sabato 25 agosto 2012

422 - SIGNORE DA CHI ANDREMO? - 26 Agosto 2012 – XXIª Domenica Tempo ordinario

(Giosuè 24,1-18 Efesini 5,21-32 Giovanni 6,60-69)

Gesù termina il discorso sul pane di vita parlando con le persone che più da vicino lo hanno seguito. Tutti sono chiamati a sfamarsi e a saziarsi di Gesù «pane di vita» (cfr. 6,1-15), ma non a tutti è dato di comprendere il mistero di questo cibo che dà la Vita al mondo (cfr. 6,51), capace di donare la risurrezione nell’ultimo giorno (cfr. 6,54). A ciascuno, direbbe Origene, è dato di comprendere secondo le proprie capacità. Gesù alcune cose le dice a tutti, altre le riserva per i suoi discepoli. Il nostro brano evidenzia le due reazioni fondamentali dell’uomo di fronte alla proposta del vangelo: rifiuto o accoglienza (cfr. Gv 1,11-12). Il seguire Gesù come discepolo può, a un certo punto, stancare e diventare incomprensibile, e allora ci si tira indietro (cfr. v. 66); oppure, chiede di rilanciare continuamente la fiducia in lui aprendosi alla novità dello Spirito che dà la vita.

La conclusione del lungo discorso sul «pane di vita» vede i discepoli incapaci di comprendere le parole di Gesù, che – ironicamente stupito – chiede se sono scandalizzati. Egli dice loro che ci sono cose ancora più misteriose da comprendere, come vedere il Figlio dell’uomo salire dov’era prima (cfr. v. 62). Le parole di Gesù sono vive, perché contengono lo Spirito che dà vita a chi sa ascoltare, aprono alla fiducia in Dio e alla fede nella sua opera. Ancora una volta, Gesù lega in maniera forte l’atto di fede del discepolo al dono dello Spirito. Egli, però, ribadisce ciò che aveva già detto al v. 44: la fede è opera del Padre che attrae ogni uomo verso il Figlio, fonte e mediatore dello Spirito di vita.

Si ripresenta il tema fondamentale della fede. È interessante notare come, per l’autore del quarto vangelo, sia proprio la fede dei Dodici, guidati da Pietro, a rilanciare l’avventura con Gesù. La professione di fede di Pietro ci consente di continuare a leggere il vangelo, di continuare a vedere Cristo all’opera nella nostra storia. Gesù sembra disposto a rinunciare a tutto, anche ai suoi amici più intimi: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67). La professione di fede di Pietro in Gesù, Santo di Dio, ribadisce l’adesione dei Dodici al loro Maestro.

La risposta di Pietro è convinta e senza esitazioni: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (v. 68). La portata di questa formulazione risalta ancora di più se viene paragonata al brano sinottico della confessione di Cesarea di Filippo. Rispetto alla risposta là riferita («Tu sei il Cristo»), qui Pietro afferma l’identità di Gesù («Signore, il Santo di Dio»), riconoscendone insieme il suo significato per loro («Tu hai parole di vita»). Non si può dire chi è Gesù, se non riconoscendolo come punto di riferimento esclusivo, e ponendo la propria vita sotto l’influsso della sua signoria e della sua parola.

Nella risposta di Pietro c’è un altro passaggio importante: «Noi abbiamo creduto e conosciamo che tu sei il Santo di Dio» (v. 69). Pietro dà due risposte a Gesù: «Tu hai... Tu sei...». Egli si concentra sempre di più sulla figura di Gesù come tale: «Tu hai» concentra l’attenzione sui doni di Gesù; «Tu sei» sulla figura stessa di Gesù, e perciò indica il vertice della risposta di Pietro; è come se dicesse: ti seguo non per interesse o per altri motivi simili, ma perché sei tu, il Santo di Dio, e in te troviamo il Padre.

PREGHIERA - Sia chiaro a tutti: tu non trattieni nessuno, non corri dietro al consenso, non sei vittima dei sondaggi, non cerchi approvazione a tutti i costi. No, Gesù, tu lasci ognuno del tutto libero di accoglierti, di rifiutarti e addirittura di ignorarti, di non vederti neppure.

Viene prima o poi il momento in cui ognuno deve prendere una decisione difficile: abbandonarsi a te, mettere la sua vita nelle tue mani, correre l’avventura della fede, oppure lasciar perdere, per non correre rischi, per stare tranquilli.

È vero: la tua parola talvolta è dura e ci obbliga a prendere vie inesplorate, sentieri ardui. Eppure solo questa parola ci fa entrare nella verità e sospinge l’esistenza all’approdo di una gioia senza fine. La tua parola è esigente e ci spinge a decidere, con gioiosa fiducia e senza rimpianti, con la determinazione di chi imbocca risolutamente una strada stretta ed impervia, ma già pregusta il sapore di una pienezza smisurata.

421 - IL PASTO COME RITO DEL’EUCARISTIA

Per una pausa spirituale durante la XXª Settimana del Tempo ordinario

Il pasto è l’atto fondamentale della celebrazione eucaristica. Ma di che atto si tratta? Se si osserva la storia dell’umanità si può notare che il pasto svolge due ruoli: uno di tipo biologico e l’altro di tipo culturale. La prima osservazione, del tutto ovvia, è che l’uomo appartiene al mondo biologico e ricorre all’atto del mangiare per conservare e incrementare la vita. La seconda osservazione, chiara a tutti, è che l’uomo si distingue dalle altre specie viventi perché crea cultura, ossia un insieme di comportamenti (fisici e mentali) con i quali tende a trasformare il mondo che lo circonda e a dargli senso. All’interno della cultura troviamo anche le religioni e i loro riti, tra i quali un posto rilevante è occupato dai pasti rituali. In quanto rito, l’atto del mangiare non è più legato solo alle esigenze biologiche, ma anche a quelle culturali. E se nel primo caso si ha il pasto come «alimento della vita», nel secondo caso si ha il pasto come «senso della vita». L’aspetto più importante, però, è l’operazione simbolica svolta dal rito. Noi potremmo pensare (e spesso pensiamo) che per alimentare la vita si deve andare in cucina o al ristorante, ossia in un luogo in cui poter consumare un pasto, mentre per dare senso alla vita si deve andare a scuola o in chiesa, ossia in un luogo in cui si trasmettono delle idee. Il rito, invece, tende a «tenere insieme» le due cose (per questo è «sim-bolico») dato che ricorre al pasto non solo come a un’azione con la quale alimentare la vita, ma anche come a un gesto col quale dare senso alla vita. Non a caso si parla di «nutrimento» fisico (che alimenta la vita) e spirituale (che dà senso alla vita). Il pasto rituale gioca sull’intreccio tra i due tipi di nutrimento, evitando di separare la vita dal senso della vita.

La celebrazione eucaristica è questo intreccio. Potremmo dire che è l’esasperazione di questo intreccio, dato che il fondamento stesso del senso della vita, ossia Gesù Cristo, è ciò di cui ci si nutre. Indubbiamente ci si nutre di Gesù Cristo ascoltando le sue parole e leggendo quello che si è scritto di lui. Eppure un modo fondamentale e irrinunciabile per nutrirsi di Gesù Cristo è mangiare il pane e bere il vino. Non basta leggere un libro (sacro), occorre anche mangiare un pane (consacrato), perché il senso della vita non può limitarsi alla comunicazione verbale, ma deve allargarsi alla comunicazione non verbale. Solo così infatti viene coinvolto tutto l’uomo e non solo una sua parte. Qui emerge un fatto decisivo, ossia che la fede implica il coinvolgimento di tutto l’uomo: il coinvolgimento di tutti i suoi linguaggi umani (verbali e non verbali) e di tutte le sue dimensioni (la vita e il senso della vita). La celebrazione eucaristica, in quanto pasto come rito, corrisponde alle esigenze della fede. Per comprendere meglio tale corrispondenza occorre tenere presenti altri aspetti del pasto e del rito.

Un aspetto quanto mai evidente è quello relativo alla dimensione conviviale del pasto. Il fatto che per mille motivi ci si trovi spesso a mangiare da soli non deve portare a sottovalutare questo aspetto. In primo luogo, proprio quando si è costretti a mangiare spesso da soli si possono comprendere meglio le caratteristiche del mangiare in compagnia di altre persone. In secondo luogo, è abbastanza ingenuo pensare di mangiare completamente da soli dato che il cibo consumato è un più o meno consapevole richiamo ad altre persone inevitabilmente coinvolte. Non si deve dimenticare che il cibo consumato dagli uomini non è mai solo ciò che fornisce la natura (per esempio il coniglio) ma sempre anche il risultato di attività legate alle capacità culturali dell’uomo (cuocere il coniglio). In altri termini, per l’uomo il pasto è sempre anche un fatto socio-culturale che implica il riferimento a una qualche comunità di appartenenza. Ovviamente l’esperienza della convivialità esige qualcosa di più, ossia la presenza reale di persone con le quali si condivide il pasto. Ed è questo un punto centrale del rito che è sempre un fenomeno ecologico e sociologico: ecologico perché coinvolge l’ambiente naturale (gli elementi dell’ambiente), sociologico perché coinvolge le relazioni umane (la preparazione e lo scambio degli elementi). E così, se il pasto come rito implica la stretta relazione tra «alimentare la vita» e «dare senso alla vita», ora emerge che il luogo originario di tale relazione è la comunità.

Un altro aspetto rilevante del pasto è quello dell’ospitalità. L’essere invitati a pranzo da qualcuno costituisce non solo un fenomeno riscontrabile ovunque, ma particolarmente rilevante nel caso del rito. Anzitutto proprio quando il pasto si consuma in un contesto di ospitalità, i commensali (tanto gli invitanti quanto gli invitati) adottano comportamenti rituali che agevolano i rapporti sociali. Inoltre nei contesti religiosi la forma rituale del pasto assume particolare rilevanza, dato che deve salvaguardare i rapporti tra l’uomo e Dio. Infine nell’ambito della liturgia cristiana, e più precisamente dell’eucaristia, il pasto concerne i rapporti tra l’uomo e Dio nel duplice versante del culto che l’uomo rende a Dio e del dono che Dio fa all’uomo. Tornando al tema dell’ospitalità, si può affermare che nella celebrazione eucaristica è Dio a invitare l’uomo. Indubbiamente è la Chiesa che celebra l’eucaristia, ed è stato Gesù il primo a compiere il gesto che ne è all’origine. Non si può dimenticare però il contesto pasquale di questo gesto, ossia il contesto nel quale Gesù si consegna al Padre, consentendo a Dio di compiere la sua opera. Sotto questo profilo la celebrazione eucaristica è il pasto trascritto in un rito che comunica l’esperienza dell’essere anticipati: l’uomo è anticipato da Dio.

Il tema dell’anticipazione non riguarda solo il passato, ma anche il futuro. Qui emerge un ulteriore aspetto rilevante del pasto: il banchetto escatologico. Su questo punto sarebbe opportuno non trascurare il legame tra il regno di Dio e il pasto. Un’affrettata spiegazione del banchetto escatologico come linguaggio puramente metaforico, finisce per sottovalutare una dimensione fondamentale della fede cristiana che si fonda sulla risurrezione di Gesù Cristo. Secondo i racconti evangelici, il Risorto è un corpo che presenta delle notevoli differenze rispetto alla sua condizione precedente (ossia prima della morte), come dimostra il fatto che non viene riconosciuto immediatamente dai discepoli; d’altra parte, quando Gesù vuole certificare ai presenti la sua identità, mostra le ferite, si fa toccare e chiede da mangiare. Il Risorto non è un evanescente essere spirituale, ma un concreto corpo vivente. Il tema del banchetto escatologico mantiene fede a questa natura profonda della risurrezione, secondo la quale l’uomo che vive in eterno è un corpo.

sabato 18 agosto 2012

420 - CHI MANGIA QUESTO PANE VIVRÀ IN ETERNO - 19 Agosto 2012 – XXª Domenica Tempo ordinario

(Proverbi 9,1-6 Efesini 5,15-20 Giovanni 6,51-58)

Il capitolo sesto di Giovanni ci ha abituati ad affermazioni solenni e sconcertanti di Gesù. Per comprendere il nostro brano, è opportuno riprendere e porre l’accento su alcuni temi fondamentali: Gesù si definisce «il pane vivo» che può dare la vita a chi ne mangia; questo cibo è la sua carne, cioè la sua umanità, il suo corpo, che fa vivere il mondo. Non va dimenticato lo sfondo antropologico fondamentale del «mangiare-vivere»: vive solo chi si nutre di un cibo buono, mentre chi non mangia muore. L’affermazione che apre il nostro brano dichiara l’assoluta necessità di mangiare il pane vivo che è Gesù (v. 51). Il paradosso della sequela di Gesù aumenta sempre più, e sconvolge le menti dei Giudei impreparati ad accogliere il senso profondo delle affermazioni del Rabbì di Nazareth.
La tecnica è sempre quella del dialogo, mediante il quale Gesù insegna sollecitando domande e provocazioni. La domanda dei Giudei prende le mosse dallo sconcerto che suscitano le parole di Gesù sulla possibilità di dare da mangiare la sua carne. Per un Giudeo l’idea di mangiare la carne di un uomo era considerata una profanazione, una maledizione che attirava l’ira di Dio (cfr. Lv 26,29).
«Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52). La domanda nasce dalla difficoltà di accettare il mistero di Gesù, che sia cioè la sua incarnazione, passione e morte a darci la vita: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Giovanni preferisce la parola «carne» a «corpo», perché «carne» indica la condizione debole, fragile e mortale dell’uomo che, assunta da Gesù, diventa il mezzo della salvezza; è, infatti, la carne donata che, proprio perché donata, dà la vita (v. 52). I Giudei rifiutano di pensare che la loro salvezza, e la salvezza di tutti, dipenda dal dono di sé di un uomo; essi rifiutano di pensare che la loro vita dipenda dall’adesione totale e senza riserve all’uomo Gesù.
«In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). La carne e il sangue sono definiti come la carne e il sangue del Figlio dell’uomo. Questo titolo è utilizzato dal quarto vangelo per indicare Gesù come rivelatore, come la nuova «scala di Giacobbe» che, con il suo itinerario di discesa e di salita (3,14-15; 8,27), mette in comunione il cielo e la terra (Gv 1,51). Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa lasciarsi totalmente attrarre da lui nel suo cammino verso il Padre.
«La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (v. 55). La carne e il sangue richiamano il sacrificio della croce: l’uomo giunge alla sapienza e vive nutrendosi di Gesù che si dona, lasciandosi conformare a lui. La comunità che celebra nella liturgia la presenza del Risorto, non può separare questa presenza dal ricordo della sua morte. Il Risorto è presente, certo, ma come chi ha amato i suoi sino alla fine, ed è così che egli si offre come cibo al credente.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (vv. 56-57). La vita consiste nel dimorare di Cristo nel credente e del credente in Cristo, e nell’ottenere perciò di vivere mediante Cristo, come lui vive mediante il Padre. Il tema del «mangiare» sfocia in quello dell’assimilazione, che consiste nell’intimità e nella comunione di vita.
Il discorso, partito con il segno della moltiplicazione dei pani, termina con il dono di sé che Gesù compie. Condivisione e dono di sé è il duplice marchio che contraddistingue la realtà nuova che è la vita eterna. L’uomo deve rinunciare all’illusione che la vita eterna si compri con «duecento denari di pane», essa si dà solo come dono offerto a chi lo accoglie nella fede. La provocazione che ci viene da questa pagina di Giovanni non può che rimandarci al modo in cui viviamo l’eucaristia. L’autore del quarto vangelo non parla esplicitamente del sacramento dell’eucaristia, ma è fuor di dubbio che ciò di cui parla, soprattutto nel brano odierno, è ciò che siamo chiamati a vivere nel nostro rapporto con Cristo risorto presente nell’eucaristia. Cristo lo incontriamo nel pane eucaristico, vero cibo con cui viene a dimorare in noi. Si tratta di cogliere il valore eterno di questo semplice atto: il «fare la comunione». Gesù ha reso disponibile come cibo la sua vita, perché chiunque ne mangia possa trovare la forza e la gioia di vivere la sua stessa dinamica d’amore: offrire la vita per gli altri.

PREGHIERA - Mangiare e bere: due azioni, Gesù, che sembra non abbiano molto a che fare con la nostra fede. Eppure, stranamente, è proprio quello che proponi a quanti desiderano entrare in comunione con te. Tu ci chiedi di compiere due gesti semplici che vengono dalla nostra esistenza fisica. Sì, siamo uomini e donne che per vivere hanno bisogno di cibo e di bevande.
Ma questa volta il nutrimento è il tuo stesso corpo, la tua carne offerta in sacrificio, e a dissetarci è quel sangue che hai versato dalla croce. È attraverso di essi che ogni distanza viene annullata: tu rimani in noi e noi in te. Abitati dalla tua presenza, siamo trasformati nel profondo al punto da scoprire con gioioso stupore che tu vivi in noi e noi viviamo per te.
È la straordinaria esperienza che si rinnova ad ogni Eucaristia, è l’appuntamento di grazia che di domenica in domenica cambia ognuno di noi in un essere nuovo, cittadino del cielo.

martedì 14 agosto 2012

419 - LA FEDE È UN DONO.

Per una pausa spirituale durante la XIXª Settimana del Tempo ordinario

Quando si dice che la fede è un dono, da una parte si esprime una verità quasi ovvia; dall’altra ci si espone a numerosi equivoci. Cominciamo da questi ultimi; specialmente da quelli che inducono sofferenza. Dietro la rivendicazione della gratuità della fede non si cela forse un Dio arbitrario nel concederla? Perché non viene incontro al desiderio di coloro che vorrebbero credere, eppure ritengono di rimanerne inesorabilmente esclusi? Quanti vivono questa condizione non eccepiscono sull’incondizionatezza dell’agire di Dio (sarebbe arroganza vana avanzare pretese nei confronti della sua iniziativa); soltanto lamentano una discrezionalità subita come un torto. Magari qualcun altro ricava da qui l’alibi per una indifferenza che si mantiene a distanza di sicurezza da ogni coinvolgimento, sia nella forma del risentimento che della struggente nostalgia. Per porre rimedio alla sfaccettata ambiguità sommariamente messa in luce si deve ripartire dalla specifica identità cristiana del dono della fede.

IL DONO È GESÙ - Quanto i cristiani credono di Dio e da lui sperano trova la sua origine e il suo compimento nel Signore Gesù. Il cristocentrismo dell’intera testimonianza scritturistica trova compendio per esempio in Gv 3,16s. e Col 2,9: Gesù è il dono di Dio all’umanità e non è pensabile un dono più grande, poiché in lui Dio ci fa dono di se stesso. Ne La salita al Monte Carmelo (lib. 2, cap. 22, §§ 4-5), di Giovanni della Croce, Dio si rivolge così ad ogni orante che invochi grazie dal Cielo: «Tu domandi locuzioni e rivelazioni particolari, mentre, se tu fissi gli occhi su di lui, vi troverai l’intera rivelazione, perché egli è tutta la mia parola, tutta la mia risposta, tutta la mia visione e tutta la mia rivelazione. Ora, io ti ho già parlato, risposto, manifestato, rivelato, quando te l’ho donato come fratello, compagno, maestro, caparra e premio. […] Se uno mi interrogasse adesso come allora e mi chiedesse qualche visione o rivelazione, sarebbe come se mi chiedesse un’altra volta il Cristo o più fede di quanta ne abbia già offerta in Cristo».
Tra le enunciazioni magisteriali più recenti possiamo ricordare la conclusione di Dei Verbum 4: «L’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)». Il dono che è Gesù ha le caratteristiche di una grazia (cfr. Ef 2,8) che prende forma in una elezione particolare (Israele), per una destinazione universale (proprio perché lui è «morto per tutti» [cfr. 2 Cor 5,15], in nessun altro c’è salvezza [At 4,12; 1Tim 2,4-6]), che compie il dispositivo di storicità della creazione (cfr. Gv 1,1-18; Ef 1,3-14; Col 1,15-20). La fede è dono perché scaturisce da un’abundantia caritatis (cfr. DV 2), rispetto alla quale possiamo solamente disporci con meravigliata gratitudine (cfr. Rom 5). Dall’evento di Gesù scaturisce per tutti l’invito ad entrare nella sua amicizia (cfr. Gv 15). Di invito si tratta e non di una folgorazione. Perciò la responsabilità e il rischio dell’adesione personale non possono essere diminuiti. Il Crocifisso risorto è talmente discreto e delicato che può capitare che qualcuno gli dica di no per le ragioni più svariate, ma che nel concreto della vita gli dica di sì. Ci sono persone che vivono così; lasciamo a lui riconoscerli come suoi amici (cfr. Mt 25,31-46).

IL DONO È LO SPIRITO SANTO - La fede è un dono perché «non si può avere Dio senza Dio». Ogni altro percorso tracciato al di fuori della sua iniziativa è destinato all’idolatria ed alla superstizione. Condizione fondamentale della nostra contemporaneità al Dono che si è realizzato «una volta per tutte» (cfr. Eb 7,27; 9,12.26.28) è lo Spirito del Signore (cfr. DV 5), il quale mette misteriosamente in contatto ogni uomo con il mistero pasquale (cfr. GS 22). Per i cristiani la grazia suprema che possiamo ricevere da Dio è dunque lo Spirito, che sin dalla creazione orienta la storia all’incontro con lo Sposo, affinché si realizzi la vocazione universale a diventare figli nel Figlio (e della creazione intera ad entrare nella gloria dei figli di Dio; cfr. Rom 8,19-22). L’in19a vocazione umile e assidua dello Spirito è più importante delle consolazioni che se ne possono ricavare, perché il modellamento dei nostri sensi spirituali deve mettere in conto un’attesa che può durare una vita, addirittura la terribile purificazione di ogni gratificazione, in nome del desiderio supremo: volere Dio per Dio.

LA RESPONSABILITÀ DELLE MEDIAZIONI - Il riconoscimento di Gesù come il Dono di Dio all’umanità da una parte libera la comunità cristiana dall’ansia di «salvare il mondo», poiché la Grazia detiene il primato nei confronti di ogni nostra prestazione. Dall’altra sollecita la Chiesa ad una conversione continua, affinché la sua testimonianza lasci trasparire il fascino di Gesù. Quante ostilità e quante fatiche nei confronti della proposta di Gesù sono imputabili ai vissuti dei cristiani!
I ‘luoghi’ dove la Chiesa deve dare prova di docilità spirituale per custodire il Dono ricevuto coincidono con le forme obiettive dell’azione dello Spirito: la Parola, il Sacramento e la Carità. Soltanto nell’ascolto assiduo del suo Signore la Chiesa può efficacemente annunziare il Vangelo che attende sempre di nuovo di incarnarsi nelle storie degli uomini. Soltanto nel Memoriale eucaristico la comunità dei battezzati può ripresentare un Dio che «mette il grembiule» e ci dona il suo Pane perché viviamo di lui. Soltanto nella cura della fraternità intraecclesiale e nella dedizione universale i discepoli di Gesù possono offrire al mondo il segno della comunione, ricevuta da Colui che ha manifestato amore per i piccoli e i poveri, in nome della paternità di un Dio che ha cura di tutti i suoi figli (cfr. Preghiera eucaristica V/C e Prefazio comune VIII). Nell’adempiere al mandato missionario la Chiesa fa ogni giorno la scoperta di «essere portata da Ciò che porta». Questo vuol dire che chi pensa di essere suo discepolo non ne farà mai un titolo di arroganza. Anzi, vivrà con umiltà il suo ministero, nella consapevolezza di dovere al mondo quella Speranza che getta su «cieli nuovi e terra nuova» (cfr. Ap 21,1-7).

sabato 11 agosto 2012

418 - IL CENTRO ED IL CUORE DELLA FEDE - 12 Agosto 2012 – XIXª Domenica Tempo ordinario

(1ºRe 19,4-8 Efesini 4,30-5,2 Giovanni 6,41-51)
Credere in Gesù ha comportato, per gli interlocutori del suo tempo, la necessità di andare oltre le apparenze. Effettivamente tanto nel passato quanto nell’oggi, il numero di istrioni che imboniscono, che plagiano, che divengono star, è rilevante. Se non vi è una fede che va oltre, anche Gesù avrebbe potuto essere catalogato in queste categorie. La fede, invece, consente una lettura sapienziale della storia, delle profezie, delle attese, e sa applicare a lui la meta raggiunta dal cammino storico di Israele, il compimento delle profezie, la realizzazione delle attese. La fede si rivela, dunque, uno strumento per decodificare la storia, una chiave per interpretare la vita. Ed, in tal senso, è frutto certamente dell’adesione umana, ma è, principalmente, dono di Dio. Ogni qualvolta Gesù ha rivelato qualcosa di Dio e di se stesso, Giovanni si premura di annotare che «molti credettero in lui», come pure di constatare amaramente che qualcuno se ne va complottando contro di lui.

Tra molti credenti odierni circola la presunzione di sapere tutto, di saperne già troppo, su Gesù. Tale saccenza va a pregiudizio di tutti gli sforzi che le comunità cristiane mettono in campo per favorire una conoscenza vera e affettuosa del Signore. Effettivamente troppi, ormai, di Gesù conoscono solo ciò che torna loro comodo, rassicurante, o compatibile con proprie mentalità e costumi. Tutto ciò che richiede conversione è tranquillamente accantonato o ignorato. Occorre ribadire con forza che il Signore Gesù non è raffigurabile a nostro piacimento, a nostro uso e consumo, ma va cercato e accolto per come la Scrittura ce lo presenta.

Il mondo monastico ha elaborato la suggestiva immagine della ruminatio per descrivere come il credente deve nutrirsi di Cristo: mangiarne, masticarlo e rimasticarlo, per assimilarlo sino all’ultima fibra. Accogliere e incorporare la sua parola, la sua persona, la sua esperienza, per fare corpo. Giuseppe Prezzolini, pur nel suo travaglio spirituale, con arguzia descriveva così questa operazione: «Le religioni presiedono al commercio di Dio. Lo vendono a pezzi ed a bocconi, a fette ed a morselli, cotto, crudo e disossato, a credito ed a contanti. Bisogna invece inghiottirlo tutto intero perché faccia bene: grasso e magro, ossa e polpa, pelle e ciccia. Bisogna inghiottirlo, vivo e fresco… aprirsi tutti appena si scorge, aprir tutte le porte, quella volta è la buona, che è la prima e l’ultima. Non ci sarà un’altra occasione». Come non si vive senza mangiare ed assimilare, così non si può esistere da credenti senza incorporare Cristo a noi, o meglio, senza lasciarci incorporare a lui.

Questa comunione non ha come scopo il farci provare emozioni forti, ma, unicamente, il legarci vitalmente a lui, per apprendere l’arte di vivere come lui. E poiché la sua vita è stata tutta consacrata a «vivere per», per Dio e per l’uomo, il legarci a lui avviene nella speranza e nell’impegno di apprendere noi pure l’arte della pro-esistenza, cioè l’arte di vivere in spirito di gratuità, in spirito di dono, in spirito di servizio, in spirito di sacrificio, in una carità che dona sempre di più, sempre di meglio, educandoci ed abilitandoci a «vivere per» sino a «morire per». Si tratta di una prospettiva che può atterrire, anziché allettare, ma sta evidentemente a noi mostrarne la portata e le conseguenze, in termini di felicità, mostrando con i fatti la verità del detto neotestamentario: «Vi è più gioia nel donare che nel ricevere» (At 20,35).

PREGHIERA - Le tue affermazioni sconcertano, Gesù: come possono accettare che tu sia disceso dal cielo? Conoscono bene la tua famiglia, i tuoi parenti, il tuo villaggio. La tua vita finora è stata terribilmente simile alla loro. Ecco perché non vogliono credere che Dio li raggiunga attraverso un uomo che ha vissuto tra loro senza sconti e senza privilegi, condividendo le loro fatiche, le loro pene e le loro soddisfazioni…

Così nella vana attesa di un salvatore paracadutato direttamente dal cielo, essi si negano ad una gioia e ad una pienezza che li raggiunge nella semplicità dell’esistenza quotidiana. Strano comportamento, Gesù, che già annuncia il rifiuto che ti colpirà in modo inesorabile.

Sì, perché un Dio che si fa uomo risulta terribilmente scomodo e ci obbliga a rivedere le idee che ci siamo fatte di Lui, le maschere che abbiamo costruito e appiccicato al suo volto. Tu ti offri come un Pane che trasmette la vita eterna, tu accetti di spezzarti, di morire perché possiamo partecipare alla tua pienezza.

venerdì 10 agosto 2012

417 - CHE COSA SI PUÒ E SI DEVE CHIEDERE A DIO NELLA PREGHIERA?

Per una pausa spirituale durante la XVIIIª Settimana del Tempo ordinario
La liturgia della Parola di domenica chiama in causa, tra le altre cose, il nostro modo di pregare. E lo fa ponendoci di fronte alla preghiera con cui gli interlocutori di Gesù, dopo aver mangiato il pane che egli ha donato loro e dopo aver discusso con lui, anche polemicamente, gli dicono: «Signore, dacci sempre questo pane!». Non un pane qualsiasi, ma quello di cui Gesù ha appena parlato loro. Sono giunti a questa richiesta, dopo aver fatto un percorso, quasi condotti per mano da lui, dalla sua dialettica, dalle sue domande, dalla sua sapienza. Al termine della discussione con Gesù i suoi interlocutori sembrano aver capito che il dono più importante che possono attendersi da Dio non è il pane di cui hanno appena usufruito, per altro saziandosi; quello è solo un segno che rinvia ad un altro pane; è destinato a svegliare nel cuore delle donne e degli uomini un’altra fame, più profonda, benché meno facile da avvertire e da saziare. Da questo episodio ci sentiamo provocati a interrogarci su ciò che possiamo domandare a Dio con la nostra preghiera. La risposta ce la suggerisce il ritornello del salmo responsoriale, che raccoglie nell’espressione di poche parole ciò che dobbiamo chiedere a Dio: Donaci, Signore, il pane del cielo.
La preghiera manifesta i desideri del cuore, esprime ciò che ci preme di più, rende esplicita la gerarchia delle cose che ci interessano. Spesso c’è un certo ordine nelle attese delle persone comuni, anche tra i credenti: la salute, il lavoro, la tranquillità familiare, affetti positivi. I più ‘audaci’ inseriscono in questa scala anche la carriera, il successo, il benessere, la notorietà, la possibilità di affermarsi nella società. Forse anche molti di quelli che sono andati dietro a Gesù avevano nei suoi confronti delle aspettative materiali, mondane, legate alla vita di ogni giorno. Esattamente come noi, che spesso chiediamo a Dio che risolva i nostri problemi quotidiani. Certo questo non significa che non possiamo chiedere a Dio di guardare alle nostre esigenze materiali, ma a condizione che non pensiamo a lui come ad una specie di mago con la bacchetta magica in mano, a risolvere i problemi nostri e del mondo. Le nostre domande nella preghiera hanno un senso se esprimono la coscienza della nostra povertà e della nostra piccolezza davanti a Dio, se sono espressione di una fiducia in lui che è quella dei figli. Allora possiamo dire e chiedere tutto, perché il cuore di Dio è quello di un padre, davanti al quale si può stare nella verità della propria esistenza, che può avere anche fame di pane, di lavoro, di salute, di affetti buoni…
Tutto dipende dall’idea che abbiamo di Dio. Si potrebbe dire: «dimmi come preghi, e ti dirò in quale Dio credi». Dietro la preghiera che chiede la soddisfazione dei bisogni più esteriori e materiali, vi è una persona che crede in un Dio un po’ magico, distributore di miracoli, lontano da quello che Gesù ci ha presentato nel suo Vangelo. Se preghi pretendendo da Dio il miracolo, credi nel Dio magico dei pagani; se credi ponendo davanti a Dio con umiltà i bisogni della tua vita, credi in un Dio che è Padre.
Dal Dio dei miracoli al Dio che è Padre vi è un percorso lungo e difficile, che non si può fare da soli. Chi ha mangiato il pane dato da Gesù è rimasto con lui a discutere, a interrogarlo, ad ascoltare le sue parole. Solo Gesù può aprire altri orizzonti, ci può insegnare ad avere un cuore da figli e a pregare il Padre come lui.
Frequentare il Signore e la sua parola conduce a riconoscere la verità delle domande più importanti che si nascondono in noi: il bisogno di un senso alla vita, la domanda di un amore pieno, l’attesa di una giustizia senza ombre, il desiderio di una libertà senza confini… Alla scuola del Signore il cuore si allarga, i desideri si educano e imparano a non riconoscere solo la fame di pane; le esigenze diventano insaziabili: sono quelle che solo il Pane che viene dal cielo può soddisfare.
Gesù ci ha insegnato che cosa domandare. La preghiera del Padre nostro racchiude lo spirito, le parole, le domande che dobbiamo rivolgere al Padre. Tra esse c’è anche quella del pane quotidiano, ma prima ancora vi è la richiesta che il Regno di Dio venga per tutti, a cominciare dai poveri, gli umili, i derelitti; che si realizzi per l’umanità il disegno di amore che Dio ha pensato per essi; che la volontà di bene e di salvezza che il Padre ha per il mondo sia fatta, che il perdono che rigenera si diffonda sulla terra anche per la nostra capacità di perdonare e di amare; che il male non ci travolga… Se riflettiamo al tenore di queste domande, dobbiamo concludere che Gesù ci insegna a domandare al Padre l’impossibile, cioè un mondo trasformato secondo la misura del suo amore. Ma «nulla è impossibile a Dio»: così ci insegna a credere il Vangelo.
Ciò che possiamo e dobbiamo chiedere a Dio è nell’ordine dell’impossibile, del divino, dell’eterno. E Gesù ci dice di domandare tutto questo, e con la fiducia che il Padre ce lo darà. Ma ci interessa tutto questo? Ci interessa chiedere a Dio di essere coinvolti nel suo pensiero, di essere contagiati dai suoi desideri, di essere partecipi del suo mondo? Oppure ci interessano solo le nostre piccole cose di ogni giorno? Ci interessa solo il pane che sazia lo stomaco o desideriamo il pane del cielo? La liturgia di questa domenica ci invita a domandarci quanta audacia vi è nei nostri desideri sulla vita e sul mondo. E ci incoraggia ad osare!

sabato 4 agosto 2012

416 - TRE PASSI PER CONOSCERE GESÙ - 05 Agosto 2012 – XVIIIª Domenica ordinaria

(Esodo 16,2-4.12-15 Efesini 4,17.20-24 Giovanni 6,24-35)

I passi che la folla deve compiere per conoscere chi è veramente Gesù sono tre. Prima di tutto deve purificare il proprio desiderio. All’inizio la gente non sa esattamente che cosa vuole, e spetta a Gesù spiegarle l’ambiguità di cui è vittima: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). L’uomo è pieno di desideri, sempre rivolti a persone o a oggetti concreti: desiderio di cibo, di affetto, di salute e così via; ma se si approfondisce il senso di questi desideri, ci si accorge che sono segno di qualcosa di più grande, di un desiderio più radicale; essi spingono verso l’Assoluto, il solo pane che sazia il desiderio dell’uomo.

Il secondo passo riguarda la fede, che è il solo e giusto atteggiamento verso il dono di Dio. Si è abituati a pensare che il rapporto con Dio passi attraverso le opere che si devono compiere per essergli fedeli. Gli interlocutori di Gesù ragionano in termini di «opere» da fare, le opere della Legge che si devono compiere per piacere a Dio. Mediante le «opere» della Legge l’uomo pensa di porre un’ipoteca sulla salvezza e di poter vantare meriti di fronte a Dio. Gesù risponde che l’«opera» di Dio è una sola: credere in colui che egli ha mandato. La fede è l’unica risposta adeguata al dono di Dio, e tutto deve essere orientato a quest’unica «opera»: credere al suo inviato. È la teologia del vangelo di Giovanni: più che sulle cose da fare, egli punta sull’opera fondamentale che è riconoscere e accettare il dono di Dio mediante la fede. Il credere è caratterizzato dall’accoglienza dell’agire di Dio più che dalle opere che l’uomo compie. La fede però impegna tutta la persona. Il termine greco per dire «opera» (érgon) significa anche «fatica», «lavoro», ed esprime il carattere impegnativo di questo affidamento di tutta la vita alla promessa di Dio.

Il terzo passo è riconoscere l’origine divina del pane che dà la vera vita (vv. 30-35). Esso può essere solo dono di Dio, di quel Dio che, se era già il dispensatore della manna, opera adesso con un dono nuovo. L’azione di Dio non è qualcosa di passato, ma qualcosa di attuale e presente, che va oltre Mosè e la sua Legge. Il Padre sta preparando adesso il pane vero, un pane che vale per il presente (i verbi in greco sono tutti al presente). La gente si apre allora alla domanda vera, e chiede questo pane. Ed è a questo punto che Gesù afferma: «Io sono il pane della vita» (v. 35). È lui l’opera di Dio, è lui il pane che va accolto con fede perché è il termine ultimo del desiderio di vita dell’uomo. Quando lo si riconosce non per i doni che dà, ma come dono del Padre, allora si è trovata la vita. Apparentemente non ha risposto alla folla che gli ha chiesto un segno, ma in realtà è lui stesso il segno, un segno che si può cogliere solo «venendo a lui», aprendosi alla fede in lui.

PREGHIERA - Tu offri un segno, Gesù, perché la folla raggiunga la realtà meravigliosa del tuo dono. Offri un pane che può sfamarli e saziarli per un giorno perché desiderino quel Pane che trasmette la vita eterna. Fai fiorire una stupenda esperienza di condivisione, un anticipo dei tempi messianici, perché avvertano la voglia di partecipare alla gioia del giorno senza tramonto.
Eppure ieri come oggi gli uomini rimangono attaccati alle realtà terrene e si rifiutano di compiere il salto verso i beni eterni. Sì, siamo fatti in modo strano. Tu ci fai intravedere una pienezza inimmaginabile e noi restiamo saldamente ancorati ai bisogni quotidiani.
Tu ci inviti a solcare il mare aperto per immergerci nella profondità della vita divina e noi ci condanniamo al piccolo cabotaggio. Tu desti in noi l’attesa di qualcosa di grande, capace di trasformare questa nostra esistenza e noi ti chiediamo di rimediare alle piccole angustie che ci assillano.

415 - GESÙ RIFIUTÒ DI FARE IL RE

Per una pausa spirituale durante la XVIIª Settimana del Tempo ordinario

In Mt 4,1-11 il racconto delle tentazioni di Gesù inizia con Satana che suggerisce a Gesù, nella solitudine del deserto, di mutare in pane le pietre per saziare la propria fame e termina con l’offerta, sempre ad opera di Satana, di «tutti i regni del mondo e la loro gloria» in cambio di un atto di adorazione. Matteo sottolinea la dimensione interiore della tentazione che avviene (al di là delle localizzazioni geografiche nel deserto, a Gerusalemme e su un monte alto) nel cuore di Gesù, nel suo profondo. Nel brano giovanneo (Gv 6,1-15) Gesù, dopo aver moltiplicato, mediante condivisione, il pane per folle numerose, si ritira in solitudine per sfuggire a chi voleva farlo re.

Gesù dunque legge come tentazione l’intenzione delle folle, che potrebbe apparire un riconoscimento della potenza di Gesù, un onore che gli viene accordato, anzi, forse perfino qualcosa di conforme al volere divino. Qualcosa che rende più efficace la sua missione tra gli uomini. Ma Gesù sa che la traduzione in potere politico di un gesto profetico è uccisione della profezia; Gesù sa che la trasformazione in istituzione politica di un gesto di rivelazione è spegnimento della rivelazione; Gesù sa che fare di un gesto di carità e condivisione un ente assistenziale è appiattimento burocratico della carità. Soprattutto, Gesù sa che la tentazione, che sempre agisce sul cuore umano allettandolo, avviene in situazioni quotidiane, mediante ministri umani e attraverso vie che a molti credenti potrebbero apparire non tentazione satanica, ma volontà divina. Come discernere?

Gesù coglie nell’intenzione delle folle la perversione del suo gesto di donazione sovrabbondante: esse lo stravolgono in un meccanismo di scambio, di do ut des, in cui esse accordano potere su di loro a chi dona loro cibo e sussistenza. Gesù non agisce con la logica di governatori e re che chiedono potere e legittimazione in cambio di elargizioni di beni. Accettare di essere re non sarebbe un poter servire meglio le persone avendo più potere e mezzi a disposizione, ma entrare in un gioco perverso di potere in cui non c’è servizio reciproco, ma uso l’uno dell’altro, non c’è servire gli altri, ma servirsi degli altri. La folla userebbe il Gesù-re che, a sua volta, si servirebbe delle folle, in un circolo vizioso che si oppone radicalmente alla logica evangelica che domina la vita di Gesù («Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti»: Mc 10,45) e che dovrebbe dominare la vita delle comunità cristiane nel mondo: «Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servo» (Mc 10,43).

Il rifiuto di essere fatto re è rivelativo della volontà di Gesù di non volere che gli uomini si asserviscano, pagando con l’obbedienza e la sottomissione il pane che potrebbero ricevere. Gesù rifiuta radicalmente il populismo demagogico. Egli chiama alla libertà e fa della sua vita un insegnamento di libertà. Certo, a caro prezzo. Gesù rifiuta la logica espressa dal grande Inquisitore di Dostoevskij che afferma che l’uomo non è all’altezza della libertà e che per questo l’istituzione ecclesiastica dovette rivestire gli abiti regali per andare incontro all’ansia umana di inchinarsi davanti a qualcuno e per rimediare al dono troppo grande e schiacciante della libertà che Gesù fece all’umanità. «L’uomo non cerca Dio, ma miracoli» afferma con lucido cinismo il grande Inquisitore. Per questo, continua l’anziano cardinale del racconto di Dostoevskij, «noi accettammo da lui (cioè dal Tentatore) Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re… Chi mai infatti deve dominare gli uomini, se non quelli che dominano la loro coscienza e nelle cui mani è il loro pane?». Dietro al rifiuto di Gesù di essere fatto re, vi è dunque il rifiuto di servirsi del miracolo, del potere e del sacro come di strumenti di asservimento dell’uomo; vi è il rifiuto radicale dell’abuso dell’altro, del dominio sulla coscienza altrui. Rifiutando di essere fatto re, Gesù opera per la libertà anche di chi voleva sottomettersi a lui: per lui non esistono sudditi, ma fratelli.

Se la gente coglie correttamente il gesto di Gesù di moltiplicazione dei pani come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (Gv 6,14), essa però ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Tanto che egli dirà: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del crocifisso. Gesù si rifiuta di piegare la fame umana, il bisogno ontologico dell’uomo, la sua povertà, la sua debolezza, a un personale disegno di potere e di affermazione. E così interdice anche alla Chiesa di sfruttare la debolezza umana, il bisogno umano, la sofferenza, la paura, la malattia, l’angoscia, il peccato, la mediocrità stessa dell’uomo come strumento per indurre gli uomini a consegnare la propria coscienza in mano di chi potrà assicurare loro comprensione, perdono e consolazione. La sua logica è veramente all’opposto di quella espressa dal grande Inquisitore, logica che contiene in sé il disprezzo profondo per gli uomini e per la loro libertà: «Essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: ‘Riduceteci piuttosto in schiavitù, ma sfamateci’. Comprenderanno essi stessi che libertà e pane terreno sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno essere liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli».

Il testo dice che Gesù si ritirò (Gv 6,15), fece anacoresi, si rifugiò nella solitudine per sfuggire la folla, gli onori, gli applausi. Gesù si distanzia anche dai suoi discepoli, ben sapendo che anch’essi erano tentati di tentarlo sul tema della regalità e del potere. Sì, Gesù mette in atto una vera e propria fuga: alcuni manoscritti portano il verbo ‘fuggire’ invece del verbo ‘ritirarsi’ in Gv 6,15. Gesù svela così che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria umanità e l’evangelicità della propria fede.