sabato 25 maggio 2013

490 - DIO SI FA CONOSCERE COME COMUNIONE DI AMORE - 26 Maggio 2013 – Santissima Trinità

(Proverbi 8,22-31 Romani 5,1-5 Giovanni 16,12-15)

Il mistero trinitario è la nostra identità ed esprime la nostra vocazione. In altri termini, nella Trinità c’è la ‘grammatica’, la chiave per interpretare e per impostare l’esistenza, per ripensare la vita sociale e le strutture in cui essa si organizza. La parola di Dio indica l’uomo nella sua finitezza, ed il suo mistero, come porta di accesso privilegiato al mistero di Dio.
Se rientriamo in noi stessi, infatti, ed abbiamo il coraggio di scendere nella caverna più nascosta della nostra anima, riusciamo a scoprire che nella nostra esistenza, pur deturpata dal peccato, vi sono ancora segni indelebili della sapienza e della bontà di Dio; riusciamo a scorgere ancora le vestigia di un amore che ci avvolge e ci accompagna, ci precede e ci segue, ci sovrasta e ci sostiene; possiamo ancora percepire quanto la fame e la sete di verità, di autenticità, di luce che rischiara e rasserena la vita, non sono altro che un frutto di quello Spirito, che la Verità la maneggia in modo ineguagliabile, tanto da condurre ad essa ogni uomo di buona volontà. Per comprendere e per gustare qualcosa di Dio e del suo mistero sarebbe sufficiente comprendere qualcosa in più dell’uomo e del suo mistero.
Come l’universo, stando a quanto ci dicono gli studiosi, contiene ancora l’eco del big bang iniziale, così il mondo creato reca in sé, nell’umanità e nelle culture che la caratterizzano, le tracce di quella Sapienza divina inesauribile che a tutto ha dato origine e senso. Una Sapienza che la Liturgia ancora invoca, il primo giorno della novena di Natale, con una delle mirabili antifone “O”: «O Sapienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo raggiungendo gli estremi confini del mondo e tutto disponi con soavità e forza, vieni ad insegnarci la via della prudenza».
L’amore di Dio, che il Figlio, Gesù, è venuto a rivelarci, non è un’astrazione, ma è sempre Redenzione, poiché realizza quella riconciliazione a 360° – impossibile alle forze umane –, che mette pace tra Dio e uomo, tra uomo e uomo, tra uomo e se stesso. Si tratta di una totalità e di una pienezza solo immaginabile, umanamente parlando, ma esperibile nella misura in cui la vita lascia spazio a questa irruzione di Dio. Quando l’umanità diventa casa accogliente e patria ospitale per l’Amore della Trinità, allora sperimenta la shalom …
Ma quanto siamo lontani, nel vissuto personale ed ecclesiale, da una tale qualità di rapporto! Al massimo sentiamo una affinità con Dio quando le cose della vita procedono secondo i nostri gusti, le nostre esigenze, la nostra volontà. Ma quando si tratta di mettere in conto la tribolazione, la croce, ci troviamo di fronte ad una vera e propria pietra di inciampo per la nostra fiducia nell’amore di Dio. Quanti hanno perso la fede a motivo di una difficoltà anche piccola. Eppure Paolo, nella seconda lettura di oggi, per parlarci di un itinerario di avvicinamento all’amore di Dio che redime qualsiasi dolore, parte proprio dalla situazione crocifiggente della tribolazione, causa di pazienza, causa, a sua volta, di discernimento, e da cui scaturisce, come da sorgente, la speranza. Non dimentichiamo che Cristo ha amato sempre e comunque e che, sulla Croce, ha toccato il vertice dell’Amore. Un itinerario arduo, quello tracciato dall’Apostolo, possibile solo a chi crede nell’Amore, a chi si fida dell’Amore e si affida all’Amore, facendo una speciale esperienza di Dio che, forse, nient’altro è in grado di incoraggiare fino a questo livello.
Parlare dello Spirito, Terza Persona della SS: Trinità, ed accorgersi dello Spirito, è forse la cosa più difficile nell’esperienza di fede. Se il Padre è riconoscibile nella storia della salvezza, ed il Figlio, narratoci dall’Evangelo, è Dio in carne ed ossa in mezzo a noi, lo Spirito appare quanto di più evanescente noi possiamo percepire. Eppure gli effetti ed i frutti dello Spirito sono talmente eclatanti che solo un cieco – o un non credente – sarebbe capace di ignorare. Egli è Colui che guida alla verità tutta intera – cioè a Dio e al suo Figlio Gesù Cristo –. Egli altri non è che il continuatore dell’opera di Gesù, perché lo sottrae alla contingenza di un tempo e di un luogo per renderlo contemporaneo a tutti i tempi, a tutti i luoghi, a tutte le persone. Egli è il testimone di Gesù, ed è Colui che prende le difese dei discepoli di Gesù. Egli è Colui che, non soltanto ne evoca la memoria, ma lo fa in modo performativo, così che quanto si proclama nella liturgia accade effettivamente, realmente e salvificamente. È così che il credente e la Chiesa entrano nel mistero di Dio e ne fanno indissolubilmente parte, rendendo persino inutile il raccontare il Mistero, perché basta viverne la Verità tutta intera.
 
PREGHIERA
Noi non possiamo entrare nel mistero d’amore che unisce te, Gesù, al Padre e allo Spirito, contando solamente sulla nostra intelligenza. La nostra ricerca è votata al fallimento e a terribili equivoci se non ci lasciamo guidare dalla tua Parola, se non accettiamo di passare attraverso il rapporto unico, l’esperienza profonda che ti lega al Padre, se non permettiamo allo Spirito di agire dentro di noi e di aprirci ad una comunione che trasforma questa nostra povera esistenza in un frammento di eternità.
Per questo ora vogliamo dar voce alla nostra gratitudine, esprimere la nostra gioia. Benedetto sei tu, o Cristo, Figlio di Dio venuto nella nostra carne per donarci una dignità sconosciuta e manifestarci quell’amore che libera e salva. Benedetto sei tu, o Padre, sorgente della vita e della misericordia, che ti sei legato per sempre all’umanità. E benedetto sei tu, o Spirito Santo, che continui a meravigliarci con le novità che provochi nella storia.

sabato 18 maggio 2013

489 - ACCENDI IN NOI IL FUOCO DEL TUO AMORE - 19 Maggio 2013 – Pentecoste

(Atti 2,1-11 Romani 8,8-17 Giovanni 14,15-16.23b-26)

Sono soprattutto tre le immagini con cui la Bibbia ci presenta lo Spirito Santo: la colomba, il fuoco, il vento. 
La COLOMBA è la metafora dello Spirito legata alla persona di Cristo, alla sua vocazione, alla sua rivelazione come colui che Dio aveva scelto e mandato nel mondo. Come una colomba, lo Spirito veniva dall’alto. Come la colomba che Noè aveva inviato dall’arca e che era tornata indietro con un ramoscello di ulivo, segno della nuova vita, nello stesso modo lo Spirito che era sceso in forma di colomba e si era posato su Gesù diceva che una nuova umanità s’inaugurava in Gesù.
Il testo di Atti 2 racconta che, il giorno di Pentecoste, la casa dove i discepoli erano insieme in preghiera fu riempita da un VENTO impetuoso. Il termine ebraico per vento è proprio lo stesso per indicare lo Spirito; Gesù stesso, parlando a Nicodemo della nascita per lo Spirito, aveva fatto riferimento all’effetto dello Spirito come all’effetto del vento: «Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito». La metafora del vento richiama il soffio creatore di Dio. Giovanni rende esplicito questo riferimento quando anticipa la Pentecoste nell’atto del Gesù risorto che alita sui discepoli dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito di Dio, il suo soffio, crea e ricrea, dà vita nuova.
«Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro». Il profeta Gioele aveva detto: «Avverrà che io spanderò il mio spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni e i vostri vecchi sogneranno». Alla metafora del FUOCO che si divide e si posa su ciascuno è affidato il significato più rivoluzionario della Pentecoste. Lo Spirito tocca la vita, il corpo di ogni persona. Persone di età, di genere, di condizioni sociali diverse ricevono il fuoco dello Spirito, il coraggio, la forza di diventare testimoni di Cristo risorto nel mondo. Non uno spirito esclusivo ed escludente, ma uno spirito che non fa alcuna distinzione fra le persone. Chiunque si apra all’opera dello Spirito, chiunque creda nell’azione rigeneratrice dello Spirito Santo, chiunque si lasci riscaldare dalla presenza del Risorto e della sua Parola diventa testimone, profeta. Noi abbiamo più che mai bisogno di una lingua capace di abbattere le barriere che ancora dividono popoli e culture, abbiamo bisogno che ai giovani si restituiscano speranze, che gli stanchi ritornino a sognare, abbiamo urgenza che uomini e donne umiliati siano restituiti alla vita e che tutti possiamo gioire della grazia. Abbiamo bisogno di una nuova Pentecoste che ci scompigli, ci faccia ardere il cuore, ci doni la semplicità della colomba e ci restituisca la dignità, la grazia, la libertà dei figli di Dio.

PREGHIERA - Tu hai mantenuto quella promessa formulata nel Cenacolo, prima di scendere all’orto degli Ulivi dove sarebbe cominciata la tua passione. In quel momento drammatico tu hai annunciato che il Padre avrebbe mandato un altro Consolatore.
I tuoi discepoli non sarebbero rimasti soli, ma su di loro sarebbe discesa una forza dall’alto: una forza per cogliere il senso degli eventi della storia, una forza per intendere e comprendere la Parola, una forza per lasciarsi guidare dal Vangelo, una forza per prendere le decisioni migliori, secondo il cuore di Dio, e per realizzarle, senza desistere. È questa forza che ancor oggi spinge a darti testimonianza anche nell’ora terribile della prova, dona il gusto di una nuova saggezza che ci sottrae alle seduzioni del mondo e ci permette di vivere l’esistenza buona e bella del cristiano.
È questa forza che fa cadere i muri che ci separano e rende possibile una nuova fraternità e ci consente di costruire una terra più solidale e generosa, secondo il piano del Padre.

venerdì 17 maggio 2013

488 - IO SONO CON VOI TUTTI I GIORNI - 12 Maggio 2013 – Ascensione del Signore

(Atti 1,1-11 Ebrei 9,24-28;10,19-23 Luca 24,46-53)

Con la festa dell’Ascensione il ciclo liturgico pasquale arriva al culmine. Ci troviamo di fronte al destino finale di quella persona straordinaria che è stato il falegname di Nazareth, crocifisso dai Romani, sperimentato risorto dai suoi amici. Gesù passa dal tempo all’eternità, dalla limitatezza all’infinito, dall’umiltà della condizione umana, che aveva rivelato e velato il suo splendore di Verbo del Padre, alla trascendenza della divinità. Gesù introduce, per sempre, nella vita misteriosa della Trinità un’umanità redenta. Qui siamo di fronte ad una figura del destino di ogni uomo; siamo nati dall’amore e da quest’amore di Padre saremo circondati e custoditi per sempre.
Dopo l’Ascensione si apre il tempo della Chiesa. Gesù dice che si tratta di andare incontro «a tutte le genti», chiamandole a un cambiamento totale nella vita. Si tratta di dire a tutti che Dio è Padre-Madre che ama, che perdona gratuitamente, che ha a cuore la nostra pienezza di vita, che vuole la pace per tutti i suoi figli. Tempo della Chiesa, il nostro, tempo di uomini falliti. Non abbiamo bisogno sempre, di nuovo, di uomini in bianche vesti che ci ricordino la terra e la nostra missione di percorrerla tutta perché la bontà, la bellezza e l’amore nascano in mezzo agli uomini? Cosa può significare, oggi, vivere la pienezza della vita del Risorto che «è salito al cielo e siede alla destra del Padre»? Ce lo ricorda padre David Maria Turoldo in un verso poetico splendido: «Sentire la dolcezza dell’acqua e del pane e del vino che è sangue! (questa è la pace con Dio). E vivere in pace con le creature amate» (vivere in pace con gli uomini).
La terra e il cielo, quando vivono non separati, né, tanto meno, contrapposti, ma integrati fra loro hanno la pienezza della vita. Questa integrazione racchiude tutta la vita di Cristo; lo professiamo ogni domenica: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo». Al termine di questa vita incarnata per noi, si compie la grande avventura umana-divina di Gesù: «È salito al cielo e siede alla destra del Padre».

PREGHIERA
La tua ascensione al cielo non segna, Gesù, un distacco dalla terra, ma piuttosto un compimento, una situazione tanto attesa. Perché solo ora gli apostoli cominciano la loro missione? Perché proprio in questo frangente li spedisci in un’avventura folle: portare dovunque il tuo Vangelo, offrire il perdono di Dio, trasformare l’esistenza di chi crede? Adesso, salendo al cielo, tu sei veramente vicino a tutti, senza alcuna barriera, senza limiti di tempo e di luogo. Adesso tu accompagni i tuoi discepoli con la forza del tuo Spirito. Non si sentiranno mai soli, abbandonati a se stessi, in balìa delle forze avverse che pur dovranno affrontare.
Tu sei con loro, tu sei con noi, oggi. Anche se non ti vediamo, tu sei presente ed agisci attraverso la tua parola, attraverso i santi sacramenti. Tu continui a visitarci nei poveri che incontriamo. È questa la sorgente della nostra gioia, questa la certezza che non ci abbandona: qualunque cosa accada, tu ci sei vicino.

487 - IL FRUTTO PASQUALE DELLA PACE - 04 Maggio 2013 –VIª Domenica di Pasqua

(Atti 15,1-2.22-29 Apocalisse 21,10-14.22-23 Giovanni 14,23-29)

Lungo tutto il Vangelo di Giovanni, alcune parole vengono ripetute con insistenza. Il Vangelo di oggi presenta diversi di questi termini: amare, osservare, Parola, Spirito e vi appare anche un verbo che l’evangelista usa soltanto questa volta: ricordare. «Lo Spirito Santo vi ricorderà tutto ciò che Io vi ho detto». Lo Spirito porta alla memoria la parola di Gesù. Il Vangelo di Giovanni approfitta degli ultimi momenti di Gesù per esortare alla memoria, non come rituale da ripetere, ma come risonanza di tutto quello che si è ascoltato; non come iniziativa dei discepoli, ma dello Spirito. Osservare e fare memoria sono termini che rimandano all’atteggiamento di vegliare affinché qualcosa non si perda. «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola». «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte». Chi fa memoria, non vedrà mai la morte. Curiosa funzione della memoria! Di solito, quando qualcuno muore, diciamo che continua a vivere nella memoria dei suoi. Gesù amplia la funzione della memoria. «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte». Colui che ricorda la Parola vive nell’oggi, non nel passato. La memoria è esaltazione della vita nel presente. Ricordare la Parola è non morire. Di fronte all’esortazione di Gesù a far memoria, mosso dallo Spirito, non posso non leggere il testo a partire dalla mia realtà. Ci giunge in modo particolare questo mandato del Maestro, di far sì che la sua Parola non si perda. Quante volte abbiamo inteso l’osservare in senso contrario a quello voluto da Gesù. Poniamo tanti ostacoli alla Parola, fino al punto da renderla separata, arida per il popolo di Dio.
Il frutto pasquale della pace è il dono del Risorto agli apostoli, alla Chiesa e al mondo intero. Un fatto nuovo che attribuisce allo shalom una dignità insospettabile. Per dirla con don Tonino Bello, la pace che ciascuno di noi è chiamato a costruire per vocazione, è una pace D.O.C., a denominazione di origine controllata. Profumata di risurrezione, porta impressa le stimmate della croce, chiede sempre un tributo di sofferenza e di fatica con tutto il sovraccarico d’incomprensioni, derisioni, scetticismi.
Su un valore come quello della pace non si possono immaginare concessionarie esclusive. La pace ha valore di virtù teologale e va impetrata come dono. Il cammino da compiere, come comunità cristiane, è ancora lungo! Eppure Cristo non poteva essere più chiaro al riguardo: «Non come ve la dà il mondo…»; non con gli equilibri prudenti delle cancellerie diplomatiche, non generata come concessione benevola dell’ultimo feudatario del mondo globalizzato. La pace del Risorto non si limita a rimuovere i conflitti; la pace dono del Crocifisso-Risorto ha impressa la filigrana della non-violenza e del perdono che le conferiscono la certezza di essere autentica e duratura.

PREGHIERA
Quando veniamo invitati a scambiarci un segno di pace durante l’Eucaristia, forse non pensiamo abbastanza al gesto che stiamo compiendo. E forse la prendiamo per un’occasione destinata solamente ad esprimere e a rinsaldare i legami che ci uniscono.
Ma quale pace tu ci offri, Gesù? A quale pace facevi riferimento mentre stavi per affrontare la passione e la morte? Certo non una pace che trova origine in una generica disponibilità a mostrarsi benevoli e neppure in regole di galateo che assicurano rapporti rispettosi.
La tua pace, comunque, non ha niente a che fare con una buona dose di tranquillità, con l’assenza di problemi e di conflitti, e dunque con una serenità a poco prezzo. La tua pace viene proprio, paradossalmente, dal momento terribile a cui vai incontro, per amore. È col tuo sangue, infatti, che tu ci rigeneri ad un’esistenza nuova, ci liberi dall’odio e dal rancore, ci dai la gioia di essere amati e la forza di amare come te. È col tuo sangue prezioso che tu abbatti ogni barriera e ci doni la dignità dei figli di Dio.

486 - L’ESEMPIO DI GESÙ DIVENTA VITA CONCRETA NELL’AMORE FRATERNO 28 Aprile 2013 – Vª Domenica di Pasqua

(Atti 14,21-27 Apocalisse 5,1-5a Giovanni 13,31-33a.34-35)

Dentro il tempo pasquale pasquale possiamo enucleare, oggi, il tema delle virtù teologali capaci di rendere attuale la Pasqua del Signore.
 
La fede emerge dal brano degli Atti che ci consegna l’azione missionaria di Paolo e Barnaba: «confermavano i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede». Questa fede non è caratterizzata dalla staticità, ma dal dinamismo tipico di ogni trasformazione in meglio della storia. Sempre la fede deve essere vissuta come un passaggio ineludibile tra un già e un non ancora. Sono ancora Paolo e Barnaba a ricordarlo: «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
La speranza: questa storia tribolata necessita di un supplemento d’animo che scaturisce dalla speranza che si radica nella visione narrataci da Giovanni nell’Apocalisse: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini». Egli sarà il Dio con loro con lo scopo dichiarato: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Così contestualizzata, la speranza si configura come passaggio dal limite alla pienezza. Tutto, infatti, si trasformerà perché dove il Risorto si manifesta, lì s’incontra la novità della storia redenta: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno».
La carità: questo mondo nuovo trova insediata in sé la dimensione evangelica della carità richiamata apertamente dal Vangelo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi». Questa consegna attua la realizzazione del nostro io in Dio. Ce lo assicura Cristo promettendo, alla fine, l’autenticità del discepolato oltre ogni compromesso della storia: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Sant’Agostino, nella Città di Dio, lo dice con chiarezza ineccepibile: «Due amori sono all’origine delle due città: nella città terrena, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio; nella città celeste, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Quella si gloria in se stessa, questa in Dio. In quella, nei suoi principi e nelle nazioni che sottomette, domina la libidine del potere; in questa, i capi consigliando e i sudditi obbedendo, ci si serve scambievolmente nella carità». È vero, l’amore di Cristo è architettonico, cioè destinato a modificare la realtà, non a passarvi sopra. Il Risorto è il pieno e perfetto compimento dell’amore.

PREGHIERA
Non sarà un’etichetta particolare, né una divisa specifica, né un linguaggio codificato a rivelare la nostra identità. Non saranno riti significativi, né dottrine ben precisate, né professioni di fede sicure e neppure abitudini consolidate a designarci come tuoi discepoli.  Tu, Gesù, ci affidi un criterio che guiderà la nostra ricerca: l’amore che avremo gli uni per gli altri. Ecco ciò che è determinante ai tuoi occhi.
Del resto senza questo amore ogni cosa perde sapore e senso. La tua stessa parola diventa oggetto di disquisizioni dotte, di indagini scientifiche e di spiegazioni senza cuore. I gesti santi che ci hai affidati generano un pietoso equivoco e costituiscono una sorta di pedaggio pagato all’ambiente e alla tradizione.
La comunità a cui apparteniamo prende i connotati di uno dei tanti gruppi, con una struttura ben definita e con un funzionamento disciplinato. Per te, dunque, ciò che conta è l’amore: l’amore che ci induce a trattare ogni persona come un fratello, l’amore che ci porta sulle strade del Regno e ci fa vibrare della tua stessa vita.

485 - GESÙ BUON/BEL PASTORE - 21 Aprile 2013 –IVª Domenica di Pasqua

(Atti 13,14.43-52 Apocalisse 7,9-17 Giovanni 10,27-30)

Per noi moderni l’allegoria del buon pastore è quasi incomprensibile. A sentire quella parola ci viene in mente una figura di altri tempi con cui non scambieremmo neppure una parola. Per gli antichi le cose andavano diversamente, fino al punto che gli stessi re erano pastori di popoli. Senza pastore una pecora è persa. Preda dei lupi, oggetto di mire interessate da parte di gente affamata. Non ha nulla per difendersi la pecora; la sua vita dipende dal pastore. Che Gesù si definisca il pastore buono, bello, non è da poco. Sta attribuendo a sé un’immagine classica. Senza dirlo, si sta definendo il Cristo. Sta dicendo cosa è venuto a fare sulla terra: a dare vita, partecipazione intima alla vita stessa di Dio. Nella liturgia del tempo di Pasqua, il senso di questo brano di Giovanni sembra chiaro. Con la crocifissione non è stato annullato il progetto del Padre di fare rifiorire la gioia sulla terra. Gesù rimane il Cristo, compie sulla terra l’impossibile missione di riportare l’uomo alla sua umanità. La sofferenza del Giusto non è la sconfitta della Bontà e della Tenerezza; è solo il modo in cui Dio, oggi, manifesta il suo amore di Padre. Il vero problema consiste nel sapere da chi l’uomo del terzo millennio si aspetti vita. Da questa domanda non possiamo chiamarci fuori noi cristiani. Ci fosse concesso di vedere, in ogni assemblea liturgica, un’esplosione di gioia di creature che si sentono una cosa sola con gli uomini dell’intero pianeta. Aspettiamo vita dai muri che innalziamo per separarci da quanti ci disturbano; aspettiamo vita dalle armi che fabbrichiamo, sempre più sofisticate e micidiali; l’aspettiamo dal nostro essere superiori agli altri, i migliori, con diritto di disporre della vita e della morte dei deboli. Sono i soldi, il nostro potere d’acquisto, a darci vita. Che sia umana la nostra vita, non belluina, non affacciata sull’orrore; che ci sia o no una prospettiva di un oltre dopo la morte, tutto questo pare ininfluente, non quotabile in borsa e, quindi, insignificante. È grave dover dire che, Pasqua dopo Pasqua, nella nostra coscienza di battezzati poco cambia rispetto a questa attesa di vita. Nei fatti, il mercato è il nostro pastore, il dio-denaro, e l’uomo non è più pastore dell’essere, come avrebbe voluto Heidegger, ma pastore delle macchine, della sua disumanizzazione. Eppure qualcosa dovrebbe cambiare. Dalla risurrezione dovrebbe scaturire, ci dice Giovanni nell’Apocalisse, una nuova visione della terra. Coloro che hanno attraversato nel sangue la grande tribolazione non sono finiti nel nulla. Di loro è pieno il cielo. Quasi a dire che la terra può essere buia, il dolore può rendere angosciante e assurda la nostra vita, la prepotenza può farci maledire di essere nati e, tuttavia, nel Risorto un lembo di cielo è visibile: l’ultima parola non è la morte, ma la vita. Tutto può ricominciare e l’uomo può riconquistare una palma che lo faccia degno di stare in eterno al cospetto di Dio e di ogni uomo.

PREGHIERA
Tu non sei un pastore qualsiasi, Gesù, non lo fai per mestiere, non cerchi un guadagno. Lo si vede dall’amore che hai rivelato al momento della prova: ci hai difeso a mani nude, ti sei sacrificato pur di strapparci al potere del male, hai donato la tua stessa vita.
Ecco perché mi affido a te. La tua voce inconfondibile risuona col suo timbro particolare nel profondo della mia anima. Tu ti rivolgi proprio a me e nel segreto dell’esistenza mi chiedi di seguirti, di lasciarmi condurre. Del resto tu mi conosci e sai decifrare anche quello che sfugge ai miei occhi.
Che cosa mi offri? Non un successo effimero, non di apparire per un attimo sulla ribalta della storia, non dei beni destinati a perire, ma la vita eterna, una vita segnata dalla pienezza, trasfigurata dall’amore. E, fin d’ora, la certezza che – qualunque cosa mi accada – niente e nessuno potrà strapparmi dalla tua mano, neppure la morte.