Da una parte sta il cieco nato ormai guarito, che non sa però ancora nulla di Gesù. Dall’altra stanno i farisei che, da una possibile apertura verso Gesù, vanno invece verso una progressiva chiusura, di cui il cieco guarito sarà il primo a subire le conseguenze, con la scomunica dalla sinagoga. Costoro aprono un’indagine già prevenuti, perché per loro è evidente che una guarigione compiuta di sabato (Cfr. Giovanni 9,14) è disdicevole, condannabile. Eppure il sabato è il giorno in cui la creazione giunge alla completezza, e la condizione in cui si trova colui che prima era cieco esprime bene questo senso di pienezza, di compimento, che è appunto il sabato. Sembra dunque che non ci sia una vera ricerca della verità, e questo lo si coglie allorché il miracolato definisce il suo guaritore (per lui ancora sconosciuto) come un ‘profeta’. Provocati da ciò, questi farisei cominciano ad entrare in contraddizione con se stessi, indagando sulla causa di un fatto che sperano non essere avventuroso. Scorgono proprio qui una scorciatoia per risolvere il problema, che li vede divisi circa la valutazione di un evento positivo avvenuto però il giorno di sabato: sembra allora essere quella di negare l’identità tra colui che hanno di fronte e colui che era nato cieco è quanto forse attendono dai genitori del cieco nato: una chiara smentita che neghi perciò il miracolo. Ebbene, anche costoro risultano nell’ottica giovannea dei ‘ciechi’. Infatti, invece di esultare e di lodare Dio, succubi della paura per le minacce dei responsabili della sinagoga, lasciano il loro figlio senza difesa. Rappresentano quindi quella mancanza di coraggio nella testimonianza, che fa vivere nella paura e nei compromessi, alla mercé dei desideri altrui. Piuttosto amara suona l’ironia dell’evangelista, allorché rimarca che questi due genitori affermano la maturità del figlio per non assumersi le proprie responsabilità. Sono proprio loro ad essere in una sorta di ‘minore età’, mentre il figlio sta diventando ‘maggiorenne’ nella fede. E bisogna dire che Giovanni insiste con questo contrasto, ribadendo per due volte che colui che ha l’età è il miracolato: “‘Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sè’. Questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei giudei; infatti i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: ‘Ha l’età: chiedetelo a lui!’” (vv.21-23). Ma il processo prosegue anche dopo la deposizione dei testimoni più autorevoli, i genitori del cieco nato. I farisei che si impacano a giudici tentano di estorcere a costui una confessione di una menzogna, il riconoscimento della sua condizione di peccatore e perciò di persona inattendibile. Ma i loro artifizi sono smontati con semplicità disarmante dal miracolato. Egli cresce progressivamente in una certezza che prima non aveva: all’inizio non sapeva nulla di Gesù, poi lo ha riconosciuto come ‘profeta’; successivamente ravvisa in lui un ‘maestro’ del quale è assolutamente auspicabile essere discepoli. Infine egli giunge ad una affermazione grandiosa: colui che lo ha guarito deve certamente essere uno che viene da Dio: “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla” (vv. 32-33). La frattura fra questo miracolato e i suoi giudici è ormai insanabile e la contraddittorietà di questi ultimi è ormai diventata palese: accusano colui che era stato cieco di essere peccatore, trovando la prova di ciò proprio in quella cecità che essi invece negano per non ammettere il miracolo: “Gli replicarono: ‘Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?’. E lo cacciarono fuori” (v. 34).
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