sabato 31 dicembre 2011

320 - MARIA, MADRE DI DIO - 01 GENNAIO 2012 – Buon Anno

(Numeri 6,22-27 Galati 4,4-7 Luca 2,16-21)

Oggi è l’ottava del Natale, e quindi è la festa di Maria, la Madre di Dio. Nello stesso tempo ricordiamo l’inizio di un nuovo anno civile e viviamo la Giornata mondiale della pace. Vogliamo aprire il 2012 nel segno della speranza, della fiducia e liberi della paura.
È vero: la speranza è la più piccola e sembra la più fragile delle tre virtù teologali, ma è proprio lei a prenderle per mano e a trascinarle verso il futuro di Dio. Il suo sguardo ci aiuta a cogliere le tracce di un mondo nuovo, anche se appaiono coperte da tanti segni contrari che indurrebbero alla disillusione e al disincanto. La sua bocca pronuncia parole che incoraggiano anche quando solo la tristezza e l’angoscia sembrano realistiche. In mezzo al buio e al freddo della notte, essa annuncia il giorno nuovo che sta levandosi. Quando l’ostilità e la violenza sembrano farle da padrone, essa proclama possibili la riconciliazione e la pace, la giustizia e la fraternità. Le sue mani, tenere e delicate, sono fatte apposta per ricucire strappi considerati ineluttabili, per lanciare ponti arditi sui baratri della terra, per stringere in una catena di solidarietà mani che hanno conosciuto solo il metallo spietato delle armi.
È nel segno della speranza che siamo invitati a cominciare questo nuovo anno. Non una speranza generica: quella di coloro che affermano di aver bisogno di credere in ‘qualcosa’, e si accontentano di un sogno qualsiasi. Non una speranza d’obbligo: quella di ciechi che si stringono l’uno all’altro nell’illusione di vincere l’oscurità ed i pericoli disseminati nel cammino.
La nostra speranza ha un volto ed un nome. Il volto di un uomo che è il Figlio di Dio. Il suo nome è Gesù ed annuncia a tutti un Dio che salva, che strappa l’umanità ad ogni schiavitù e ad ogni paura, per farle conoscere un’esistenza nuova. Accogliamo questa speranza con il cuore di Maria, con la saggezza di colei che fa scendere nel profondo dell’anima ogni parola ed ogni evento. Accogliamola con la determinazione dei pastori che vanno senz’indugio alla capanna per vedere il Bambino e riferiscono con gioia l’annuncio di grazia che li ha raggiunti. Accogliamola con la pazienza e la sollecitudine di tutti gli uomini e di tutte le donne di buona volontà, disposti a soffrire ed a lottare per un mondo di pace e di giustizia.
Come cristiani avvertiamo in questo momento particolare un duplice pericolo: il disorientamento e la paura. Il disorientamento è legato ai messaggi controversi che ci raggiungono e che inducono, nella fragilità, a cercare appoggi e compromessi. Ma la nostra rotta è tracciata dal Vangelo, un Vangelo non edulcorato, annacquato, un Vangelo ‘sine glossa’ come 800 anni fa Francesco d’Assisi chiedeva ai frati che lo volevano seguire. Il disorientamento è perdita di ciò che distingue le scelte, i comportamenti, gli atteggiamenti dei cristiani. Seguire Cristo povero, crocifisso, adottare i mezzi poveri da lui utilizzati – la parola ed i gesti concreti – ci consegna disarmati alle vicende della storia. Ma è proprio questa fedeltà, tenace e talora ostinata, feriale e mite che alla lunga risulterà vincente. Non l’appoggio dei potenti di turno. Non i compromessi volti ad assicurare posizioni di rendita. Non il cedimento alla logica di questo mondo. Perché questo avvenga bisogna uscire dalla paura: la paura che blocca, che riduce al silenzio, il silenzio dell’omertà, il silenzio della connivenza, il silenzio della neutralità che consente l’affermarsi dei violenti, degli arroganti, dei furbi. È vero che, come riconosceva don Abbondio nei Promessi Sposi: «Il coraggio uno non se lo può dare». Ma è altrettanto vero che lo si può ricevere e questo dono si chiama fiducia. Fiducia nel Signore Gesù: è lui il Salvatore, il Cristo, il Signore, e non Cesare o l’Augusto di turno. Fiducia nella sua Parola e nella saggezza della Croce, e non nei mezzi della propaganda. Fiducia nell’amore che è sempre tolleranza, comprensione, dialogo, rispetto, condivisione, e non esibizione di potenza, di muscoli o di immagine.
PREGHIERA - Nel cominciare questo nuovo anno noi non possiamo fare a meno, Signore, di volgerci indietro e di guardare alla carovana di giorni che ci lasciamo alle spalle, ai momenti difficili di trepidazione e di paura, al carico pesante dei giorni oscuri, ai sogni infranti, alle promesse non mantenute, ai progetti rimasti sulla carta.
Eppure, Signore, nonostante tutto non vogliamo lasciarci catturare dalla paura, dalla delusione o dal disincanto. Sì, noi osiamo sperare che verrà quel giorno in cui vedrà la luce una nuova terra e questo mondo lascerà il posto ad un giardino di pace e di giustizia.
Nel cominciare questo nuovo anno ci lasciamo prendere per mano da Maria, la Madre tua. Da lei impariamo a custodire ogni frammento prezioso della nostra esistenza e a collegarlo con la tua Parola perché emerga un percorso di grazia, rischiarato dalla tua luce. Da lei impariamo ad esprimere il canto della lode e della riconoscenza, a dare voce alla gioia dei poveri che riconoscono la forza del tuo amore.

giovedì 29 dicembre 2011

319 - UNA PACE PER TUTTI -31 Dicembre – San Silvestro I papa

“Ultimo giorno del 2011 per fare qualcosa di buono da mettere nelle mani di Dio perché il Suo Regno cresca e si renda presente in tutto il mondo!”

Nell’oscurità della notte di Natale, oggi come duemila anni fa, anche noi intendiamo il canto degli angeli: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egliama». Ma qual è la pace del Natale? Forse abbiamo affrontato il buio e il freddo per andare celebrazione della messa di mezzanotte, calamitati dalla festa del Natale che è come l’alta marea: trascina con sé tutti, quasi a dispetto della nostra pigrizia, delle nostre infedeltà, dei lunghi silenzi che abbiamo lasciato cadere tra noi e Dio, della distanza che abbiamo frapposto fra Lui e noi. Dobbiamo ammetterlo: tutti abbiamo desiderio della pace, una nostalgia insopprimibile di esserne abitati, fin nel profondo. Ebbene, è proprio questa l’offerta che ci viene fatta.
Il buio non è solo all’esterno, ma molte volte scende nel nostro cuore: allora, coperti da una spessa coltre, noi non riusciamo più a vedere la direzione della nostra esistenza, cadiamo in balia di forze oscure dalle quali ci lasciamo condurre, diciamo e facciamo cose di cui non possiamo gloriarci. Al nostro animo tormentato, talora angosciato e incapace di distinguere il bene dal male, costretto a riconoscere che la cattiveria attecchisce anche nella nostra esistenza viene offerta una luce. È la stessa luce che avvolse i pastori in quella notte. Quella Luce è Cristo: il Salvatore, il Cristo, il Signore.
È lui il Salvatore: lui solo può strapparci alle ombre e alle suggestioni del male e donarci un’esistenza nuova. E lo fa nell’unico modo possibile: offrendoci il suo amore, un amore più forte del nostro peccato, più tenace di qualsiasi nostra infedeltà, Riconoscerlo come Salvatore significa ammettere le nostre debolezze, le nostre fragilità, le nostre responsabilità, ma nel contempo poter abbandonarsi a lui, così come siamo. Non dobbiamo nascondere, occultare nulla di noi stessi. Tanto meno le nostre ferite. Egli è venuto proprio per questo: per liberarci, per guarirci, per farci sperimentare una vita nuova.
È lui il Cristo, cioè l’Inviato di Dio: in lui si compie l’attesa di Israele, ma anche di tutta l’umanità. Grazie a lui Dio non è più distante, sconosciuto, inarrivabile o coperto da quelle maschere confezionate dagli uomini e appiccicate sul suo volto. Dio ora è vicino, vicinissimo, accessibile a tutti coloro che intendono accoglierlo: è un uomo come noi. Viene nella debolezza non con la forza, viene per salvare non per castigare, viene per offrire misericordia non per condannare, viene per rialzare non per abbattere. La gloria di questo Dio, il suo biglietto da visita è proprio la nostra felicità, la dignità a cui ci innalza, la pienezza che ci abita.
È lui il Signore: è lui che pronuncia l’ultima parola sulla storia, che cambia il corso degli eventi ed imprime una svolta al percorso dell’umanità. Al di là delle apparenze noi non siamo più sotto il potere del male. Il titolo, Signore, che gli viene attribuito in questa notte, non è casuale. È lo stesso che i discepoli gli riconoscono quando percepiscono il senso della sua risurrezione. Né la morte, né nessun altro potere hanno potuto trattenerlo nelle loro mani. Con il suo amore egli li ha sconfitti e anche noi, assieme a lui, partecipiamo a questa vittoria, che un giorno sarà completa.
Ecco qual è la pace del Natale. Non quella evanescente di un’atmosfera, creata dalla pubblicità. Non quella zuccherosa e di poco costo di un buonismo generico da avvertire per un giorno all’anno. E neppure quella che ignora i conflitti e i mali di questa terra. È la pace che viene da lui, Gesù, il Salvatore, il Cristo, il Signore. Se gli affidiamo la nostra esistenza, egli la può trasformare, pacificare, colmare di gioia.

318 - UNA LUCE CHE NON SI SPEGNE - 30 Dicembre – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Sì, Natale è proprio questo: una luce che non si spegne. Nonostante le nubi che si addensano sulla nostra storia, nonostante la fatica e la tristezza che grava talora come una cappa di piombo sul nostro cuore e ci fa sentire pesanti, incapaci di rialzarci, di riprendere il cammino, di volare in alto con i nostri desideri ed i nostri sogni… Nonostante i ritmi frenetici che ci vengono imposti e ci ingoiano e stritolano nella loro morsa terribile, impedendoci di ritrovare l’armonia e la pace del cuore, troppo tesi per trovare spazi di silenzio, brandelli di contemplazione, tempi di riposo, incapaci ormai di comunicare veramente, in profondità… Nonostante i tanti percorsi che ci hanno condotti lontano da Lui, alla ricerca sfrenata di sensazioni nuove, perennemente ingannati da promesse che non vengono mantenute, da luccichii che si spengono dopo aver brillato per un istante… Nonostante le nostre infedeltà che ci hanno portato in altri templi a sacrificare agli idoli di turno, nonostante la cattiveria e la durezza che talora si impossessa della nostra anima e ci rendeimpermeabili alla sua voce e alle invocazioni dei fratelli…
Nonostante tutto Natale continua a far breccia nella nostra esistenza. Ci fa avvertire la bellezza di uno sguardo incantato e limpido che si ferma davanti alla capanna per contemplare quel bambino, il Figlio di Dio, diventato uomo per noi, per comunicarci un amore smisurato, per strapparci alle forze del male, per farci conoscere una nuova possibilità di vita.
Ci fa percepire la nostalgia pungente di un rapporto sincero con lui, un rapporto di fiducioso abbandono, senza calcoli e senza misure, senza sotterfugi e senza restrizioni, aperto e franco, semplice e colmo di gratitudine.
Ci fa sentire la voglia di metterci per altre strade, di abbandonare i percorsi che conosciamo fin troppo bene, i comportamenti e le scelte del tutto prevedibili, vecchi come è vecchio l’egoismo, per imboccare il sentiero che lui ha aperto davanti a noi: il sentiero della giustizia e della misericordia, della compassione e della tenerezza, del servizio e del sacrificio.
Non lasciamo, allora, che questo tempo passi invano. Che questa luce venga presto coperta da altre luci, fredde e potenti, che pretendono sempre di avere il sopravvento sulla nostra esistenza. Fermiamoci un attimo, per lasciarci illuminare in profondità da questa luce: essa è benevola, non umilia, non ferisce. Porta con sé il calore di un Dio che ha scelto di prendere la carne di un uomo, per amore. Liberiamoci senza esitazioni di tutto ciò che continua a tenerci prigionieri, a soffocarci, a toglierci la visuale di un orizzonte nuovo. C’è tanta zavorra che dobbiamo lasciar cadere, se vogliamo trovare la leggerezza e la serenità che sogniamo. Ci sono tanti pesi inutili di cui disfarci per far posto a ciò che conta veramente. Tendiamo la nostra mano, una mano disarmata, accogliente, amica al nostro prossimo, a quelli che ci vivono accanto, a partire dai nostri familiari. E apriamo la nostra bocca a parole che recano con sé il sapore delle cose buone, dei sentimenti nobili, delle esperienze grandi che impreziosiscono la nostra esistenza.

317 - LA LUCE DEL MONDO - 29 Dicembre – San Tommaso Becket

Forse nessun testo più del prologo del vangelo di Giovanni ci fa entrare nella profondità di queste celebrazioni natalizie. Privo dello scenario del presepio, per certi
aspetti disadorno e scarno, esso va tuttavia all’essenziale e ci permette di coniugare facilmente la data scelta per questa solennità e il messaggio che viene proclamato.
* La data, il 25 dicembre, non coincide con il compleanno di Gesù. Del resto nessuno dei vangeli fornisce delle indicazioni al riguardo: i vangeli non corrispondono ai libri dell’anagrafe municipale! E allora perché collocare proprio al 25 dicembre la festa della nascita di Gesù? È il momento in cui, dopo il solstizio d’inverno, la quantità di luce di una giornata, che aveva raggiunto il livello più basso, torna a crescere. Ancora una volta nel ciclo delle stagioni dobbiamo riconoscere che le tenebre non diranno l’ultima parola: la luce del sole assicura una nuova fecondità alla terra. Quale occasione migliore per proclamare che Cristo è la Luce del mondo?
* Il messaggio è l’annuncio della venuta nella carne del Figlio di Dio, di colui che è la Parola eterna, che ha creato il mondo e chiama a nuova vita ogni creatura. È lui il vero Sole della storia, lui che orienta la nostra esistenza e ci permette di trovare la strada della felicità. È lui la Luce che ci strappa al potere delle tenebre e ci dà la possibilità di accedere ad una vita nuova. Con lui comincia un’epoca nuova che giungerà a compimento con il suo ritorno nella gloria. Di fatto è una nuova creazione quella che è avvenuta.
* Agli inizi Dio ha cominciato la sua opera proprio partendo dalla luce e separandola dalle tenebre. Ora, nel tempo stabilito, è entrata nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo. Questa Luce ci libera da qualsiasi disorientamento e trasfigura la nostra esistenza, liberandoci da ogni oscurità e da ogni peccato. Questa Luce fa di noi dei figli della Luce, chiamati ad irraggiare la bontà e la misericordia di Dio.
* Agli inizi Dio ha fatto sbocciare la vita, come effetto di quella sovrabbondanza che è in lui. Ora è la sua stessa vita che è a nostra disposizione. Tramite il suo Figlio, che ha donato la sua vita per noi, noi possiamo entrare in una comunione viva e profonda con lui, partecipare a quell’amore smisurato ed eterno che è in lui.

316 - IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA - 28 Dicembre – Santi Innocenti

In questo tempo di Natale, noi siamo invitati a fermarci e a guardare la storia con gli occhi di Dio. Abbandoniamo allora, almeno per un momento, le vicende che costituiscono il fragile tessuto della nostra cronaca, alziamo lo sguardo dagli ultimi fatti che ci hanno impressionato il cuore e la mente, e consideriamo questa storia con uno sguardo nuovo. È la storia di un incontro tra Dio e l’uomo. Ecco perché all’inizio di tutto c’è la Parola.
* È una Parola che strappa al silenzio del nulla e chiama all’esistenza. Solo una Parola d’amore può fare una cosa simile. E Dio ama l’umanità, di un amore tanto smisurato, da sembrare folle. Dio non vuole restare nella sua perfetta solitudine. Egli basta a se stesso, non ha bisogno di nulla e di nessuno. Ma trabocca d’amore perché è comunione d’amore. Per questo Dio crea, perché vuole che partecipiamo alla sua gioia.
* È una Parola che offre un’alleanza, una Parola che ci mostra un Dio disposto a legarsi all’umanità per sempre. E per questo le traccia la strada della felicità, perché sfugga alle insidie del male. È una Parola che non si lascia sconfiggere dalla cattiveria e dall’ingratitudine degli esseri umani e per questo non si stanca di annunciare, con la voce dei profeti, un progetto che sorpassa qualsiasi immaginazione.
* Questa Parola si è fatta carne, è diventata un uomo, come noi. Non c’era altro modo per rivelare l’Amore se non condividendo fino in fondo la nostra condizione. Non c’era altra strada per strapparci alla tristezza dell’egoismo, alla durezza del cuore, alla prigionia del peccato. Questa Parola si è fatta carne e ha corso tutti i rischi che comporta una simile scelta: anche quello di essere ignorata, rifiutata, calpestata, condannata… Sì, anche il rischio di essere fatta tacere per sempre, con la morte.
* Questa Parola fatta carne è stata offerta alla nostra libertà. Possiamo accoglierla o allontanarla, farle posto o cacciarla, ascoltarla o tapparci le orecchie. Se le apriamo il cuore e la mente, se la facciamo scendere nel profondo della nostra esistenza, riceviamo qualcosa di inaudito, che ci trasfigura per sempre. Diventiamo i figli di Dio, l’oggetto della sua tenerezza, un raggio della sua luce, un frammento della sua bellezza. Gesù è venuto proprio per questo.

315 - UN MISTERO D’AMORE - 27 Dicembre – San Giovanni apostolo

Il Mistero dell’Incarnazione che è al centro della festa del Natale del Signore Gesù non può venire esaurito dalla celebrazione di un solo giorno, pur solenne. Ecco perché la liturgia prevede un «tempo di Natale»: perché ogni discepolo possa contemplare i diversi aspetti di una realtà così grande e sorprendente, che ha dell’inaudito e dell’inimmaginabile. Due sono le strade che ci vengono proposte dal Nuovo Testamento.
La prima, narrativa, ci mette davanti al racconto di una nascita che avviene nel bel mezzo del trambusto suscitato dal censimento, in un alloggio di fortuna. Nel Bambino appena nato, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, anche noi come i pastori, siamo invitati a vedere il segno e a riconoscere il Salvatore, il Cristo, il Signore. Nella sua umanità: nel bambino fragile e bisognoso di tutto (notte di Natale) come nell’uomo fatto che condivide in tutto e per tutto la nostra condizione (festa del Battesimo) noi contempliamo il Figlio di Dio che ci viene incontro per offrirci gioia e pace, salvezza e liberazione.
Ma c’è anche un’altra via, teologica ed esistenziale al contempo, quella del Prologo del Vangelo di Giovanni. Essa ci svela la realtà da un altro punto di vista, quella del Verbo eterno, che era fin dal principio e che ha assunto la carne di un uomo, quella del Figlio che viene a piantare la sua tenda in mezzo a noi e che ci dona di contemplare la sua gloria, offrendoci grazia e verità.
Questo percorso, è vero, manca dell’animazione che ritroviamo nel presepio: niente angeli e pastori, niente capanna, Maria e Giuseppe. L’unico che figura, oltre al protagonista, è Giovanni, il Battista, l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. E tuttavia questo straordinario brano poetico ci conduce a considerare la nostra esperienza di fede in quello che essa ha di fondamentale.
Il paradosso non viene affatto smussato: il Verbo eterno assume la fragilità della carne umana. Egli si offre a noi come Parola, come Vita e come Luce.
* Una Parola che interpella, che risuona nel profondo del cuore, una Parola d’amore che ha creato l’universo ed attende una risposta d’amore. Una Parola non solo consolante e misericordiosa, ma anche dura ed esigente, che mette su sentieri nuovi e domanda una conversione profonda.
* Una Vita che ha i connotati di Dio, della sua pienezza, della sua bontà e che raggiunge le dimensioni dell’eternità. Non una vita qualsiasi, dunque. Spesa in qualsiasi modo, a qualunque condizione. La Vita che viene offerta ha il sapore inequivocabile di una realtà che ci supera, in cui possiamo solamente abbandonarci, come in un oceano che non può essere abbracciato.
* Una Luce che rischiara ogni anfratto della nostra esistenza. Non una luce potente, che abbaglia e ferisce, ma una Lucecalda e misericordiosa, che rischiara il cammino e accende di speranza il nostro animo.
Così il Figlio di Dio si propone ad ognuno di noi. Non si impone con la forza, ma domanda di essere accolto, a costo di esporsi al rifiuto degli uomini. Anche questo può accadere…Ma a coloro che credono nel suo nome si apre un’occasione del tutto inedita: essere generati da Dio stesso alla vita dei figli di Dio. Ecco la nostra esperienza di discepoli è tutta qui: in questa Parola, in questa Vita e in questa Luce che ci strappano al vuoto e al silenzio, alla morte e all’oscurità e ci fanno entrare in una comunione divina, feconda di bene.

lunedì 26 dicembre 2011

314 - COME VIVERE QUESTO NATALE? - 26 Dicembre – Santo Stefano

Certo, questo non è il primo Natale della nostra vita. E c’è il rischio – lo abbiamo già provato – di arrivare a questa festa con molte attese, e poi di vederle deluse. I preparativi sono cominciati da molto tempo. Ma quello che ci è stato annunciato è spesso un Natale che non ha molto da spartire con la celebrazione cristiana. È il Natale predisposto, organizzato, pubblicizzato da una società che avverte la possibilità di vendere, di far consumare i prodotti che ha preparato. Contribuisce a ‘far girare’ l’economia, ma non è detto che soddisfi i cuori. L’Avvento avrebbe dovuto provvedere proprio a questo: a farci vivere un tempo prezioso in cui allertare gli animi, aprire gli occhi e gli orecchi, per intendere la Parola e cogliere i segni che vengono disseminati attorno a noi. Come che sia andato l’Avvento, comunque, questo tempo di grazia arriva per tutti e può offrire a tutti la sua Luce e la sua Pace…
L’importante è viverlo bene, per non restare con la nostra fame e la nostra sete… Non fame e sete di cibo: quello sarà – per alcuni di noi nel mondo – abbondante fino allo spreco. Fame e sete di qualcosa che solo Dio può darci: una pace che raggiunge il profondo della nostra esistenza, che mette fine alle ansie e agli affanni che ci accompagnano sempre; un senso al nostro andare, una direzione al nostro camminare e la certezza che stiamo andando nel verso giusto; un sostegno alla nostra fragilità, una forza ed un entusiasmo nuovi con cui affrontare i momenti difficili.
Cosa significa viverlo bene? Il vangelo di Luca ci offre come modello i pastori. Non idee astratte, dunque, ma persone vive, in carne ed ossa. E quindi più facili da imitare. Siamo invitati a vivere il Natale come i pastori, e quindi:
* ad ascoltare l’annuncio, che risuona da duemila anni: «Oggi vi è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore». Non è facile intenderlo questo messaggio in mezzo al frastuono di questi giorni. Ecco perché è indispensabile fare almeno un poco di silenzio, far tacere le voci, le musiche, ma anche gli affanni, le preoccupazioni che urgono sempre alle porte della nostra esistenza;
* a prendere sul serio questo annuncio e dunque a mettersi in marcia per «vedere questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Sì, c’è un percorso da compiere, un cammino di ricerca da fare, guidati dalla Parola. Non riceviamo la salvezza a domicilio, come un pacco dono che basta scartare;
* a contemplare il segno: «Maria e Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia». Anche qui bisogna subito mettere in chiaro che Egli ci viene incontro a modo suo e che dobbiamo accettare che Egli ci raggiunga nella fragilità di un bambino, non nella forza di un potente. Non vuole infatti imporsi a noi, essere ricambiato nell’amore che ci offre;
* a trasmettere quello che ci è accaduto, a non tenere per noi quello che abbiamo scoperto. Abbiamo udito e visto: ora le nostre parole, dettate dal cuore, devono raggiungere quelli che ci stanno accanto, contagiarli della nostra gioia, far intravedere loro il sapore di quella pace che abita la nostra vita perché ci sentiamo amati;
* a lodare Dio che nel suo Figlio si è fatto vicino, uno di noi, e che si è manifestato innanzitutto ai poveri, a quelli che hanno bisogno della sua forza per andare avanti e si sentono dunque rincuorati e sostenuti nel loro pellegrinaggio.
Se faremo così, se imiteremo i pastori, le nostre attese non verranno tradite e questo sarà un buon Natale, il Natale del Signore Gesù!

sabato 24 dicembre 2011

313 - È NATO PER NOI IL SALVATORE - 25 Dicembre 2011 – Natale del Signore - (Isaia 9,1-6 Ebrei 1,1-6 Luca 2,1-20)

La notte di Natale gli sguardi di tutti sono rivolti al presepe. Non si tratta, certo, di indurre gli occhi ad abbandonarlo. Al contrario: ci si deve attardare per scrutare con attenzione ciò che implica la venuta del Figlio di Dio nella carne di un uomo. A questo scopo, tuttavia, è più opportuno lasciarsi guidare dalla Parola proclamata che dalla propria immaginazione e sensibilità. Luca ci regala un modo esemplare di leggere l’Evento: presenta il fatto in modo preciso e circostanziato, ma poi ci vuole far cogliere il senso che assume nella storia della salvezza. L’oggi della salvezza si estende dalla nascita del Bambino a tutta la vita di Gesù – da Betlemme a Pasqua – e anche a quella della Chiesa. A Natale noi lo riconosciamo come ‘Salvatore’ e ‘Cristo Signore’ perché confessiamo che lo è per sempre. Il paradosso dell’Incarnazione, certo, non può essere sminuito. Anzi, domanda di esplodere con forza.
La gloria di Dio si manifesta nella povertà, nella precarietà di un bambino sottomesso ai decreti di un imperatore pagano e alla sua volontà di potenza, in una nascita che avviene nello spazio interno di una casa, deputato a ricovero degli animali e a deposito, dove a far da culla è una mangiatoia. Ma proprio in queste condizioni dimesse brilla la gloria di Dio, proclamata nel cielo da una moltitudine di angeli e annunciata ai pastori.
PREGHIERA DELLA NOTTE - Siamo venuti nella notte a celebrare la tua nascita, Gesù, perché sei tu la Luce del mondo. Tu ci strappi alle tenebre del disorientamento e dell’angoscia e ci doni la speranza di un mondo nuovo. Tu rischiari i nostri sentieri
e ci tracci la strada che conduce alla pienezza della vita.
Siamo venuti nella notte a celebrare la tua nascita, Gesù, perché sei tu il Salvatore, colui che ci libera dal male che intacca e devasta la nostra esistenza. La tua misericordia ci rigenera, sbarazzandoci dal peccato, donandoci la possibilità di vivere nella giustizia e nella pace, nella benevolenza e nella compassione.
Siamo venuti nella notte a celebrare la tua nascita, Gesù, perché tu sei il Cristo, l’Inviato di Dio, venuto a cambiare la nostra storia. Tu condividi le nostre sofferenze, conosci le nostre miserie e ricolmi dei tuoi doni i poveri della terra.
Siamo venuti nella notte a celebrare la tua nascita, Gesù, perché tu sei il vero, l’autentico Signore, colui che viene nell’amore per consolare non per umiliare, per guarire non per giudicare, per liberare non per condannare.
PREGHIERA DELL’AURORA - All’inizio di questo giorno anche noi, come i pastori, vogliamo andare a Betlemme. È lì, Gesù, che tu ci dai appuntamento e ti fai incontrare non nella forza, ma nella fragilità, non nella ricchezza, ma nella povertà. È lì, Gesù, che tu ci disarmi e ci inviti a spogliarci di ogni sogno di potenza, di ogni volontà di dominio, di ogni orgoglio e superbia per accoglierti così come ti riveli in un bambino bisognoso di tutto che è il vero signore della storia.
All’inizio di questo giorno anche noi, come i pastori, vogliamo vedere il segno offerto a tutti coloro che si lasciano condurre dall’annuncio dell’angelo
e trovano te, bambino, adagiato nella mangiatoia.
E scoprono che la Parola ricevuta ha trovato puntuale riscontro, che la Promessa si è realizzata, che al di là delle apparenze Dio guida veramente la storia. Oggi, Gesù, è qui Betlemme: qui il luogo in cui tu, vivo e risorto, parli al nostro cuore e fai intendere la tua voce, qui la “casa del pane” in cui tu ti offri come cibo che dà forza.
PREGHIERA DEL GIORNO - Quel giorno con la tua nascita, Gesù, è cominciata un’epoca nuova nella storia tormentata di questo nostro mondo: è stato deposto un seme, fragile ma carico di vita, un lievito buono capace di trasformare il cuore degli uomini. Ecco perché siamo qui, figli di una storia nuova a cui tu hai dato inizio.
Quel giorno con la tua nascita, Gesù, la grazia e la verità di Dio, la sua tenerezza smisurata e la sua luce misericordiosa hanno posto stabilmente la loro dimora sulla terra. E a quanti ti hanno accolto è stato dato di percepire il segno di una Presenza che trasfigura la vita. Ecco perché siamo qui, figli avvolti da un amore che ha cambiato il corso degli eventi.
Quel giorno con la tua nascita, Gesù, a tutti è stata offerta una possibilità insperata, un’occasione unica: essere generati ad un’esistenza nuova, abitata dalla vita stessa di Dio, percorsa dalla fiducia, risvegliata dalla speranza.

312 - UNA MISSIONE PIÙ CHE UN’ANNUNCIAZIONE …

Per una pausa spirituale durante la IVª Settimana di Avvento

“L’angelo Gabriele fu mandato da Dio …” È vero: il messaggio di Gabriele rappresenta un autentico ‘invio in missione’, al modo delle vocazioni profetiche. In effetti Maria porterà la Parola nella sua stessa carne, nel suo grembo, e il Magnificat è un canto che riassume le attese e le speranze destate dai profeti. Il vangelo dell’annunciazione ci permette di reperire le caratteristiche salienti delle nostre vocazioni: umane, spirituali ed ecclesiali. È un testo che non consente alcun commento psicologico o soggettivo della scena evocata. Con arte consumata, ma anche con estrema delicatezza, Luca ha costruito un racconto che è la presentazione – divinamente ispirata – dell’esperienza, di per sé incomunicabile, fatta da Maria. Sotto forma di un dialogostrutturato mirabilmente e colmo di riferimenti all’Antico Testamento, ci viene offerta la sostanza dell’evento. Per raggiungere tale obiettivo nessuna concessione al pittoresco o all’aneddotico. Questa pagina non è stata scritta per soddisfare la nostra curiosità, ma per rivelare un mistero e nutrire la nostra fede.
a. Una missione che trova origine in un dono! «Rallègrati, piena di grazia…». Non si tratta di un convenevole, di una forma usuale di saluto, altrimenti Maria non rimarrebbe ‘turbata’. Le viene rivelato l’amore gratuito e smisurato che Dio ha per lei… Per questo riceve l’assicurazione che è alla base di ogni vocazione profetica: «Il Signore è con te!». Ogni chiamata comincia proprio così: da un dono d’amore del Dio fedele, che porta a compimento, in modo imprevisto, ogni sua promessa. Quando siamo tentati di considerare il compito che ci è stato affidato come un incarico oneroso, di cui percepiamo solo il rischio o la fatica, non dovremmo dimenticare la fiducia e la tenerezza di cui siamo stati oggetto. L’impressione di essere soli, abbandonati a noi stessi, è una ‘prova’, che mette al vaglio la nostra vocazione e talora è anche il ‘sintomo’ di un’incapacità a riconoscere e ad accogliere «Colui che cammina con noi».
b. Una missione da affrontare senza timore. «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». Maria si sente piccola, prova turbamento «di fronte al mistero di Dio che si avvicina ad un uomo». Percepisce come l’irruzione di Dio sconvolga la sua vita e la proietti nell’inatteso. Ma l’angelo la rassicura: non è davanti ad un progetto bizzarro. È la grazia di Dio che l’ha concepito e che si impegna a portarlo a compimento.
La reazione di Maria non è estranea alle chiamate che ci raggiungono. Capita anche a noi, quando il Signore bussa alla nostra porta, di sobbalzare. In effetti temiamo questa ‘intrusione’, che manda all’aria la nostra tranquillità ed i nostri progetti. Il Dio vicino, che interviene, è da sempre anche un Dio scomodo. Quello che ci propone non riusciamo a comprenderlo fino in fondo e tuttavia rappresenta non un ostacolo, ma un’occasione di grazia, una chance, da afferrare con fiducia.
c. Una missione confortata dai segni. «Come avverrà questo?». Pronta ad accettare il progetto di Dio su di lei, Maria non può fare a meno di porre una ‘giusta domanda’ circa la sua condizione. È l’atto interiore di una persona che mette in dialogo parti contrapposte e pensa attraverso vari ragionamenti per prendere una decisione. La risposta dell’angelo non si fa attendere. Lo Spirito Santo, detto anche potenza dell’Altissimo, realizzerà il piano di Dio ‘scendendo’ e ‘coprendo’ Maria con la sua ombra. Le viene, comunque, offerto un segno, per mostrare che «nulla è impossibile a Dio»: Elisabetta, la sterile, già avanti negli anni, attende un bambino. Anche noi, in effetti, ci poniamo la stessa domanda di Maria: «Come avverrà questo?». Lo facciamo quando veniamo messi di fronte ad impegni rischiosi, ad obiettivi che hanno dell’inverosimile, a cambiamenti che riteniamo al di là delle nostre forze… Se vogliamo imitare Maria, non dobbiamo però approfittarne per sottrarci alla nostra responsabilità. Lo Spirito viene a fecondare la nostra fragilità, basta che noi siamo disponibili ad assecondare il volere di Dio, il suo progetto.
d. Uno stile missionario. Per il cristiano la missione non è un optional, un impegno affidato ai più volenterosi. Condividere l’amore del Padre e di Cristo spinge ad andare in cerca dei bisogni umani, a lasciarsi afferrare dalla loro urgenza. Valorizza le risonanze suscitate, utilizza gli strumenti dell’analisi sociale che li mette in evidenza. Ma scopre anche aspetti nuovi ed insospettati. Rivela l’uomo a se stesso secondo le dimensioni reali del suo essere. Smaschera i desideri scorretti e peccaminosi. Approfondisce le tensioni puramente epidermiche suscitando desideri più ampi. Apre il cuore e le opere dell’uomo alla presenza di Dio nella storia. Annuncia un perdono capace di distruggere l’egoismo e di rigenerare le energie più belle. Un’opera del genere esige uno stile particolare:
– essenzialità, perché siano sempre chiare le priorità, le precedenze, le gerarchie di valore;
– povertà, in armonia con il modo in cui Dio stesso ha realizzato il suo progetto;
– gratuità, perché emerga il dono che ci è stato fatto e che intendiamo trasmettere;
– fraternità, che implica un clima di serenità, di cordialità, di immediatezza nei rapporti personali, così da mettere ognuno a proprio agio favorendo la comunicazione e lo scambio di esperienze.

domenica 18 dicembre 2011

311 - UNA PROPOSTA SORPRENDENTE … 18 Dicembre 2011 – IVª Domenica di Avvento

(2°Samuele 7,1-16 Romani 16,25-27 Luca 1,26-38)

“Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”… Maria non se la poteva proprio attendere una proposta del genere. I suoi pensieri e i suoi progetti, molto probabilmente, andavano in tutt’altra direzione. Promessa sposa a Giuseppe, attendeva il giorno del matrimonio e poi si vedeva madre, attorniata da una nidiata di figli, perché erano questi la più grande benedizione che il Signore potesse dare ad una famiglia.
In quel piccolo paese, Nazaret, sconosciuto ai più, avrebbe condotto un’esistenza semplice, faticosa, ma rallegrata dalle piccole gioie che costellano la vita di una donna saggia, sposa e madre di famiglia, e soprattutto la sua sarebbe stata un’esistenza percorsa dalla fede. La fede dei padri, in effetti, nutrita delle Sacre Scritture e della preghiera quotidiana, la accompagnava come una fiamma che arde costantemente perché si ha cura di tenerla accesa.
No, Maria non ha finto sorpresa per questioni di buona educazione: è stata semplicemente colta alla sprovvista. Tutti coloro che attendevano il Messia, tutti coloro che erano certi che Dio avrebbe realizzato le sue promesse, pensavano soprattutto ad un re o ad un membro delle grandi famiglie sacerdotali. E dunque il loro sguardo ed il loro cuore andavano alla capitale, Gerusalemme, ai palazzi dei nobili o al Tempio del Signore e ai figli dei sommi sacerdoti. Chi avrebbe potuto immaginare che il Messia sarebbe nato da una fanciulla di Nazaret e avrebbe conosciuto non gli agi di una condizione privilegiata, ma le fatiche e la penuria della povera gente?
Eppure Dio ha un modo tutto suo di realizzare i grandi progetti: egli si serve non dei ricchi, dei potenti e dei forti, ma di coloro che sono poveri e piccoli, ma sono disposti a dargli fiducia e a mettere la loro esistenza interamente nelle sue mani.
Il disegno è grande, i titoli e le espressioni sono altisonanti: «Figlio dell’Altissimo», «il trono di Davide», «la casa di Giacobbe». E tuttavia Maria accetta di entrare in questo piano di cui non può conoscere che il frammento che le viene rivelato. Per il resto deve solo fidarsi. Davanti alle sue obiezioni la risposta è un invito scoperto a lasciar fare a Dio. Sarà lo Spirito Santo ad agire e l’Altissimo la coprirà con la sua ombra. Se Dio interviene in prima persona, ogni difficoltà ed ogni resistenza cade perché Dio realizza i suoi progetti, anche se per strade completamente ignote agli uomini. Maria si fida e per questo pronuncia il suo sì, un sì – dobbiamo riconoscerlo – completamente ‘a scatola chiusa’. Del resto non potrebbe essere altrimenti. Spiegarle il progetto significherebbe accrescere le difficoltà perché quello che Dio compie è lontano mille miglia dalle previsioni degli uomini.
Oggi, proprio come duemila anni fa, Dio si comporta allo stesso modo: si serve dei piccoli e dei poveri per realizzare cose stupende. Basta che questi facciano come Maria: gli dicano di sì, si fidino totalmente di lui.
PREGHIERA - L’annuncio della tua nascita, Gesù, avviene in modo semplice e quasi dimesso. Niente di mirabolante, di sfolgorante, nessuna esibizione di potenza, eppure noi possiamo cogliere nel racconto così sobrio la grandezza di un mistero di amore che diventa realtà.
Dio entra nella vita di Maria, tua madre, con un messaggio di gioia e di grazia. A lei, giovane donna di un oscuro villaggio della Galilea, promessa sposa a Giuseppe, chiede di partecipare al suo progetto di salvezza, un disegno troppo stupendo per poter essere compreso e abbracciato in ogni sua parte.
Ecco perché le viene domandato di fidarsi di Dio, di mettersi nelle sue mani, di lasciare che lo Spirito agisca nella sua esistenza, di lasciarsi coprire dall’ombra dell’Altissimo.
Anche a noi, Gesù, il Padre ha assegnato un ruolo nel suo piano d’amore. Anche a noi viene offerta la possibilità di sperimentare la fiducia, di abbandonarci senza remore alla volontà di Colui che costruisce un futuro di gioia per tutta l’umanità.

sabato 17 dicembre 2011

310 - QUALE TESTIMONIANZA OGGI?

Per una pausa spirituale durante la IIIª Settimana di Avvento

Nel Quarto vangelo la testimonianza «non è una qualità personale, ma è l’azione precisa del discepolo di riferirsi a qualcun altro in tutto ciò che dice e fa. Così render testimonianza equivale a parlare non di sé, ma di un altro, che è più grande ed importante. Il che significa accettare di essere sempre al secondo posto, perché si sa chi ha il primo posto». Da questo punto di vista il Battista è l’autentico discepolo, il vero servitore. E lo riconosce senza mezzi termini. Non lavora per sé, ma per Colui che viene dopo di lui. Quando due dei suoi discepoli seguiranno l’Agnello di Dio, non farà dunque nulla per trattenerli con sé perché è proprio per questo che è stato mandato. Il suo è un compito a termine e quindi arriva il momento in cui è chiamato a scomparire. Umiltà? Abnegazione? Certo, ma anche la gioia del seminatore che, nella fede, partecipa all’entusiasmo e all’allegria della mietitura.
Possiamo chiederci: “Come vivere questi giorni che ci separano dal Natale?”. Con lo stesso spirito di Giovanni il Battista: pronto a rendere testimonianza a Gesù, il Figlio di Dio venuto nella carne di un uomo; disposto a riconoscere la sua grandezza e a seguirlo, a volgere sguardi e cuore verso di lui. Nei luoghi in cui ci troviamo a vivere, con le nostre diverse responsabilità, con i nostri differenti compiti, siamo spesso tentati di rincorrere un successo personale, di ‘appropriarci’ di quelli che ci aiutano e collaborano con noi, a costo in qualche modo di imprigionarli. E non di rado ci accade di rifiutare in modo maldestro coloro che arrivano ad investire e ad innovare proprio nel terreno da noi considerato terreno di caccia … Com’è difficile, poi, accettare che uno prenda il nostro posto senza criticarlo! Ma gli operai del Vangelo devono essere pronti a lasciarsi superare e a rallegrarsi quando vedono qualcuno crescere e scoprire la vera luce.
Come suggeriva il card. Martini, «Il riconoscerci servi ci ricorda che siamo di fronte ad un compito immensamente più grande di noi, affidatoci da Dio con un gesto di fiducia. Il riconoscerci servi inutili rende liberi e sciolti nel presente: liberi dal peso insopportabile di dover rispondere a ogni costo a tutte le attese, di dover essere sempre perfettamente all’altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo. Questa libertà e scioltezza ci rende umili e modesti, disponibili a fare quanto sta in noi, a riconoscere quanto ci sta ancora davanti e a collaborare con semplicità e senza pretese».
Allora in quali ambiti siamo chiamati a dare testimonianza? Con quali priorità? Alcuni suggerimenti:
• È la testimonianza innanzitutto dell’amore fraterno che fa della comunità un’autentica famiglia, attraverso rapporti personali sinceri, pazienti, accoglienti, disposti a correggere e ad essere corretti, con dolcezza e franchezza, pronti a edificarsi reciprocamente con parole ricche di sapienza cristiana e con esempi di luminosa bontà.
• È la testimonianza della prossimità verso gli ultimi, i più bisognosi, i più trascurati, quanti sono al limite della resistenza, attraverso interventi immediati che non pretendono di risolvere tutto, ma fanno quel che è possibile al momento.
• È la testimonianza dell’animazione sociale e dell’impegno politico, percorsi da un’attenzione più vera ai bisogni delle persone, da interventi che favoriscono l’accoglienza, l’inserimento sociale, la crescita libera di ognuno.
• È la testimonianza del discernimento spirituale. Di fronte a scelte economiche e politiche, a costumi sociali che si vanno consolidando, ad orientamenti che nascono nella vita familiare… la visione cristiana intuisce quali fenomeni rappresentino un inizio promettente di un mondo nuovo e quanti invece, nonostante l’ampio consenso che incontrano, allontanino gli uomini da una vita di libertà e di pace.

sabato 10 dicembre 2011

309 - GIOVANNI, IL TESTIMONE CHE FA CONOSCERE -11 Dicembre 2011 – IIIª Domenica di Avvento

(Isaia 61,1-2.10-11 1ªTessalonicesi 5,16-24 Giovanni 1,6-8.19-28)

Un testimone è credibile quando parla in base alla propria esperienza. Ora per l’evangelista Giovanni il Battista è molto di più di un semplice porta-parola. È un uomo mandato da Dio a rendere testimonianza alla luce. Il suo ruolo è quello del testimone. Non deve limitarsi ad annunciare, a lanciare un messaggio che è una sorta di grido. Quello è stato il ruolo di tutti i profeti. Ricevere una parola per trasmetterla, leggere la storia con gli occhi di Dio, richiamare l’alleanza e le sue leggi da rispettare. Ma lui, Giovanni il Battista, è l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento e il suo ruolo è del tutto particolare. Prepara la strada a Colui che deve venire ricordando che Dio è vicino, sta per mettersi all’opera e dunque bisogna essere pronti nel momento in cui entrerà in azione.
Questo, però, non basta. Giovanni – e in questo la sua missione è unica – deve render testimonianza all’Atteso quando arriverà. Sì, Giovanni è un testimone, uno chiamato a vedere e a divulgare quello che ha visto. È un testimone della Luce, della Luce vera che viene nel mondo per illuminare ogni uomo, per rischiarare i sentieri di coloro che vagano nelle tenebre. Non è lui la Luce, non può prendersi per la Luce. Lui, il profeta e testimone, davanti alla Luce è chiamato a farsi piccolo e a scomparire. Non è casuale che la liturgia abbia collocato la nascita di Gesù al 25 dicembre, quando la quantità di luce di un giorno, dopo il solstizio d’inverno, torna ad aumentare, e la nascita di Giovanni il Battista al 24 giugno, quando la quantità di luce di un giorno, dopo il solstizio d’estate, tende a diminuire.
È un testimone che, inevitabilmente, deve prendere posizione davanti a se stesso, alla sua identità e davanti a Colui che annuncia. Ecco perché le sue risposte ai sacerdoti e ai leviti sono una serie di no: non è Elia, non è il profeta … è solo una voce che grida nel deserto ed invita a rendere diritta la via del Signore. Ecco perché mette chiaramente in evidenza la distanza che lo separa dal Cristo, una distanza abissale che non si presta a nessuna confusione. Il gesto di versare l’acqua per invitare alla conversione e l’azione dello Spirito che trasforma un’esistenza fin nel profondo non sono la stessa cosa.
PREGHIERA - Sei tu, Gesù, la luce del mondo: tu illumini la nostra storia e ci fai intravedere un compimento, tu diradi le tenebre che ci gettano nella paura e nel disorientamento, tu rischiari le zone oscure della nostra esistenza e ci strappi al potere del male.
Sei tu, Gesù, la luce del mondo: nessuno può illudersi di prendere il tuo posto. A ognuno di noi spetta, invece, il ruolo di Giovanni il Battista: riconoscere con semplicità di essere solo dei testimoni, umili e felici, disponibili e pronti.
Così chi cerca la luce potrà rallegrarsi delle indicazioni che saremo in grado di fornirgli. Chi desidera vedere il volto di Dio affretterà il suo passo sulla strada che anche noi stiamo percorrendo.
Sei tu, Gesù, la luce del mondo, e per noi è bello vedere la vita con i tuoi occhi limpidi, leggere la storia con il tuo sguardo profondo, attraversare le zone impervie e anche i passaggi dolorosi potendo contare sulla tua presenza.
Sei tu, Gesù, la luce del mondo, e ad ognuno tu affidi un raggio della tua bontà, della tua grazia e della tua gloria.

martedì 6 dicembre 2011

308 - MARIA, UNA DEGNA DIMORA PER IL SUO FIGLIO - 08 Dicembre 2011 – Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria

(Genesi 3,9-15.20 Efesini 1,3-6.11-12 Luca 1,26-38)

La festa di oggi non cade casualmente in Avvento: essa dà consistenza al percorso appena cominciato e nello stesso tempo apre gli orizzonti perché si possa cogliere più chiaramente il disegno di Dio.
Il rapporto tra Dio e l’uomo nasce da un amore smisurato e gratuito che chiama all’esistenza e colloca in una condizione di armonia e di felicità. A questi doni, tuttavia, non corrisponde la fiducia e la fedeltà da parte degli uomini. Così essi scoprono la loro nudità e la loro vergogna. Dio, però, non smette di dialogare con loro. Anzi, fa addirittura intravedere la sconfitta del serpente che, attraverso l’inganno, ha condotto al peccato (1ªlettura).
Con la proposta, fatta a Maria, di diventare la madre del suo Figlio, Dio dimostra di non aver dimenticato le sue promesse (vangelo). Egli chiede alla giovane donna di Nazaret di fidarsi di lui, di lasciare che la sua vita sia trasformata dall’opera dello Spirito e trova in lei un ascolto disponibile e pronto, un terreno fecondo in cui la Parola eterna può prendere carne.
Proprio a partire da questo evento è possibile allora rileggere l’intera storia del cosmo. ‘In Cristo’, infatti, ogni cosa trova senso e il progetto di Dio appare in tutta la sua bellezza: la creazione e la redenzione, l’offerta di grazia che trasfigura in figli adottivi e in eredi dei beni eterni e chiama ogni uomo alla santità (2ª lettura).
È il percorso che ci fa compiere il lezionario per celebrare l’Immacolata Concezione di Maria, il dogma proclamato solennemente da papa Pio IX l’8 dicembre 1854. In effetti Maria diventa un’icona di quella storia santa a cui appartiene, storia tra Dio e gli uomini che trova il suo compimento in Cristo. È in vista della sua morte e risurrezione, infatti, che è stata sottratta, fin dal suo concepimento, al peccato originale, a quella fragilità che segna tutti i discendenti di Adamo.
PREGHIERA - Noi ci rivolgiamo a te, Maria, Vergine Immacolata, perché tu sei per noi un’icona di speranza. Ogni giorno sperimentiamo la realtà del male che ferisce e lacera e conosciamo da vicino la nostra debolezza e le nostre infedeltà. Per questo talvolta siamo tentati di pensare che il potere della cattiveria è ineluttabile.
Tu, donna della speranza, ci mostri com’è possibile accogliere con gioia il progetto di Dio. Tu ci indichi la strada della fedeltà assoluta, dell’adesione generosa, della trasparenza totale.
Noi ci rivolgiamo a te, Maria, Vergine Immacolata, perché tu sei per noi un’icona di grazia. Dio mantiene le sue promesse e conduce la storia per sentieri nuovi.
Oggetto del suo amore smisurato, tu hai potuto respirare la sua tenerezza e aprirti con gioia fiduciosa alla sua volontà e al suo disegno di salvezza.

sabato 3 dicembre 2011

307 - PREPARATE LA STRADA AL SIGNORE - 04 Dicembre 2011 – IIª Domenica di Avvento

(Isaia 40,1-5.9-11 2ªPietro 3,8-14 Marco 1,1-8)
Il messaggio di Giovanni Battista diventa un appello a volgersi decisamente verso Colui che sta per arrivare, a convertire la nostra vita.
COSA SIGNIFICA CONVERTIRSI? All’uomo viene ridata «la possibilità gioiosa di scoprire il disegno di Dio, di scoprire se stesso in questa chiamata a esprimere questo disegno, di aderire a questo disegno con stupore, con gratitudine, con obbedienza, con generosità». È questa, come ci ricordava il card. Martini, la conversione cristiana.
Ma da dove nasce e che cosa comporta praticamente questa decisione che cambia la vita di una persona?
• Essa è una prova della serietà con cui Dio ci ama fino al punto di volerci come suoi collaboratori nella libertà e nell’operosità. Egli è pronto a consolare il suo popolo e a fargli da guida verso una pienezza sconosciuta. Egli stesso gli viene incontro per realizzare le sue promesse e rendere possibile una trasformazione. Se per Giovanni è urgente prendere consapevolezza dei peccati per cercare il pentimento, per Gesù è prioritario l’annuncio di ciò che Dio è disposto a fare, convinto che anche la conversione sia opera di Dio e non innanzitutto opera umana.
• Essa è la conseguenza di un desiderio che abita e smuove la persona: vivere la vita «buona e bella, secondo il Vangelo», un’esistenza che corrisponde alle attese più profonde di felicità. È la bellezza di questa proposta che attrae fino al punto di accettare le esigenze, le condizioni che questa scelta comporta. Certo, il clima di stordimento generale, di cecità morale, talvolta di vera e propria ottusità non favorisce una decisione così importante. È come se una tenebra fitta colpisse mentalità, abitudini e costumi ed impedisse di vedere e seguire quella luce benefica che ci viene offerta.
• Essa non prevede un semplice processo evolutivo, una tranquilla successione di passaggi, una crescita senza scosse. L’itinerario della conversione comporta inevitabilmente una rottura, che viene ripresa in momenti successivi, autentici ‘salti di qualità’. Questo percorso esige la scioltezza, il distacco, la prontezza, la disponibilità del pellegrino. E si fa, di volta in volta, scoperta dolorosa del male che è dentro di noi, della nostra complicità con l’ingiustizia; decisione radicale di troncare
qualsiasi connivenza con ciò che deturpa in noi e negli altri l’immagine di Dio; affrancamento da qualsiasi schiavitù per vivere la propria dignità di discepoli a qualsiasi costo. Si tratta poi di cambiare scala di valori perché la vita assume un aspetto ed una direzione diversi.
• È il cambiamento di mentalità, del modo di ragionare ovvio e spontaneo, per accogliere un pensiero più ampio e più grande che viene da Dio. Il che non comporta solo un invito alla coscienza, ma anche una regola di vita che strutturi la nostra libertà e ci sottragga alle seduzioni del male. Essere discepoli comporta anche una disciplina: una cura attenta del rapporto con Dio, un esercizio quotidiano per non venir meno nel tempo della prova.
PREGHIERA - Al profeta Giovanni il Battista Dio ha affidato un compito: preparare la strada alla tua venuta, Gesù. Non si tratta di un annuncio qualsiasi perché quel che sta per accadere cambierà per sempre la storia del mondo. In te Dio si fa vicino, diventa un uomo come noi. In te Dio rivela il suo volto autentico ed offre misericordia e grazia a quanti lo accolgono con cuore sincero. Nulla, dunque, sarà più come prima, tutto risulterà trasformato.
Ecco perché l’invito pressante a orientare tutta l’esistenza verso questa novità, a fare il possibile per togliere tutto ciò che ostacola, impedisce e ritarda l’incontro con te.
A distanza di duemila anni la voce del Battista non si è spenta. Attraverso di essa, Gesù, tu ci chiedi di aprirci alla tua parola che scandaglia le profondità dell’anima, all’azione dello Spirito che risana e trasfigura la nostra esistenza.
Sapremo prendere sul serio la tua Buona Notizia? Metteremo i nostri passi sul percorso che disegni davanti a noi?

306 - IL TEMPO DI AVVENTO

Per una pausa spirituale durante la Iª Settimana di Avvento

Il TEMPO DI AVVENTO è tempo di attesa e di speranza. È tempo di vigilanza e di decisione, tempo di conversione. L’esperienza cristiana pone sempre di fronte ad una scelta: essere nel mondo, senza essere del mondo. Prendiamo atto del nostro essere nel mondo e dei condizionamenti che questo comporta: la brama di potere e di apparire, la ricerca del successo e del piacere, la schiavitù delle cose, la lotta egoistica per il proprio interesse. Quale speranza? Quale libertà?
Siamo deboli, esposti alla tentazione in molti modi. Chi ci può aiutare a discernere il bene dal male? Chi ci può guidare a costruire una storia, personale e comunitaria, in cui non prevalgano intrecci egoistici? Chi può garantirci la nostra integrità?
Avvertiamo più che mai l’attesa di una liberazione, un intimo e profondo bisogno di speranza, non di ideologie che promettono e non mantengono, che illudono e ingannano. Di fronte a queste, avvertiamo alla fine soltanto la nostra impotenza, e la disperazione.
Il messaggio cristiano rinnova ogni anno la sua proposta: la salvezza autentica non è opera dell’uomo, può essere soltanto invocata e accolta come dono dall’alto. L’attesa ‘cristiana’ legata al Natale, che anima tutto il tempo liturgico dell’Avvento, è attesa di Dio: di Dio che viene all’uomo, gratuitamente e generosamente. È attesa della sua grazia, manifestata nel volto, nella vita, nella parola e nel destino finale di Gesù di Nazaret. Natale è memoria della sua nascita in questo mondo: egli venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti l’accolgono egli offre sempre la stessa gratuita possibilità: diventare ‘figli’ dello stesso Padre.
Gli ATTEGGIAMENTI SPIRITUALI che meglio ci preparano a questa venuta si possono così esprimere:
· mantenersi vigili nella fede, nella preghiera, in un’apertura attenta e disponibile a riconoscere i segni della venuta del Signore in tutte le circostanze ed i momenti della vita e alla fine dei tempi;
· camminare sulla via tracciata da Dio, lasciare gli sbandamenti per vie tortuose, convertirsi per seguire Gesù verso il regno del Padre;
· testimoniare la gioia che porta Gesù salvatore, con la carità paziente ed affabile, con l’apertura a tutte le iniziative di bene, attraverso le quali già si costruisce il regno futuro nella gioia senza fine;
· mantenere un cuore povero e vuoto di sé, imitando Maria, Giuseppe, Giovanni Battista, gli altri poveri del Vangelo, i quali proprio per questo hanno saputo riconoscere in Gesù il Figlio di Dio venuto a salvare gli uomini;
· partecipare alla Messa accogliendo e riconoscendo il Signore che continuamente viene in mezzo a noi, seguirlo nella via che conduce al Padre finché, con la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi, Egli ci introduca tutti insieme nel regno, per farci avere parte alla vita eterna, con i beati ed i santi del cielo.

sabato 26 novembre 2011

305 - IL SIGNORE VIENE A SALVARCI - 27 Novembre 2011 – Iª Domenica di Avvento

(Isaia 63,16-64,7 1Corinzi 1,3-9 Marco 13,33-37)

Nella prima domenica di Avvento inizia per il mondo cristiano il cammino di preparazione al Natale. L’annuncio che il Signore viene a salvarci diventa una chiamata ad andare incontro a colui che viene a liberarci, un invito a riconoscerlo come salvatore: la liberazione vera e profonda che il credente attende, infatti, non è opera umana, ma solo grazia di Dio. Per sperimentare la vera libertà occorre non indurire il cuore e soprattutto vigilare, non permettere che le sirene del mondo assopiscano la nostra coscienza.
È con una preghiera, con un’invocazione accorata, che si apre la liturgia della Parola di questa domenica: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti» (1ª lettura). Sono parole che sgorgano da una certezza, fondata su un’esperienza: «Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore».
Ma perché si richiede l’intervento di Dio? Che cosa ci si attende da lui? Certo, la situazione è difficile, segnata dall’ingiustizia sociale e dalla sperequazione economica. Non è sugli effetti, però, che ci si attarda, ma sulla causa di ogni male: un cuore indurito, insensibile, impermeabile ai richiami della coscienza, incapace di discernere tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto, tra bello e brutto. Tutto, a questo punto, «viene pietrificato in una generica superficialità, finché tutto alla fine va bene perché tutto è indifferente». La voce del profeta, dunque, ci segnala un pericolo e ci fornisce una diagnosi lucida.
I discepoli di Gesù sanno che Dio ha mantenuto le promesse: nel suo Figlio ha offerto misericordia e grazia. Mediante lui ha ‘riscattato’ gli uomini dal potere del male e del peccato. Colui che è venuto nella carne ritornerà per portare a compimento il piano del Padre. Proprio per questo bisogna restare vigilanti, ‘vegliare’, ‘fare attenzione’ (vangelo).
Non si tratta di uno sforzo eroico, che ognuno conduce in solitario, ma piuttosto di assecondare l’opera di Dio, la sua grazia, e di condividere la ricchezza dei suoi doni per far crescere la comunità (2ª lettura):
PREGHIERA - Signore Gesù, ci sono appuntamenti che non si possono perdere.
Ne va della nostra esistenza e, in questo caso, ciò che è in gioco è addirittura la vita eterna. Ecco perché tu ci inviti a vegliare, a tenere gli occhi ben aperti su quanto sta accadendo perché ‘quel giorno’ non ci trovi impreparati.
Signore Gesù, l’attesa del tuo ritorno dà senso al mio pellegrinaggio: se sono pronto ad affrontare sacrifici e privazioni, se sono disposto a fare la figura del perdente, dello sconfitto, rimanendo fedele al tuo Vangelo, è perché so bene che ‘in quel momento’ ogni cosa verrà rivelata. E apparirà che non mi sono sbagliato nell’affidarti la mia vita, nell’aver seguito la bussola della tua parola.
Signore Gesù, non permettere che mi lasci vincere dal sonno, ingannato da tranquillanti a poco prezzo smerciati come pillole di felicità, in grado di dare solo una pienezza illusoria.
Signore Gesù, liberami da tutto ciò che mi impedisce di attendere serenamente il tuo passaggio. Liberami dall’ansia e dall’agitazione, dalla tentazione insana di vendere la mia coscienza in cambio di qualche vantaggio destinato a venir meno.

venerdì 25 novembre 2011

304 - GESÙ, I POVERI E NOI

Per una pausa spirituale durante la settimana della Solennità di Gesù Cristo, Re dell’universo

Una affermazione piuttosto comune dice: «Il povero è Gesù», o qualcosa di equivalente. L’affermazione è legittima, a patto che essa sia accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di un modo abbreviato di dire, che salta una mediazione, come si vedrà più oltre. Quando ci si dimentica di ciò, possono crearsi dei malintesi: persone motivate ad aiutare i poveri perché sono Gesù, quando constatano che un povero ha comportamenti giudicati immorali o comunque riprovevoli o anche solo scostanti, lasciano cadere sentimenti e opere della solidarietà, proprio perché non riescono più ad identificare quel povero con Gesù. Ora, proprio le condizioni di grande povertà, di miseria, come Benedetto XVI ha recentemente sottolineato, possono provocare degrado morale: se la somiglianza con Gesù fosse la condizione per aiutarli, proprio una tale condizione li escluderebbe dalla solidarietà.
Va detto che i poveri vanno aiutati perché sono poveri, e perché la mancanza dell’indispensabile fa soffrire e umilia, e costituisce una situazione ingiusta, che reclama di essere corretta. E chiunque incontra un povero in stato di necessità ed ha la possibilità di aiutarlo, ha anche il dovere di farlo. Persino la legislazione civile conosce il reato di omissione di soccorso. Ciò corrisponde ad un principio presente in tutte le sapienze etiche, e che perciò sembra corrispondere ad una verità tanto fondamentale quanto universale: il mio prossimo è un essere umano, un altro me stesso, non devo comportarmi con lui come non vorrei che gli altri si comportassero con me, se mi trovassi nella medesima condizione.
Ma nella prospettiva della fede, Gesù, o meglio la nostra relazione con Gesù, che posto ha in tutto questo? A questa domanda si può rispondere seguendo due traiettorie. La prima riguarda il rapporto che Gesù stesso stabilisce con chi è povero. Si tratta di un rapporto d’amore così intenso che fa sì che Gesù introietti, per così dire, la sofferenza del sofferente. Un missionario mi ha riferito che una mamma, con un piccino in braccio, andò a chiedere un po’ di cibo e disse: «Padre, è brutto quando ho fame nel mio stomaco, ma è più brutto quando ho fame nello stomaco del mio bambino». L’amore di una madre rende comprensibile questo modo di parlare. Ebbene, il rapporto di Gesù con i poveri è analogo: il Risorto li ama talmente che le sofferenze e le umiliazioni che cadono su di loro egli le sente su di sé. Per questo è stato detto che Gesù rimane in agonia fino alla fine del mondo, fino a quando un solo essere umano sarà in agonia. Per questo chi perseguita un battezzato perseguita Gesù, chi dà da mangiare ad un povero allevia la fame di Gesù. Non perché il povero sia Gesù, ma perché Gesù, nell’amore, fa sua la fame dell’affamato. E per questo non c’è amore autentico a Gesù che non si traduca anche in fame e sete di far indietreggiare le sofferenze dei suoi fratelli su questa terra: ogni dolore, ogni oppressione eliminata in un fratello è anche eliminata dal cuore di Gesù. E non è qui il caso di ribadire ciò che è ben noto: c’è un privilegio di attenzione verso il povero da parte di Gesù.
La seconda traiettoria studia la relazione che viene a crearsi tra noi e Gesù, quando veniamo a trovarci davanti ad un povero o veniamo a conoscenza di una situazione di povertà, e noi siamo in grado di fare qualcosa. Il povero non è Gesù, ma la provocazione che viene verso di noi dal suo bisogno ci colloca come responsabili davanti a Gesù, così che il sì o il no che diciamo al povero, lo diciamo a Gesù. Per comprendere ciò è necessario analizzare che cosa succede quando veniamo provocati ad una decisione. Il legame che c’è tra noi e le nostre decisioni non assomiglia affatto a quello che si crea tra una gallina e l’uovo che ha deposto. Quando noi prendiamo una decisione, non decidiamo mai soltanto dell’azione esterna che da noi prende vita, ma decidiamo anche e sempre di noi stessi, così che il legame tra la decisione e noi è permanente. È per questo che noi siamo responsabili, e cioè dobbiamo rispondere, delle decisioni che prendiamo. Quando decido di rifiutare l’aiuto al povero, pur avendo la possibilità di farlo, non prendo soltanto una decisione da egoista, ma faccio anche di me stesso un egoista. Intervengo su di me, modifico il mio essere a somiglianza dell’azione che compio. Per questo Gesù ha attirato così fortemente l’attenzione sul fatto che non sono le realtà esterne a noi che decidono della nostra qualità morale, ma le decisioni che partono dal nostro interno. Chi rifiuta la solidarietà fa di sé un egoista, chi sceglie la via della menzogna fa di sé una persona falsa e inaffidabile, chi si decide per l’ingiustizia fa di sé una persona ingiusta.
Alla luce di tutto ciò comprendiamo come in ogni provocazione alla decisione ciò che ci viene chiesto non è soltanto una nostra prestazione, è il nostro stesso io che viene posto in gioco. La cosa diventa molto evidente quando si tratta di una decisione nei confronti di un mio simile: non viene richiesto solo un mio atto di solidarietà, è la mia persona che viene richiesta, e precisamente perché io faccia di me un fratello solidale. Ma un mio simile non potrebbe avanzare una esigenza così radicale nei miei confronti, se attraverso di lui non venisse verso di me colui che è il Signore e il Giudice. Solo la presenza del Signore giustifica pienamente una tale richiesta non solo di donazione, ma di autodonazione. Così il povero non è Gesù, ma la sua povertà mi pone davanti a Gesù, e la risposta che darò al povero è in fin dei conti rivolta al Signore e al Giudice della mia vita.

sabato 19 novembre 2011

303 - ALLA FINE SAREMO GIUDICATI SULLA MISERICORDIA - 20 Novembre 2011 – Solennità di Gesù Cristo, Re dell’universo

(Ezechiele 34,11-12.15-17 1ª Corinti 15,20-26.28 Matteo 25,31-46)

Il brano del vangelo di Matteo di oggi è una originale elaborazione redazionale del primo evangelista, anche se il suo contenuto fondamentale rispecchia il messaggio di Gesù circa la priorità da riconoscere alla misericordia verso i poveri.
Con un dittico letterario accuratamente parallelo e redatto in forma di duplice dialogo del re giudice, «assiso sul suo trono di gloria», si viene a conoscere la motivazione fondamentale e riassuntiva per cui i popoli sono alla fine ‘benedetti’ e fatti eredi del regno, oppure ‘maledetti’ e destinati al fuoco eterno.
L’elemento più sorprendente nei ‘dialoghi’ è costituito dal fatto che i due gruppi separati, perché riconosciuti dal giudice divino ‘benedetti o maledetti’, devono ammettere di non aver mai visto il Signore quando hanno soccorso o trascurato (non servito) coloro che egli considerava e considera come «i suoi fratelli più piccoli»! Dunque, il ‘servizio della misericordia’ era e doveva essere motivato dalla gratuità di un animo e di una coscienza che liberamente si dedicano al prossimo (come il ‘buon samaritano’ della parabola lucana), non perché folgorati e costretti da una motivazione prodigiosa (vedere il Signore)!
Soltanto Matteo, fra gli evangelisti, fa assistere anticipatamente a questo grandioso evento finale. Non si tratta propriamente di una parabola, bensì di un annuncio; ovviamente formulato ricorrendo allo scenario simbolico di pecore e capri e di un pastore nel ruolo di giudice e re, che conclude l’avventura della storia umana. Dunque, cessa in certa misura il linguaggio figurativo, per far posto ad una sorprendente rivelazione: il Cristo pastore e giudice dichiara, ai popoli adunati per l’ultimo episodio della loro storia, che lui era presente e reperibile in questo mondo là dove c’erano affamati, assetati, emigrati, malati!
Tradizionalmente la catechesi cristiana ha denominato «opere di misericordia» gli interventi di aiuto e di servizio verso i poveri, ossia verso quelli che si trovano in stato di necessità e in situazione di personale impotenza. I vangeli ci fanno anche sapere – come nella pagina odierna – che tali opere erano state già quelle di Cristo Signore. Ai credenti, che si considerano suoi discepoli, Gesù di Nazaret rivela dunque dove e come li attende, per incontrarli anche ai nostri giorni. Un appuntamento non previsto né programmato da chi non si considera credente cristiano. Eppure, quando anche verso affamati, assetati, emigrati, nudi, malati e carcerati ci si muovesse per compassione e interessamento spontaneo e ‘umanitario’, il Signore Gesù dichiara di essere in quei suoi fratelli più piccoli ed emarginati. Se l’uomo non lo cerca espressamente e intenzionalmente, non per questo egli si rende assente e irreperibile!
Preghiera - Attenti all’ortodossia delle nostre professioni di fede, pronti a vagliare con scrupolo le parole che rivolgiamo a Dio, disposti ad accrescere continuamente la conoscenza delle Sacre Scritture, noi restiamo sconcertati, Gesù, di fronte alla domanda che tu ci rivolgerai alla fine dei tempi e da cui dipenderà la nostra eternità.
Non ci chiederai conto, infatti, di quello che abbiamo detto o scritto, ma di quello che abbiamo fatto. E non potremo produrre a nostra difesa e a nostro vanto né i capitali ammucchiati in banca, né i tesori raggranellati in borsa, né le proprietà che figurano al catasto o i successi ottenuti con questa o quella attività.
Conteranno unicamente i gesti compiuti per sfamare e dissetare, per accogliere e vestire, per curare e sostenere. Sarà un triste e doloroso risveglio, Gesù, se ti saremo passati accanto senza neppure vederti, presi dai nostri affari, condotti dal giro vorticoso dei nostri interessi. Perché eri tu che avevi fame e sete, tu che eri straniero, infermo o prigioniero…

302 - LA TRAGICA POSSIBILITÀ DI FALLIRE TOTALMENTE

Per una pausa spirituale durante la XXXIIIª settimana

Nessuno vorrebbe fallire la propria vita. Il desiderio inscritto in ogni persona umana diventa più forte quando il contesto propone modelli di esistenza riusciti, che costituiscono uno stimolo a rimuovere la possibilità che il compimento non sia raggiungibile. Ad alimentare il desiderio contribuisce anche la reazione alla prospettiva minacciosa, quasi terroristica, che ha contraddistinto alcuni secoli della storia cristiana. In tal senso l’emancipazione dalla paura va di pari passo con l’addio all’inferno, la predicazione del quale aveva costituito uno dei mezzi più efficaci per ricordare ai credenti la necessità di obbedire a Dio. Va da sé che tale prospettiva implicava una concezione di Dio che accentuava la dimensione di lui come giudice e quindi pronto a punire chiunque non fosse stato fedele alla sua legge.
Quanto del desiderio di vendetta tesa a rimettere ordine nel mondo si celasse in questa concezione non sarebbe difficile dimostrare. Innegabile nella visione allusivamente evocata è la specularità tra visione di Dio e visione del destino dell’uomo. Va riconosciuto che il clima generale nel quale le due visioni si proponevano era connotato da un senso di totale dipendenza delle persone dai ‘potenti’, alla cui mercé la generalità degli individui si sentiva. Non va dimenticato che nella delineazione del concetto vulgato di Dio il dinamismo della proiezione ha agito (e agisce) in forma notevole. Del resto la teologia non è sempre l’ispiratrice della predicazione; si può anzi constatare che la predicazione, e con essa la catechesi, attinge molto più alla sensibilità diffusa che alle sottili distinzioni dei teologi. Queste vengono spesso considerate lontane dalla vita e quindi, alla fine, inutili per orientarla. Tuttavia la teologia ha contribuito notevolmente negli ultimi decenni a mostrare il limite di una concezione retributiva che poneva sullo stesso piano l’esito fausto e quello infausto dell’esistenza umana.
In tal senso la riflessione dotta ha aperto una via di uscita dalla paura. E far uscire dalla paura ha significato, per un verso, liberare gli umani dall’angoscia di essere in balìa di una potenza minacciosa e quindi da un opprimente senso di colpa; per un altro, far riscoprire il volto più genuino di Dio, quello presentato da Gesù, che coincide con la misericordia. Per quanto attiene al primo aspetto ha giocato, pur con i suoi limiti, un ruolo importante anche la critica alla religione proveniente dalla psicanalisi, che nei suoi vari orientamenti si è presentata sulla scena in termini quasi messianici: la liberazione dal senso di colpa, benché abbia portato a indebolire il senso del peccato, ha indiscutibilmente contribuito a pacificare le coscienze e a disporre a un rapporto più sereno anche con Dio. La riflessione teologica che si è lasciata provocare da questi stimoli e contestualmente da quelli provenienti da una lettura più attenta del messaggio biblico ha permesso che nella predicazione e nella catechesi si giungesse a proporre un’immagine meno oppressiva dell’esistenza cristiana e a concepire il destino ultimo degli umani anzitutto in termini di salvezza. Il nativo desiderio di vivere in levità connesso con il portato della teologia ha perciò gradualmente portato a mettere in discussione la possibilità di un fallimento totale dell’esistenza, ancor più se questo dovesse essere pensato come condanna definitiva. Questa infatti contraddirebbe sia la volontà salvifica di Dio sia il desiderio delle persone umane.
Ci si trova così di fronte al superamento della concezione agostiniana, secondo la quale l’umanità sarebbe massa damnata a causa del peccato di origine, e la salvezza sarebbe frutto di una grazia riservata a qualcuno, a indiscutibile discrezione di Dio. Il cambio di visione non poteva che portare il pensiero vulgato a negare l’esistenza dell’inferno o ad ammettere che, nel caso esso esistesse, sarebbe vuoto. La legittimazione di tale pensiero è stata trovata sia nella tradizione teologica antica, soprattutto nella dottrina della cosiddetta apocatastasi (attribuita a Origene, benché sull’esattezza dell’attribuzione siano state avanzate riserve; si tratta della dottrina secondo la quale alla fine tutte le creature, compresi i demoni, sarebbero reintegrati nella condizione originaria di bontà; la dottrina fu condannata nel sesto secolo) sia nella teologia di Hans Urs von Balthasar, la cui opera Sperare per tutti, nella divulgazione, è diventata esposizione delle ragioni della negazione dell’inferno.
Ovvio che un’accentuazione dell’esito salvifico del destino umano è conforme alla confessione di fede in Cristo Salvatore, e quindi, per dirla con Karl Rahner, escatologia della salvezza ed escatologia della condanna non stanno sullo stesso piano; farlo sarebbe dimenticare che il destino umano è disposto anzitutto da Dio Salvatore. Tuttavia, negare la possibilità che gli umani possano rifiutare la destinazione loro assegnata da Dio sarebbe considerare i medesimi umani come semplici recettori di un’azione salvifica che non mette in gioco la loro libertà. Va da sé che libertà umana e azione di Dio non possano essere poste allo stesso livello. Resta però indiscutibile che una salvezza che non coinvolgesse il soggetto umano non produrrebbe in lui alcuna trasformazione e quindi non potrebbe neppure essere detta salvezza.
Sulla scorta di tale considerazione, che mette in gioco la responsabilità degli umani, si deve mantenere la tragica possibilità di un fallimento dell’esistenza. Che poi tale possibilità si attui di fatto per pochi o per molti, nessuno può dirlo. In tal senso le visioni di alcuni che, in occasione di apparizioni mariane, si troverebbero davanti agli occhi un inferno stracolmo di peccatori, vanno lette più come frutto di un immaginario modellato da catechesi non totalmente genuine che non come conferma della dottrina cattolica. Va peraltro ricordato che gli interventi magisteri ali sull’inferno sono ridottissimi. Per di più si deve tenere conto che la Chiesa nella sua massima autorità può dichiarare beate e sante alcune persone, ma non è abilitata a dichiarare che alcune persone sono dannate. E ciò perché il compito della Chiesa è annunciare la salvezza.

sabato 12 novembre 2011

301 - I TALENTI RICEVUTI DAL SIGNORE, DA METTERE A FRUTTO! - 13 Novembre 2011 – Domenica XXXIIIª Tempo Ordinario

(Proverbi 31,10-31 1ª Tessalonicesi 5,1-6 Matteo 25,14-30)

La traccia sobria ed essenziale della parabola dei talenti lascia appena intravedere il profondo messaggio di Gesù circa la relazione da vivere da parte delle creature con il Signore della nostra esistenza. Sta qui l’efficacia inequivocabile della parabola interpretata da Matteo, da non ‘sciupare’ perciò in eccessive elaborazioni allegoriche! Nel tempo della Chiesa, che precede e prepara quello conclusivo, quando il Signore ritornerà, in questo tempo il Signore consegna ai suoi servi i suoi beni: subentrino a lui nell’utilizzarli e nel gestirli! E lo facciano con libertà, genialità, senza sentirsi costretti da direttive dettagliate: ciascuno secondo la sua capacità! A disposizione dei servi c’è molto tempo. Il padrone non ha fretta di chiedere conto del lavoro fatto. E quando ritorna, non gli importa quanto hanno guadagnato, egli apprezza il fatto che sono rimasti fedelmente legati a lui: riceveranno autorità su molto, e soprattutto, entreranno nella gioia del loro Signore.
Davvero sconcertanti perciò risultano il comportamento e le dichiarazioni del servo malvagio: non ha capito l’animo e le intenzioni del suo padrone, che agli occhi e all’animo di quel servo dovette risultare semplicemente un ‘datore di lavoro’, anzi uno che lo sfruttava! Perciò non soltanto deve ammettere che ha paura di lui, ma mostra di comprenderlo in stridente contrasto con la fiducia e la fede degli altri due suoi amici.
Ecco una delle mete dell’approdo alla fede: scoprire Dio magnanimo e vicino! Quando lo si considera lontano, infatti, si è tentati di pensarlo a propria misura, o anche semplicemente di dimenticarlo. Le strade che possono portare l’uomo a incontrarsi con Dio sono assai varie. Una loro caratteristica e costante è però quella di riconoscere che quanto si è e si possiede è tutto dono di Dio, da trafficare per lui e per il prossimo che egli ci fa incontrare.
Può anche accadere che qualcuno metta i suoi talenti a servizio del prossimo per soli motivi di coscienza e di coerenza interiore. Ebbene, prima o poi troverà quel Signore che gli aveva dato i talenti così bene trafficati. Gli dirà allora: ogni volta che operavi il bene a vantaggio dei miei fratelli più piccoli, lo consideravo già fatto per fedeltà a me (cfr. Mt 25,31-46).
Preghiera -Se ci affida tanti beni preziosi – questo mondo e le sue risorse, e tanti doni di intelligenza e di grazia – allora Dio, il padre tuo, ha veramente fiducia in noi. Non è affatto un padrone esoso, né uno sfruttatore esigente, ma piuttosto uno che fa appello alla nostra responsabilità, alla nostra inventiva, alla nostra operosità. Tanto è vero che, alla fine, invita ad entrare nella sua gioia e cosa può esserci di più desiderabile della pienezza che ci offre per l’eternità?
La ricchezza, però, che mette nelle nostre mani non è un regalo destinato solo a noi, a nostro esclusivo beneficio. Sotterrare la nostra fede, coprire la nostra speranza, mortificare la carità, significa in definitiva condannarle alla sterilità e vederle appassire. Si tratta di doni inestimabili, ma anche molto fragili, bisognosi di essere spesi nella vita quotidiana.
Ecco perché la tua parabola, Gesù, ha anche un finale amaro: è il destino di chi si è illuso di poter vivere di rendita, tirando i remi in barca.

300 - L’OLIO CHE NON SI PUÒ PRESTARE: LE DELEGHE IMPOSSIBILI

Per una pausa spirituale durante la XXXIIª settimana

Nella vita di ciascun uomo vi sono delle parole e delle azioni che non possono in alcun modo essere delegate. Gli altri possono sì aiutarci, ma mai sostituirsi a noi in quello che personalmente, e in modo responsabile, siamo chiamati a dire e realizzare.
La pagina evangelica delle vergini sagge e stolte ci presenta una di queste impossibili deleghe. Se l’olio – il combustibile per le lampade – già nel giudaismo, come nei Padri, è stato considerato come le buone/giuste azioni, ne consegue che, quando saremo dinanzi al Signore, ciascuno presenterà quanto compiuto. O, con altre parole, tutto ciò che la vita ci ha offerto per l’esercizio della nostra personale responsabilità, alla fine dei tempi ci verrà chiesto, con la tragedia che non avremo alcuna possibilità per colmare il vuoto che presentiamo, chiedendo ad altri un, ormai impossibile, aiuto. Siamo responsabili in prima persona di quanto detto o non detto, operato o non operato. Per questo, «nessuno deve appoggiarsi sulle opere e sui meriti altrui, perché è necessario che ognuno compri olio per la propria lampada» (Ireneo di Lione).
Ma quanto finora considerato per i singoli ha, al contempo, una valenza comunitaria, perché il numero dieci presente nella parabola dice l’interezza della comunità cristiana (cfr. 2 Cor 11,3). Vi sono, così, delle responsabilità prettamente ecclesiali – per questo non delegabili – che vanno assolte, delle quali ci verrà chiesto conto dal Signore, e nei riguardi delle quali risponderemo pienamente: l’annuncio evangelico, il dono eucaristico, l’amore vicendevole fino al perdono illimitato, la testimonianza trasparente del Dio di Gesù Cristo. Sono, questi, soltanto alcuni ambiti essenziali della vita e dell’azione della Chiesa che esigono la sua piena assunzione di responsabilità nell’attesa che lo Sposo ritorni. Ambiti che ricordano come la Chiesa è in funzione del suo Signore e del Regno e che nella sua vita, nel frattempo storico assegnatole, deve annunciare agli altri uomini e donne l’Evangelo liberante di Gesù.
La prudenza delle cinque vergini, poi, significa vivere sempre preparati alla Parusia, essere cioè vigilanti/pronti durante l’attesa. E anche questo non è delegabile, memori sempre della parola di Gesù: «due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato» (Mt 24,40), perché non si può vigilare/essere pronti al posto di un altro. Ovvero, se la vigilanza/prontezza è l’attesa gioiosa e amante del Signore che viene, proprio queste caratteristiche non possono essere inoculate nel profondo del cuore di un’altra persona. O si ama o non si ama lo Sposo. Pertanto, la delega impossibile consiste proprio nel trovarsi pronti alla venuta del Signore Gesù, rispetto a chi non lo sarà.
La vigilanza dice, inoltre, la fedeltà che deve caratterizzare il discepolo nell’adempimento del dono della fede cristiana ricevuta nel Battesimo, nella vocazione alla quale il Signore ci ha chiamati, nel luogo e con le persone con le quali Egli vuole che ci santifichiamo. Ed anche questa vigilanza non può essere delegata e si manifesta sempre più come atto responsabile del credente che aspetta il ritorno del Signore in atteggiamento di profonda fede nella sua promessa e nella consequenziale fedeltà all’oggi di Dio che è il tempo quotidiano.
Olio che non si può prestare è, ancora, tutto il tempo vissuto nell’ascolto del Signore e nello stare alla sua presenza. Non si può delegare ad altri quanto è responsabilità di ciascuno. Non vi sono persone e luoghi deputati a questo. È l’interezza della compagine ecclesiale che deve avvertire l’impellenza di una vita vissuta nel e col Signore. Per questo la tradizione cristiana ha sempre raccomandato l’esigenza di nutrire e custodire la vita spirituale, personale ed ecclesiale.
Tutte queste impossibili deleghe non potranno mai spegnere però il grido che sempre si alzerà a Dio da parte della comunità ecclesiale: che sia misericordioso verso tutti gli uomini e le donne e ci renda tutti commensali del banchetto eterno.

sabato 5 novembre 2011

299 - LE VERGINI SAGGE E LE VERGINI STOLTE - 06 Novembre 2011 – Domenica XXXIIª Tempo Ordinario

(Sapienza 6,12-16 1ª Tessalonicesi 4,13-18 Matteo 25,1-13)

La vigilanza dice la fedeltà che deve contrassegnare il cristiano nel suo vivere secondo lo stato, gli impegni e le relazioni a cui è quotidianamente chiamato. E questa vigilanza, che si manifesta come agire responsabile del credente, non può essere delegata ad altri. Essa esprime il grado di maturità della nostra fede e nutre la vita spirituale, l’impegno personale ed ecclesiale.
La parabola delle vergini sagge e di quelle stolte è stata per secoli tema d’interpretazione artistica nelle cattedrali e nelle chiese. Raccolti idealmente in una serie ben ordinata di sculture, affreschi e vetrate, questi prodotti dell’arte e della fede costituirebbero una galleria di messaggi spirituali e culturali ancora di grande attualità. È, infatti, sempre un’esigenza dello spirito umano motivare l’esistenza con scelte concrete e con la speranza. Assai eloquente è la risposta del Signore alle ragazze stolte, arrivate tardi all’appuntamento fissato: Non vi conosco!
Che questa scena costituisca la nota più drammatica dell’ultimo episodio della storia umana – quello del giudizio finale – trova una conferma in un testo parallelo che Matteo colloca a conclusione del Discorso della montagna. Val la pena di ascoltarlo integralmente da Matteo 7,21-23: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”».
Non si tratta dunque più di ‘vergini stolte’, ma di persone che «in quel giorno» riterranno sufficiente produrre titoli personali di benemerenze qualificate, attuate «nel tuo nome» (ossia in quello del Signore): Matteo lo evidenzia tre volte, al v. 22! E al v. 13, conclusivo della nostra parabola, l’appello del Signore viene formulato con un comando, a cui si fa seguire la motivazione: non si sa né il giorno né l’ora! Pertanto: Vegliate!
A conclusione di un’esistenza male impostata la voce dall’interno aggiunge al «non vi conosco» delle vergini stolte un comando: “Via da me, operatori di iniquità!”di chi si accontenta di dire: “Signore,Signore”! L’inerzia, il vuoto d’impegno nel vivere la propria presenza nella società, il sottrarsi alle personali responsabilità verso il prossimo e verso Dio non fanno di un uomo o di una donna soltanto degli esseri inutili e insipienti, bensì pure degli operatori di male! Nessuno è a questo mondo soltanto per se stesso. Il bene evitato, il vuoto non occupato, l’omissione di un contributo personale alla crescita comune... è già stoltezza e fallimento spirituale!
Preghiera - La nostra esistenza, Gesù, è percorsa da un’attesa perché ognuno di noi ha un appuntamento decisivo e non ne conosce né il giorno né l’ora. Ecco perché le nostre lampade devono rimanere accese: per non giungere impreparati a quell’incontro da cui dipende la nostra sorte eterna.
La nostra esistenza, Gesù, esige che teniamo gli occhi bene aperti perché sono tanti gli incontri che tu ci riservi per sostenerci lungo il cammino. Ecco perché non deve venir meno quest’olio prezioso che ci permette di rimanere desti e pronti.
È l’olio della fede che ci fa discernere la tua presenza in mezzo a noi. È l’olio della speranza che ci consente di affrontare serenamente gli ostacoli e le difficoltà. È l’olio profumato della carità che fa fiorire in noi mille gesti e parole di fraternità e di misericordia, di pace e di giustizia.

venerdì 4 novembre 2011

298 - QUANDO LE GUIDE ED I MAESTRI NELLA CHIESA DANNO SCANDALO

Per una pausa spirituale durante la XXXIª settimana (SECONDA PARTE)

In realtà la comunità dei credenti in Gesù di Nazaret non ha, non deve avere né guide né modelli, almeno nel senso assoluto/sacralizzato. Si potrebbe anzi dire che il primo e fondamentale scandalo sia questo: un eccesso di mediazione religiosa molto visibile, molto pesante, non solo istituzionalizzata ma sacralizzata, può solo appannare l’unicità della mediazione di Gesù, il suo essere modello per chi crede in lui, l’impegno della sequela fedele e creativa. (Non «fedele e tuttavia creativa»; ma «fedele proprio in quanto creativa»).
È scandaloso, cioè fuorviante e diseducativo – e non unicamente imputabile ai mezzi di comunicazione, sempre un po’ malati di estrinsecismo –, il fatto che la visibilità della Chiesa istituzionale risulti dominante rispetto al fatto cristiano, che dicendo Chiesa d’istinto si pensi al papa e a una gerarchia piramidale prima che a Cristo e al suo Vangelo. In questo senso il Papa, qualunque Papa, potrebbe essere di scandalo, anche qualora fosse personalmente irreprensibile; di scandalo per i credenti e per i non credenti, indotti a una visione deformata dell’essere cristiani.
Al sentir parlare di scandalo offerto da «guide e maestri» nella Chiesa, molti oggi sono indotti in modo quasi automatico a pensare a tristi fatti recenti avidamente amplificati dai mezzi di comunicazione, soprattutto gli episodi di pedofilia da parte di membri del clero. Benché si tratti di episodi gravi e dolorosi, che richiedono una riflessione più profonda e un esame di coscienza da parte di tutte le componenti della Chiesa, oseremmo dire che lo scandalo più specifico e preoccupante non è questo: individui psichicamente labili o corrotti o disonesti si trovano in ogni ambito, come pure altri individui che avrebbero il dovere di vigilare sul loro operato e, per amicizia o per altri motivi, coprono le loro colpe incorrendo così in una sorta di complicità più o meno diretta.
Coloro che nella Chiesa hanno potere a qualunque titolo danno scandalo quando antepongono se stessi all’Evangelo e al bene degli esseri umani: quando affermano di porre al centro l’uomo e la sua dignità, mentre in effetti al centro si trova solo la preoccupazione di riaffermare quanto si è sempre affermato, anche se ormai giustamente percepito da molti come non più sostenibile, di mantenere il più possibile un dominio ecclesiastico sulle coscienze che per lungo tempo è stato confuso con l’autentico vivere cristiano.
Danno scandalo quando impongono o tentano di imporre fardelli troppo pesanti, come dice Gesù, sulle spalle dei fedeli. Danno scandalo – cioè sono di ostacolo alla crescita nella fede – perché, rendendo difficile e quasi anti-umana la fedeltà ai princìpi cristiani, aprono di fatto la strada alla disaffezione e all’abbandono, ma soprattutto perché inducono a formarsi un’immagine deformata e terribile di Dio: non più il Dio di Gesù di Nazaret, ma una specie di divinità astratta e irragionevole, gelosa della felicità dei suoi figli e/o indifferente alla loro sofferenza.
Danno scandalo perché contenuti e stile di certi discorsi ecclesiastici non rendono affatto l’idea di un «lieto annuncio» cristiano, non aiutano nessuno a sentire la fede come novità e liberazione. Danno scandalo quando riducono la fede cristiana a una specie di religione civile (non a caso assai gradita a tanti atei conservatori!) e inducono la gente – dentro la Chiesa e fuori – a identificarla con un misto di ordine, perbenismo, assenza di senso critico, diffidenza di ogni ‘diverso’ e di ogni ‘nuovo’, mentre la logica del vangelo diventa un optional, se non un’anomalia, tanto rispettata a parole quanto di fatto ininfluente. Danno scandalo quando mostrano una non disinteressata apertura verso le correnti più retrive, insieme a un’intollerante severità verso quelle più avanzate. Danno scandalo, infine, quando nel loro agire, nelle loro esortazioni, nelle loro intenzioni manca la trasparenza: cioè quella che i vangeli chiamano la purezza di cuore, e il cui contrario è appunto l’ipocrisia.
L’aspetto più inquietante per noi è che Gesù, nello stesso cap. 23 (vv. 25-26), chiama ‘ciechi’ gli ipocriti, che a forza di ingannare gli altri finiscono con l’ingannare se stessi e non veder più il proprio stato, confondendo le tenebre con la luce. È una cecità particolarmente grave quando si manifesta in coloro che dovrebbero essere e sono considerati le guide spirituali del popolo di Dio. In effetti il peccato di ipocrisia in ogni tempo insidia soprattutto le persone religiose, oggi come al tempo di Gesù. Una potente spinta all’ipocrisia può venire dal ruolo che si ricopre, talvolta dissimulata dinanzi alla propria coscienza con l’imperativo del buon esempio, di non dare scandalo: si potrebbe quasi parlare di una meta-ipocrisia.

297 - QUANDO LE GUIDE ED I MAESTRI NELLA CHIESA DANNO SCANDALO

Per una pausa spirituale durante la XXXIª settimana (PRIMA PARTE)

Lo scandalo è l’idea al centro del vangelo di domenica 30 ottobre – che è certo la pagina più dura del vangelo di Matteo, forse la più dura di tutti i vangeli.
Che cosa è lo scandalo nella Scrittura, lo sappiamo: è l’inciampo, ciò che ostacola il cammino di un altro – il cammino di fede, in questo caso; indistinguibile per noi dal cammino di crescita e di autenticità personale. Si sa però anche come l’idea di scandalo, attraverso i secoli, perdendo la sua iniziale connotazione biblico-teologica e assumendo una connotazione esclusivamente morale (anzi moralistica, nel senso deteriore), abbia conosciuto un processo di imborghesimento e banalizzazione davvero impressionante. È diventata in sostanza funzionale allo status quo e ha fatto identificare l’essere cristiani con una specie di benintenzionato perbenismo, conformista e conservatore, inducendo a perdere di vista la grande, scomoda novità dell’evangelo e la sua carica di appello. Così oggi si parla di scandalo, nella Chiesa come nella società civile, quasi solo in riferimento a fatti di sesso o di denaro, o di entrambi. Benché questi fatti possano avere in effetti una portata di scandalo – perché non solo esercitano un effetto diseducante sugli spiriti più fragili, ma corrodono la spontanea fiducia negli altri che è tanto necessaria alla vita sociale –, la fede e l’essere cristiani in genere risentono in modo più grave di altre forme di scandalo: forme tanto più insidiose quanto meno avvertite e pensate come scandalo.
Così misericordioso e accogliente verso i peccatori e gli irregolari, Gesù sembra talvolta durissimo verso gli ‘irreprensibili’ a cui gli altri guardano come modelli e che hanno una funzione di guida nella vita religiosa; in questo stesso cap. 23 di Matteo, poco più avanti, si trova una serie di invettive nei confronti degli «scribi e farisei ipocriti», che colpiscono per la loro violenza. Il nostro stile espressivo è diverso, anche a prescindere dalle idee; oggi chi si esprimesse in modo simile sarebbe subito accusato di poca carità o di poca prudenza, forse anche di poca civiltà… E tuttavia sappiamo pure che da parte di Gesù la tenerezza di certi momenti come la durezza di altri manifestano amore e coinvolgimento senza fine, così come l’atteggiamento sfuggente ed enigmatico di certi altri momenti, che ha una particolare carica di appello.
Gesù mette in guardia i suoi discepoli e le folle da coloro che si atteggiano a guide e modelli e operano in senso contrario rispetto a ciò che vorrebbero rappresentare. In senso contrario, perché? Facile sarebbe rispondere «perché si comportano male», insomma perché trasgrediscono in privato la Legge che pubblicamente glorificano e tutelano con strati di proibizioni e di interpretazioni. Ma ciò non è sempre vero. Alcuni di quelli contro cui Gesù si scaglia erano effettivamente irreprensibili quanto al ‘fare’, non però quanto allo spirito.
La Legge in Israele è vivente presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perciò pecca contro la Legge non solo e non tanto chi viola uno dei precetti della Legge, ma anche chi la riduce alla materialità dei suoi precetti; pecca contro la Legge chi rende troppo difficile avvertire in essa la presenza, l’amore, l’attenzione costante di Dio – magari perché ne rende troppo gravosa e angosciosa l’osservanza, perché usa la Legge per imporre la presenza e l’influenza propria. Perciò lo scandalo è tanto più grave e tanto più insidioso e doloroso quando proviene da coloro che hanno la funzione riconosciuta di guide e responsabili, di maestri, di ‘modelli’.

sabato 29 ottobre 2011

296 - CHI TRA VOI È PIÙ GRANDE, SARÀ VOSTRO SERVO

30 Ottobre 2011 – Domenica XXXIª Tempo Ordinario
(Malachia 1,14-2,1-2.8-10 1ª Tessalonicesi2,7-9.13 Matteo 23,1-12)

Poiché Dio è unico e padre di tutti, nella comunità cristiana e nel rapporto con tutti gli uomini il vangelo cristiano indica l’ideale della fraternità: un ideale a cui tendere e mai raggiungibile in forma piena su questa terra. Ma da tradurre in gesti concreti, il cui spirito è decisamente individuato nel ‘servizio’, nella disponibilità.
Attraverso l’interpretazione attualizzante di Matteo, Gesù parla anche alla Chiesa d’oggi. Matteo scrive infatti non tanto da cronista e storico del passato, in vista di ricostruire l’identità precisa di coloro ai quali Gesù si riferiva, quanto per istruire i suoi uditori e lettori, noi che ascoltiamo il Signore attraverso il suo vangelo, segnalando un rischio sempre attuale e possibile: quello di far da guide agli altri, senza poi vivere in coerenza con quanto insegnato. Nelle parole di Gesù risuona la denuncia di una triplice ipocrisia, quale insidia per chi esercita ruoli responsabili nei confronti di altri: *mostrarsi rigidi nel chiedere a tutti l’osservanza di norme morali, salvo poi essere indulgenti e permissivi con se stessi; *ambire riconoscimenti e stima immeritata da parte della gente, senza preoccuparsi di risultare effettivamente ciò che i fedeli si attendono o cercano; *passare per rabbì, maestri qualificati e considerati tali da tutti, mentre non si è di fatto tali! Dicono e non fanno! Le varianti alla triplice forma di ipocrisia possono essere molteplici. Una verifica e un esame di coscienza quindi da non eludere, quando si viva la responsabilità nei confronti di altri: in famiglia, negli ambienti di formazione religiosa e civile; e anche quando si occupi qualche ‘cattedra’ di direzione della comunità politica.
In alternativa a ciò che veniva denunciato come negativo nei responsabili dell’ebraismo di quel tempo, già si intravede l’identità del gruppo dei discepoli, che nasceva alla scuola di Gesù. Ma il secondo brano indica anche più esplicitamente come si articolano le relazioni fra i seguaci di Gesù. Vi si può nuovamente trovare una triplice direttiva (vv. 8-12): maestro e guida è (e resta unico per tutti) Gesù Cristo Signore: rispetto a lui si è sempre discepoli! Padre, a cui far costante riferimento filiale e fiducioso, è Dio, il Padre che sta nei cieli. Nella comunità cristiana, e verso tutti gli uomini, si è dunque chiamati a rapporti di fraternità! Anzi, il più grande tra voi sia vostro servo! È evidente quanto speculare ed alternativa sia questa semplice carta d’identità di chi presiede servendo una comunità cristiana, rispetto a quella di coloro che erano allora assisi «sulla cattedra di Mosè».
Sulla cattedra dunque di Gesù Maestro e Signore non sono previsti successori! Si può essere chiamati talvolta a ripetere qualche sua lezione, ma episodicamente, dopo averla ascoltata attentamente; e per dirla agli altri ‘condiscepoli’ e fratelli con l’accento discreto di una testimonianza vissuta e convinta. Sta qui l’identità di chiunque presta servizio al Vangelo nella comunità cristiana: genitori, catechisti, teologi, predicatori della Parola da ogni pulpito, anche da quello semplice e ‘dialogico’ che a volte ha per interlocutore uno non ancora (o non più) credente in Dio e nel Vangelo.
La sentenza sapienziale con cui si chiude il testo evangelico odierno – chi s’innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato – ci fa raggiungere idealmente il luogo di nascita del cristianesimo, Nazaret! A commento di quanto era cominciato nella sua vita spirituale, Maria di Nazaret aveva cantato che (Dio) rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili; ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Effettivamente il Vangelo era cominciato così a Nazaret! E la comunità cristiana rinasce ogni volta che parte nuovamente di là.
Preghiera - Sono parole dure, Gesù, quelle che rivolgi agli scribi e ai farisei, parole che lasciano il segno perché portano alla luce comportamenti in contrasto con un rapporto autentico verso Dio.
Il campionario da te descritto va dalla voglia di esibirsi per ricevere il plauso e la stima degli uomini all’illusione di poter sottrarsi agli obblighi dell’alleanza, dalle piccole manie rituali, indizi evidenti di nevrosi, al rigorismo di certi giudizi che non combaciano poi con l’impegno e le scelte personali.
C’è un po’ di tutto, Gesù: un insieme di debolezze, di piccinerie, di ingenuità, che rivelano però un rischio notevole. Sì, perché dietro la voglia di apparire si cela la pretesa di sottrarsi alla legge di Dio, dietro la smania di titoli altisonanti il bisogno segreto di prendere il posto dell’unico Padre e dell’unico Maestro.
A questo punto il gioco si fa veramente pericoloso, tanto da pregiudicare ogni relazione con Dio.

295 - PERCHÉ L’AMORE DEL PROSSIMO È IL SECONDO COMANDAMENTO

Per una pausa spirituale durante la XXXª settimana

La domanda che costituisce il titolo di questa riflessione si riferisce al fatto che Marco e Matteo parlano del comando di amare Dio come ‘primo’ comandamento (Mc 12,29; Mt 22,38) e di quello di amare il prossimo come del ‘secondo’ (Mc 12,31; Mt 22,38). In Luca non si trova più alcuna menzione di primo e secondo: questo ordine dei comandi scompare e i due sono pienamente unificati (Lc 10,27). Ma, più radicalmente, il carattere ‘secondo’ del comando di amare il prossimo è anzitutto connesso al suo stesso essere un comandamento. E in questo esso è in compagnia del comandamento di amare Dio. Il comandamento dice la priorità di Colui che lo formula e lo dona. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’uomo di adempierlo. «Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio».
Il comandamento poi non è solo ‘ordine’, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice ‘tu devi’, ma dice anche e prioritariamente ‘tu puoi’. Anzi, si basa sul ‘tu puoi’. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: ‘Tu amerai’ (agapḗseis). Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente.
L’amore quindi, sia per Dio che per il prossimo, è ‘secondo’ perché suppone l’attivazione della capacità di ascolto e, attraverso l’ascolto, la fede. Per Marco il primo comandamento è costituito dalle parole iniziali della quotidiana confessione di fede che è lo shemah: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore; tu amerai il Signore…» (Mc 12,29). E l’ascolto dello shemah è ascolto di una parola con cui Dio convoca tutte le facoltà dell’uomo a impegnarsi nell’amore per Dio: cuore, anima, mente (Matteo); cuore, anima, mente, forza (Marco). In questa totalità della persona umana invitata ad amare Dio vi è già implicato l’invito ad amare l’uomo. L’uomo, infatti, è relazione con l’altro, è essere sociale: egli non è senza l’altro. E amare con tutte le fibre del proprio essere non può che implicare anche l’amore per ogni essere creato a immagine e somiglianza di Dio.
La priorità del comando di amare Dio rispetto all’amare il prossimo sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dell’essere spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità ‘io-tu’, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è ‘prossimo’, quali che siano le sue condizioni culturali, etniche, di genere, sociali, economiche…), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo.
Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è ben visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante.
Il rapporto tra primo e secondo comandamento trova pertanto una bella definizione sintetica in Matteo: «Il secondo è simile al primo» (cfr. Mt 22,39). Fra i due comandamenti vi è una reciprocità come in uno specchio. L’amore per il prossimo è specchio dell’amore per Dio. Vi è consustanzialità tra i due. Dirà molto bene Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L’amore per il prossimo, in dipendenza dall’amore per Dio con tutto se stesso, implica un lavoro di decentramento da sé che conduce ad amare anche colui che agli occhi umani è un nemico, ma agli occhi di Dio resta una creatura a sua immagine e somiglianza, un suo figlio, un mio fratello. Così, l’amore del prossimo diviene narrazione sacramentale dell’amore di Dio per l’uomo e testimonianza dell’amore umano per Dio.
Ma qui cogliamo l’ultimo e decisivo punto della nostra riflessione. Ovvero, la sua dimensione cristologica. L’ordine dei comandi, il loro essere primo e secondo, e l’essere il secondo specchio del primo, simile ad esso, è in bocca a Gesù che i comandamenti non si limita a formularli ma li vive in prima persona. L’umanità di Gesù narra l’ordine dell’amore: sapendosi amato dal Padre («Il Padre ama il Figlio»: Gv 3,35; «Il Padre mi ama»: Gv 10,17), Gesù ama il Padre, l’Abbà («Io amo il Padre»: Gv 14,31) e ama i suoi, il suo prossimo fino a dare la vita per loro («Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine»: Gv 13,1). E l’amore per i suoi, illuminato dall’amore per Dio, diviene anche amore per il nemico. Amore effettivo e concreto anche per Giuda, davanti a cui Gesù si inchina per lavargli i piedi facendo il gesto dell’amore e del servizio per colui che sta per alzare il calcagno contro di lui con il tradimento (Sal 41,10; Gv 13,18). L’amore del prossimo illuminato dall’amore di Dio e per Dio diviene per il credente scelta di amare incondizionatamente, di amare anche chi non è amabile, di amare anche chi lo odia. Diviene, in Cristo, un atto di indicibile libertà in cui, amando l’altro, il credente può amare Dio con tutta l’anima, ovvero, fino al punto in cui gli viene strappata l’anima, tolta la vita.