche nel momento della richiesta egli inizia con un ringraziamento, proprio perché è certo che Dio è un Padre che conosce il bisogno di ogni orante, tanto più di Colui che è Figlio! “Detto questo gridò a gran voce: ‘ Lazzaro, vieni fuori!’” (v. 43) Ecco la voce che si leva sovrana e che risveglia da morte, anticipazione di quella voce del Figlio udendo la quale i morti riprenderanno la vita nell’ultimo giorno ( cfr. Gv 5,25. 28). Giovanni, per indicare il grido di Gesù, usa un verbo rarissimo (kraugàzō), che appare nella Bibbia greca solo otto volte, e in prevalenza proprio nel quarto vangelo. Indica uno strillare, un urlare intensissimo, così come avviene ad esempio quando la folla vorrà la crocifissione di Gesù ( cfr. Gv 19,6.12.15). La sarà un grido di morte, qui un urlo di vita, che si rivolge a Lazzaro chiamandolo per nome, poiché egli è una di quelle pecore che il Buon Pastore conosce e chiama per nome. E in quel venir fuori vi è tutta la verità del Dio biblico, che si rivela pienamente in Gesù, è il Dio che fa uscire dall’Egitto, dalla schiavitù, dalla desolazione, dalla morte. Lazzaro esce, portando con sè bende e sudario, i segni della morte. La sua resurrezione non è per sempre, è solo un segno, una vittoria temporanea. Gesù, invece, uscirà dalla tomba, ma lascerà in essa il sudario e le bende, perché egli risorgendo, vincerà la morte per sempre!(Cfr. Giovanni 20,7) “Liberatelo e lasciatelo andare” (v. 44). Il comando di Gesù di sciogliere le bende che avvolgono Lazzaro è un chiaro invito a collaborare con la sua opera di liberazione dell’uomo, a compiacere già nell’oggi gesti che donano la vita e libertà e che si oppongono a morte e schiavitù. Sullo sfondo sta dunque un ordine rivolto alla comunità dei discepoli: se credono alla resurrezione, devono aiutare l’umanità a vivere, a camminare, a diventare responsabili nella propria vita nella gratitudine per avere conosciuto il Dio che vince la morte.

177 - SE CREDI, VEDRAI LA GLORIA DI DIO! - 13 Aprile 2011 – Mercoledì 5ª sett. Quaresima

Marta va a chiamare Maria, asserendo che è il Maestro a volerla vedere. Propriamente, Gesù non le ha comandato nulla, ma si vede in Marta la dinamica della fede, per cui dalla confessione procede la testimonianza, il coinvolgimento di altri. Un incontro vero con il Signore diventa necessariamente uno sprone alla missione! Maria, con il suo stare seduta in casa, circondata dal cordoglio di coloro che sono venuti a farle visita, mostra chiaramente un sentire interiore per il quale la morte è perdita inesorabile e l’unica solidarietà che l’uomo può offrire di fronte ad essa è proprio il cordoglio. La risposta di Maria alla sollecitazione della sorella è però pronta, priva di indugi. È questa un’indicazione per noi: dobbiamo uscire, come Maria, dalla casa del lutto, dove di fronte alla morte si conosce solo il soffrire insieme, per aprirci ad un’ottica di fede e di speranza, andando da Gesù, chiedendoGli aiuto e luce. C’è un’altra solidarietà possibile anche nel dolore: lo sperare insieme! I presenti in casa non possono che seguirla, non comprendendo dove voglia davvero andare. Sono come trascinati da lei verso l’incontro con quel Signore che vince la morte e dà la vita. Allorché giunge da Gesù, Maria non può che gettarsi ai suoi piedi e ripetere le stesse parole di Marta. Certo, Gesù vede in Maria e nelle persone che l’attorniano lo spettacolo di come la morte schiacci l’umanità. Il suo pianto e quello dei giudei che sono con lei è scomposto, disperato, perché vede solo il volto mostruoso della morte. E qui l’evangelista annota che di fronte a tale spettacolo Gesù si commuove profondamente e resta molto turbato. Propriamente non si ha il verbo della commozione viscerale usato negli altri vangeli, ma piuttosto quello che indica un’ira, uno sdegno. È la rabbia che prende il cuore di fronte all’ingiustizia della morte (si pensi ad esempio alla morte di un giovane); Gesù non si rassegna alla condizione di morte che sembra dominare l’umanità. Inoltre si esplicita il turbamento profondo (taràssō), l’agitazione che lo prende intimamente. A tutto ciò segue il suo pianto. È però un pianto diverso da quello di Maria e degli altri giudei, perché è un ‘versare lacrime’ senza clamore, senza urla … Certo, abbiamo la rappresentazione di una gamma completa di emozioni, di sentimenti, di atteggiamenti interiori da parte di Gesù, e questo non può non essere rilevato dai presenti, che constatano quanto fosse intenso il legame di amicizia e di affetto con Lazzaro e con le sorelle. Non mancano però i malevoli, che obiettano invece una pretesa indifferenza di Gesù. Anche qui l’evangelista offre un insegnamento discreto: all’uomo nel dolore non bisogna avvicinarsi con la volontà di giudicare, ma solo di condividere e di essere vicino.

176 - ANDIAMO IN GIUDEA … 12 Aprile 2011 – Martedì 5ª sett. Quaresima

“Poi disse ai discepoli: ‘Andiamo di nuovo in Guidea’” (Giovanni 11,7). Dopo due giorni di attesa, ecco la decisione di Gesù di andare da Lazzaro, decisione che però lascia sconcertati i discepoli, consapevoli della pericolosità del viaggio in Giudea, là dove dominano gli avversarsi del loro Maestro. E Gesù risponde che è ancora giorno, tempo di luce, di cammino, e perciò può andare dall’amico a svegliarlo. Sullo sfondo appare dunque la consapevolezza che le ore del giorno finiranno, e cioè che un destino di morte lo attende, ma questo non può impedirgli di compiere la sua missione (vv. 9 – 10). In ogni caso, i discepoli non sembrano molto tranquillizzati dalle parole di Gesù. “Disse queste cose e poi soggiunse loro: ‘Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo”’ (v. 11). Ai discepoli non sembra vero di poter evitare il viaggio in Giudea, dato che , prendendo Gesù in parola, Lazzaro si è ‘addormentato’, e ciò vuol dire che guarirà. È qui che Gesù allora comincia a parlare apertamente di morte (v.14). Letteralmente, si usa il termine parrēsìa, che indica una parola franca e coraggiosa: egli dunque non gioca con la realtà della morte, anche se ne parla come di un ‘sonno’, perché è tale soltanto se considerata nell’ottica della fede, con il coraggio che dalla fede deriva. E questa parrēsìa di Gesù si palesa nella sua decisione irremovibile di andare da Lazzaro, incoraggiando anche i suoi ad accompagnarlo nel viaggio: “Andiamo da Lui!”. E qui che Tommaso manifesta la sua disponibilità discepolare ad andare con Gesù; anche se è una disponibilità molto inconsapevole, è comunque mossa da sincera generosità. Fino alla fine dell’evangelo Tommaso è uno che non scherza con la morte, ed è pronto anche a condividere la sorte del Maestro; sarà per lui molto più difficile credere ad una vittoria sulla morte, alla resurrezione! Marta e Gesù - “Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro” (v. 17). I quattro giorni trascorsi sembrano decretare il trionfo totale della morte e questo è anche il clima spirituale in cui Gesù troverà le sorelle di Lazzaro e le persone venute a consolarle. Gesù però non entra in quella casa, ma rimane fuori del villaggio. In quella casa egli entrerà solo dopo aver sconfitto la morte, per celebrare con le due sorelle e con Lazzaro la vittoria della vita. Maria rimane in casa, come paralizzata nel suo dolore, pietrificata dal suo lutto. È Marta colei che va da Gesù, anche se pure lei è come schiacciata dal dramma della morte. Va da Lui appena è informata del suo arrivo, con una prontezza che è figura della fede; basti qui ricordare la medesima prontezza di Pietro, quando, sentendo dal discepolo amato che la figura intravista era il Signore, si butta in acqua pur di arrivare prima, di non attendere più (Cfr. Giovanni 21,7). L’incontro di Marta con Gesù è l’inizio di un cammino di fede che si fa largo attraverso il dubbio e la difficoltà di capire i tempi e i piani del Signore. Ha comunque fiducia in lui, fino ad azzardare un rimprovero perché la sua assenza è stata troppo lunga e dolorosa: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (v. 21). È un rimprovero per il ritardo nel rispondere alla richiesta di aiuto, ma anche una confessione di fiducia, una professione di fede in Lui, anche se è una fede fragile, intimorita dall’ineluttabilità della morte. E così giunge a dire: “Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio Te la concederà” (v. 22). Più avanti, poi affermerà la sua fede nella risurrezione nell’ultimo giorno (v. 24). Forse non comprende ancora bene ciò che dice, ed ecco che allora Gesù soccorre la debolezza di Marta, non comunicanndole un principio filosofico o una verità astratta circa la non definitività della morte, ma una certezza che prende vigore nella certezza di una comunione con Lui. Il suo discorso con Marta sfocia allora nel solenne detto di autorivelazione: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (vv. 25 – 26). E poi sollecita una presa di decisione da parte di lei: “Credi questo?”. Al che Marta, con la cui figura la comunità dei discepoli si identifica, confessa il fondamento della propria speranza, riconoscendo in Gesù il Figlio di Dio che è venuto nel mondo.

175 - L’AMICO MALATO - 11 Aprile 2011 – Lunedì 5ª sett. Quaresima

Premessa - Con il capitolo 11 si è ormai prossimi alla conclusione della prima parte del vangelo di Giovanni, cioè del cosiddetto ‘libro dei segni’. La risurrezione di Lazzaro è l’ultimo e il vertice di questi segni, perché porta alla confessione di fede in Gesù come vita e risurrezione. L’importanza che Giovanni accorda a questo segno della resurrezione di Lazzaro è inoltre evidente perché sarebbe la causa scatenante della decisione del Sinedrio di eliminare fisicamente Gesù ( Giovanni 11, 53: “Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo”). Anche il modo di narrare sottolinea l’importanza che l’evangelista accorda a questo miracolo; infatti la narrazione ha un andamento diverso, in quanto negli altri casi il miracolo viene raccontato e poi interpretato. Qui invece vi è un intreccio continuo di narrazione e interpretazione. L’attesa del miracolo di Gesù comincia con la notificazione della malattia di Lazzaro fin dall’inizio e si conclude soltanto verso la fine del capitolo, con il ritorno di Lazzaro alla vita. Per quanto poi riguarda il ‘tempo’ in cui è collocato questo segno, si è nell’intervallo tra la festa della Dedicazione (cfr. Giovanni 10,22) e la Pasqua giudaica, che nel vangelo di Giovanni non viene per così dire celebrata, in quanto è Gesù il compimento della Pasqua. Ora, in occasione della festa della Dedicazione, egli si è presentato come il ‘Buon Pastore’ che dà la vita per le pecore e non permette che esse siano rapite dalla sua mano, perché gli sono state affidate dal Padre (cfr. Giovanni 10,29). Il segno che compirà ora non fa che evidenziare come nessun nemico possa strappare i suoi dalla sua mano, neppure la morte. Nella risurrezione di Lazzaro si mostra la fedeltà del Padre manifestata in Gesù. L’amico malato. “ Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato” (v.1). Del beneficiario del miracolo viene subito detto il nome, contrariamente a quello che avviene negli altri racconti. Forse è per richiamare il significato: ‘Lazzaro=Dio aiuta’. In tal modo noi dobbiamo sapere che il protagonista fondamentale del racconto è Dio che si rivela in Gesù, e non il personaggio di Lazzaro, che è soltanto passivo e beneficiario dell’iniziativa divina verso di lui. In secondo luogo si ricorda la località di residenza di Lazzaro, Betania. Se all’inizio del vangelo appariva una località di nome Betania, situata al di là del Giordano e con il significato probabile di ‘casa della testimonianza’, qui il significato è piuttosto quello di ‘casa del dolore’, un dolore che però verrà dissolto dall’intervento di Gesù. La casa di Betania è poi la casa della fraternità e della sorellanza. Su questo tipo di relazione l’evangelista insiste volutamente, perché questa casa/famiglia apparirà poi come una figura della comunità cristiana, in particolare nell’episodio dell’unzione di Gesù da parte di Maria (cfr. Giovanni 12,1ss.). A questa unzione Giovanni accorda poi un significato speciale, come manifestazione dell’amore per Gesù, che diventa cura della fraternità all’interno della comunità. Con un procedimento singolare, prima ancora che tale unzione sia avvenuta, l’evangelista ne parla come di un evento già dato (“Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli” v. 2). Si creerà così un contrasto tra il buon profumo dell’unguento, simbolo dell’amore, e il fetore della morte, che sembrerebbe irresistibilmente vittorioso, eppure vincerà il buon profumo dell’amore e della vita! Ordunque, le sorelle di Lazzaro fanno giungere a Gesù la notizia della malattia di costui, mettendo però in rilievo la relazione di amicizia esistente con Lazzaro: “ Colui che tu ami è malato”. Il verbo utilizzato è philéō, che indica un amore di amicizia; questo amore, però, nel quarto vangelo non è inferiore all’agàpē, ma è quella forma di agape che giunge a dare la vita per l’amico (cfr. Giovanni 15,13). Anche qui si può cogliere, oltre che un’indicazione preziosa circa le relazioni intensamente umane che Gesù ha vissuto nella propria vita terrena, anche un’allusione teologica alla fonte ultima, da cui scaturisce il segno della risurrezione di Lazzaro: il dono che Gesù fa della propria vita, per i propri amici! Propriamente, le sorelle non chiedono nulla, non sollecitano un intervento, ma ricordano solo la relazione di amicizia che lega Gesù a Lazzaro. Si rimane così in attesa della reazione di Gesù. Dapprima egli segnala che quella malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio; questo non significa che Dio si manifesti nell’insufficienza dell’umano, nel dolore, nella malattia grave, ma che Egli sa trasformare anche queste situazioni in luogo della sua presenza, in occasioni per far sperimentare il suo amore, che libera e che salva. Sconcertante è invece l’agire di Gesù, che si trattiene per altri due giorni nel luogo dove si trova. Potrebbe essere inteso come indifferenza, non partecipazione alla situazione di dolore che colpisce quella famiglia, e per questo l’evangelista precisa subito che Gesù, invece, “amava Marta e sua sorella e Lazzaro” (v. 5). In questo tardare di Gesù nell’andare da Lazzaro si crea per noi un effetto di suspence ma, nel contempo, ci viene offerto un messaggio: i tempi di Dio non sono quelli degli uomini, e il suo modo di amare non sempre è immediatamente comprensibile, perché non risponde ai bisogni e ai desideri secondo le aspettative umane.

sabato 9 aprile 2011

174 - IO SONO LA RESURREZIONE E LA VITA! - 10 Aprile 2011 – Quinta domenica di Quaresima - (Ezechiele 37,12-14 Romani 8,8-11 Giovanni 11,1-45)

Sesta tappa - La resurrezione di Lazzaro interpella la nostra fede e richiama l’attenzione non sulla vita terrena, ma sull’orizzonte di eternità che può dar significato anche alla vita nel corpo e impegnare in una lotta di liberazione da ogni forma di schiavitù e morte. Il ‘segno’ di Lazzaro, amico di Gesù, richiamato alla vita, ci stimola a guardare oltre l’orizzonte terreno: la vita che Gesù dona non è solo la vita fisica, ma la vita di Dio. E il comando di Gesù, alla fine del racconto, è un invito a collaborare alla sua opera di liberazione dell’uomo dalle forme di morte che gli impediscono la speranza. È un invito a testimoniare con gesti concreti l’impegno per la vita. Coloro che credono nella resurrezione hanno il compito di aiutare l’umanità a vivere, a diventare responsabili della propria vita e dell’altrui vita, proprio come gratitudine per aver conosciuto il Dio che vince la morte. Il ‘segno’ di Lazzaro offerto del Vangelo è uno stimolo a guardare oltre il piano materiale per scoprire un livello più profondo: il grido di Gesù che richiama Lazzaro alla vita è un grido di liberazione tramandato dal vangelo fino a noi, perché accogliamo nella fede il messaggio: “Io sono la risurrezione e la vita!” La preghiera - Tu sei la resurrezione e la vita, Signore Gesù! Davanti alla morte noi restiamo smarriti e disorientati: il suo potere ci appare ineluttabile, le ferite che essa provoca senza rimedio e guarigione, ma tu hai vinto la morte, l’hai sconfitta una volta per tutte. Tu sei la risurrezione e la vita, Signore Gesù! Ogni volta che la morte ci visita ne avvertiamo la brutalità: essa ci strappa persone a cui siamo legati da affetto ed amicizia e recide inesorabilmente la nostra relazione con loro, ma tu hai vinto la morte e hai mostrato di poterla affrontare a mani nude, con la sola forza dell’amore. Tu sei la risurrezione e la vita, Signore Gesù! Ecco perché non possiamo più essere nell’angoscia e nella paura come quelli che non hanno speranza. Sappiamo che al termine di questa esistenza non sarà un gorgo oscuro ad inghiottirci per sempre, ma accompagnati da Te approderemo ad un oceano di gioia, di luce, di pace. Per la preghiera in famiglia: Signore Gesù, tu hai mostrato la tua amicizia verso la famiglia di Lazzaro e lo hai richiamato in vita. Tu chiami ognuno di noi a condividere la tua gioia per l’eternità, accanto a Te. Tieni desto in noi il fuoco della speranza perché la tua Parola trasformi la nostra esistenza di ogni giorno.

venerdì 8 aprile 2011

173 - A NOI … PER UN APPRODO ALLA FEDE! - 09 Aprile 2011 – Sabato 4ª sett. Quaresima

Il percorso del cieco nato. Le reazioni della gente, dei farisei e dei suoi genitori sono viziate da una cecità pericolosa. E tuttavia esse non fanno desistere il cieco nato da un itinerario che lo porta, pur in mezzo a contrasti, verso la luce. A guidarlo è una semplicità disarmante, che finisce con l’irritare coloro che si sentono smascherati dal suo sguardo limpido. Un po’ alla volta si fa strada in lui una consapevolezza sempre più nitida nei confronti di colui che l’ha guarito, Gesù. Il racconto di come è avvenuto il miracolo lascia spazio ad una prima dichiarazione: “E’ un profeta”. Si tratta di un modo semplice per collegare il beneficio ricevuto all’azione di Dio. Questo però non basta: le sue parole fanno ben capire che egli vuole ‘seguire’ Gesù come fa un discepolo con il suo maestro. È a questo punto che Gesù interviene di nuovo per consentirgli di compiere il tratto finale del cammino. Egli si presenta come “il Figlio dell’uomo”, colui che offre una salvezza profonda, una nuova creazione che trasforma la vita. Dinanzi a questa rivelazione il cieco nato fa la sua professione di fede: “Credo, Signore!”. Se il gesto riferito all’inizio del racconto gli ha aperto gli occhi della carne, ora il dialogo gli ha dischiuso gli occhi dell’anima e lo ha portato alla fede. I contrasti inevitabili e l’approdo alla fede. È la lezione particolare che possiamo trarre dalla lunga narrazione evangelica. Non si arriva alla fede senza affrontare delle ‘prove’: solo chi è determinato, solo chi si lascia guidare dalla parola di Dio, solo chi è disposto ad aprire il suo animo senza pregiudizi arriva alla fede. Questa, infatti, lungi dall’essere un pacifico possesso è caratterizzata da una ricerca faticosa, che ognuno deve affrontare personalmente. Ciò che avviene è il risultato di un incontro di grazia a cui non si sono frapposti ostacoli. In tal modo lo sguardo permette di riconoscere l’azione di Dio e Colui che opera la nostra salvezza: un Uomo di Dio, un Maestro, il Figlio dell’uomo, il Signore! La condizione del credente è contrassegnata da questo itinerario, non privo di conflitti e contrasti, ma anche da una trasformazione che riguarda tutta la sua esistenza. Il peggio che ci possa capitare è di illuderci di non avere bisogno di essere sanati, anzi di poter imporre a Dio i nostri punti di vista nel tentativo vano di non riconoscere la salvezza che Egli ci offre. Questo indurimento ha la tragica capacità di bloccare in noi il percorso della grazia.

172 - DAL CIECO NATO A NOI … 08 Aprile 2011 – Venerdì 4ª sett. Quaresima

Cieco dalla nascita - In parole povere vuol dire che non ha mai visto la luce del sole e che vive completamente immerso nelle tenebre. San Paolo nella lettera agli Efesini ci aiuta a decifrare questa condizione. Per l’apostolo, infatti, i destinatari della sua lettera prima di conoscere la fede in Cristo erano tenebra (“Un tempo eravate tenebra” v. 5,8a). Proprio questa oscurità fa maggiormente risaltare la trasformazione operata da Cristo : “Ora siete luce nel Signore” (v. 5,8b). C’ è una sorta di condizione ineluttabile, da cui il cieco non può uscire con le sue forze. E così egli diviene il simbolo di un’umanità priva di luce, disorientata, immersa in una realtà di cui non è responsabile, ma alla quale finisce per aderire, senza poter neppure immaginare qualcosa di diverso. Come può uno che non ha mai visto la luce immaginare di cosa si tratti? L’intervento di Gesù - Il modo in cui avviene la guarigione è decisamente strano. Non è il cieco ad invocarla, a chiederla con forza (come accade in altri frangenti). Gesù passa di là e lo vede. E quindi decide di intervenire, di strapparlo alla sua cecità. Non si tratta però di donargli solamente la vista. Quello che avviene è un cambiamento che ha tutti i connotati di una nuova creazione (il fango che richiama la creazione del primo uomo dall’argilla, la saliva che rappresenta un elemento vitale, associato alla bocca, al respiro, alla parola). Il nostro incontro con Cristo, in effetti, non è tanto il risultato della nostra ricerca, ma del suo venirci incontro: è passato per la nostra strada, ci ha visti, ha deciso di cambiare la nostra esistenza. Come? Attraverso la sua parola e il soffio del Suo Spirito. Ciò che è accaduto è spiegabile solo attraverso questi doni, che precedono ogni nostra invocazione, ogni nostra richiesta e che sono pura grazia. In mezzo alle reazioni e ai contrasti - Se il cieco può finalmente vederci, la sua guarigione però lo colloca in mezzo a reazioni diverse. Il racconto le registra e ciò che a prima vista potrebbe sembrare un diversivo appare invece come un vero e proprio percorso di esplorazione su ciò che conduce alla fede e su ciò che, al contrario, la blocca. Si, perché davanti al miracolo diverse persone sono obbligate a prendere posizione. C’è così la reazione della gente, la sua curiosità mista ad incredulità. I cambiamenti – da che mondo è mondo – non mancano di attirare una certa attenzione, ma spesso si tratta di un fuoco di paglia, che non va oltre un interesse superficiale e di breve durata. Lo stupore va di pari passo con l’incapacità di emettere un vero e proprio giudizio sulla vicenda, di rischiare un proprio atto di fede in Gesù. È il ritratto di tante persone che non raccolgono i grandi interrogativi della vita, non si impegnano in una ricerca seria, personale. C’ è la reazione dei farisei che rivela una progressiva chiusura. I loro pregiudizi nei confronti di Gesù contano di più del gesto miracoloso da lui compiuto. Così diventano incapaci di riconoscere l’opera di Dio e si attaccano alle regole per trovare una conferma ai loro sospetti. La loro cecità li conduce a negare addirittura l’identità tra la persona che hanno di fronte e colui che era nato cieco, a mettere in dubbio la sua condizione prima dell’incontro con Gesù, e a cercare nei genitori una conferma ai loro sospetti. Il loro atteggiamento incarna quello che è il vero peccato: è la figura di chi è chiuso alla novità dell’amore divino in nome del ‘già noto’ per cui giungono a negare le evidenze, gli stessi fatti, pur di non riformare il loro modo di intendere e di volere. La cacciata dell’uomo miracolato dalla sinagoga non è che la logica conseguenza di tutto ciò. C’è infine la reazione dei genitori del cieco nato. Di fatto essi lasciano il loro figlio senza difesa perché sono vittime della paura: a preoccuparli sono le minacce dei responsabili della sinagoga. La loro mancanza di coraggio, la loro paura e la loro scelta di lavarsene le mani evidenziano un altro percorso bloccato, che non arriva alla fede. Soggiogati dal parere degli altri, non hanno voglia di correre dei rischi, di affrontare conflitti. Alla ricerca della verità preferiscono le comodità di una vita priva di problemi. È come se rimanessero in uno stato di ‘minore età’, in contrasto chiaro con il cieco nato che diventa ‘maggiorenne’ nella fede.

martedì 5 aprile 2011

171 - IL BUIO PIU’ TOTALE - 07 Aprile 2011 – Giovedì 4ª sett. Quaresima

Il processo si è concluso con l’espulsione del guarito dalla sinagoga, ma a questo punto vi è il ribaltamento del giudizio, come Gesù dirà promettendo il dono dello Spirito di verità che mostrerà la falsità del giudizio di questo mondo contro Gesù e i suoi discepoli ( cfr. Giovanni 16,7-11). Proprio nelle ultime battute del racconto si prospetta allora la più pericolosa e grave cecità: l’incredulità invincibile, che si rafforza nonostante la parola di Gesù e la testimonianza del miracolato. I farisei si ritengono illuminati, persone nella luce e non bisognose di alcuna guarigione. In realtà è questa la situazione di buio in cui sono avvolti: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. Essi non si aspettano nulla da Gesù perché si ritengono nel giusto, e sono solo gli altri a dover cambiare. Incarnano, in sostanza, la figura di chi è chiuso alla novità dell’amore divino in nome del ‘già’ noto, per cui giungono a negare l’evidenze, gli stessi fatti, pur di non riformare il loro modo di intendere e di volere. Il peccato ‘rimane’ allorché non si ammette il bisogno di perdono, e il buio incombe ancora più impenetrabile, allorché si pensa di vedere e di conoscere già tutto. Appare allora chiaro il concetto giovanneo di peccato che, ancor prima delle singole colpe, è l’incredulità, è la non disponibilità ad accogliere il dono di Dio e a compiere l’opera di Dio che è la fede (cfr. Giovanni 6,29). In Gv 16, 9 Gesù afferma che il peccato di cui il Paraclitico ‘convincerà’ il mondo è il fatto che “non credono in me”. Ciò è tanto vero che l’autore della prima lettera dovrà richiamare all’osservanza dei “suoi comandamenti” (1ª Gv 1,3-4) e a “comportarsi come lui si è comportato” (1ª Gv 1,6), forse proprio perché qualcuno, nella comunità giovannea ha frainteso questa idea della ‘incredulità’ come se fosse l’unico peccato. “Credo, Signore!” Anche se la conclusione dell’episodio, con le parole rivolte ai farisei, suona molto minacciosa e inquietante, nondimeno anche qui appare un raggio di luce, ed è la confessione di fede di colui che era stato cieco e che finalmente vede chi l’ha guarito. “Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse …” (v. 35). L’evangelista annota esplicitamente che l’incontro avviene per iniziativa di Gesù, proprio come processo di guarigione era venuto non per iniziativa del cieco, ma dello sguardo e della parola di Gesù. L’incontro è delineato in poche intense battute; così alla domanda di Gesù se egli crede nel Figlio dell’uomo, il cieco risponde manifestando il suo desiderio di apertura alla verità, di incontro con essa, di affidamento totale: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?” (v. 36). “Gli disse Gesù: ‘Lo hai visto: è colui che parla con te’” (v. 37). Gesù gli si prospetta così, in modo allusivo ma efficace, come colui che è parola di Dio e che dona la luce di Dio. La frase giovannea è molto densa e va oltre la semplice identificazione di chi sta parlando con il miracolato. Piuttosto lascia percepire il valore pregnante della parola come realtà che istituisce una relazione, crea amicizia, fa sperimentare l’amore. Questo parlare di Gesù con lui è come un dialogo d’amore, uno scambio di amicizia ed è qui allora, che il cieco guarito eleva la sua intensa professione di fede: “‘Credo, Signore!’. E si prostrò dinnanzi a lui” (v. 38).

170 - LA CECITA’ SI AGGRAVA - 06 Aprile 2011 – Mercoledì 4ª sett. Quaresima

Da una parte sta il cieco nato ormai guarito, che non sa però ancora nulla di Gesù. Dall’altra stanno i farisei che, da una possibile apertura verso Gesù, vanno invece verso una progressiva chiusura, di cui il cieco guarito sarà il primo a subire le conseguenze, con la scomunica dalla sinagoga. Costoro aprono un’indagine già prevenuti, perché per loro è evidente che una guarigione compiuta di sabato (Cfr. Giovanni 9,14) è disdicevole, condannabile. Eppure il sabato è il giorno in cui la creazione giunge alla completezza, e la condizione in cui si trova colui che prima era cieco esprime bene questo senso di pienezza, di compimento, che è appunto il sabato. Sembra dunque che non ci sia una vera ricerca della verità, e questo lo si coglie allorché il miracolato definisce il suo guaritore (per lui ancora sconosciuto) come un ‘profeta’. Provocati da ciò, questi farisei cominciano ad entrare in contraddizione con se stessi, indagando sulla causa di un fatto che sperano non essere avventuroso. Scorgono proprio qui una scorciatoia per risolvere il problema, che li vede divisi circa la valutazione di un evento positivo avvenuto però il giorno di sabato: sembra allora essere quella di negare l’identità tra colui che hanno di fronte e colui che era nato cieco è quanto forse attendono dai genitori del cieco nato: una chiara smentita che neghi perciò il miracolo. Ebbene, anche costoro risultano nell’ottica giovannea dei ‘ciechi’. Infatti, invece di esultare e di lodare Dio, succubi della paura per le minacce dei responsabili della sinagoga, lasciano il loro figlio senza difesa. Rappresentano quindi quella mancanza di coraggio nella testimonianza, che fa vivere nella paura e nei compromessi, alla mercé dei desideri altrui. Piuttosto amara suona l’ironia dell’evangelista, allorché rimarca che questi due genitori affermano la maturità del figlio per non assumersi le proprie responsabilità. Sono proprio loro ad essere in una sorta di ‘minore età’, mentre il figlio sta diventando ‘maggiorenne’ nella fede. E bisogna dire che Giovanni insiste con questo contrasto, ribadendo per due volte che colui che ha l’età è il miracolato: “‘Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sè’. Questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei giudei; infatti i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: ‘Ha l’età: chiedetelo a lui!’” (vv.21-23). Ma il processo prosegue anche dopo la deposizione dei testimoni più autorevoli, i genitori del cieco nato. I farisei che si impacano a giudici tentano di estorcere a costui una confessione di una menzogna, il riconoscimento della sua condizione di peccatore e perciò di persona inattendibile. Ma i loro artifizi sono smontati con semplicità disarmante dal miracolato. Egli cresce progressivamente in una certezza che prima non aveva: all’inizio non sapeva nulla di Gesù, poi lo ha riconosciuto come ‘profeta’; successivamente ravvisa in lui un ‘maestro’ del quale è assolutamente auspicabile essere discepoli. Infine egli giunge ad una affermazione grandiosa: colui che lo ha guarito deve certamente essere uno che viene da Dio: “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla” (vv. 32-33). La frattura fra questo miracolato e i suoi giudici è ormai insanabile e la contraddittorietà di questi ultimi è ormai diventata palese: accusano colui che era stato cieco di essere peccatore, trovando la prova di ciò proprio in quella cecità che essi invece negano per non ammettere il miracolo: “Gli replicarono: ‘Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?’. E lo cacciarono fuori” (v. 34).

169 - UN CIECO GUARITO IN MEZZO AD ALTRI “CIECHI” - 05 Aprile 2011 – Martedì 4ª sett. Quaresima

Il processo fatto dal Sinedrio, il cui esito è l’espulsione dalla sinagoga del cieco guarito da Gesù, offre a Giovanni la possibilità di mostrare come la situazione di cecità sia in realtà la condizione spirituale dell’umanità quando non si apre all’Inviato di Dio, al Cristo. Paradossalmente potremmo dire che il cieco guarito è l’unico vedente in mezzo a tanti non vedenti! In definitiva i primi “ciechi” che Gesù cura sono proprio i suoi discepoli, che continuano a cercare colpevoli per il dolore e il male dell’uomo: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Essi non riescono a svestirsi della vecchia mentalità religiosa che fa di Dio un ragioniere universale, distribuente compensi e castighi. Non sono ancora in grado di vedere come Dio possa manifestare la sua gloria ed il suo amore anche nel limite dell’umano, e sia capace di volgere al bene anche il male. L’essere spettatori di quanto accade al cieco, del suo aprirsi alla luce e alla fede in Gesù, li porterà a capire che la più grande disgrazia dell’uomo è l’incredulità, un’immaginazione di se stessi come esseri infelici e soli. Sono in effetti i primi miracolati, perché Gesù regala loro uno sguardo nuovo sulla realtà: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. La domanda dei discepoli su quale peccato e quale responsabilità morale ci fosse all’origine di tale infermità, trova dunque in Gesù una risposta ferma e decisa. Non si può collegare malattia, infermità, e colpa; anzi, spesso nel piano di Dio il dolore, la prova, la malattia possono diventare luoghi nei quali Egli mostra la Sua grazia e il Suo amore glorioso. E va aggiunto che Gesù regala ai discepoli una luce ulteriore sul mistero della Sua persona: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo”. (Giovanni 9,4-5). Egli è dunque come uno che lavora approfittando della luce del giorno, prima che le tenebre della notte impediscano ogni attività. Ebbene, egli è la luce di questo giorno, e la sua vita è un lavoro compiuto in tale periodo di luce, in obbedienza al Padre, per essere quella luce vera che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo (cfr. Giovanni 1,9). In definitiva, i discepoli di Gesù sono dei ciechi che, ascoltando la sua parola, guariscono e vengono illuminati!Ma lo stuolo dei ciechi è destinato ad ampliarsi. Infatti è cieca anche la gente anonima che, incontrando il miracolato, rimane stupita ma incapace di emettere un proprio giudizio sulla vicenda, di rischiare un proprio atto di fede in Gesù. È figura di chi delega agli altri il compito di rispondere alle grandi questioni della vita e della fede per evitare di impegnarsi personalmente, di rischiare, di uscire finalmente dal mondo della chiacchiera, tutto basato sulle opinioni altrui. Tutta questa gente si accontenta di una prima indagine sul come il cieco nato, la cui identità è stata appurata, abbia acquistato la vista. Alla sua risposta, in cui egli afferma di avere in sostanza ricevuto una grazia, ma di non conoscere il mediatore, essi non reagiscono con una decisione di fede, ma si rivolgono appunto agli uomini di religione, scaricando su di loro il problema.