Per una pausa spirituale durante la XXXª settimana
La domanda che costituisce il titolo di questa riflessione si riferisce al fatto che Marco e Matteo parlano del comando di amare Dio come ‘primo’ comandamento (Mc 12,29; Mt 22,38) e di quello di amare il prossimo come del ‘secondo’ (Mc 12,31; Mt 22,38). In Luca non si trova più alcuna menzione di primo e secondo: questo ordine dei comandi scompare e i due sono pienamente unificati (Lc 10,27). Ma, più radicalmente, il carattere ‘secondo’ del comando di amare il prossimo è anzitutto connesso al suo stesso essere un comandamento. E in questo esso è in compagnia del comandamento di amare Dio. Il comandamento dice la priorità di Colui che lo formula e lo dona. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’uomo di adempierlo. «Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio».
Il comandamento poi non è solo ‘ordine’, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice ‘tu devi’, ma dice anche e prioritariamente ‘tu puoi’. Anzi, si basa sul ‘tu puoi’. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: ‘Tu amerai’ (agapḗseis). Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente.
L’amore quindi, sia per Dio che per il prossimo, è ‘secondo’ perché suppone l’attivazione della capacità di ascolto e, attraverso l’ascolto, la fede. Per Marco il primo comandamento è costituito dalle parole iniziali della quotidiana confessione di fede che è lo shemah: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore; tu amerai il Signore…» (Mc 12,29). E l’ascolto dello shemah è ascolto di una parola con cui Dio convoca tutte le facoltà dell’uomo a impegnarsi nell’amore per Dio: cuore, anima, mente (Matteo); cuore, anima, mente, forza (Marco). In questa totalità della persona umana invitata ad amare Dio vi è già implicato l’invito ad amare l’uomo. L’uomo, infatti, è relazione con l’altro, è essere sociale: egli non è senza l’altro. E amare con tutte le fibre del proprio essere non può che implicare anche l’amore per ogni essere creato a immagine e somiglianza di Dio.
La priorità del comando di amare Dio rispetto all’amare il prossimo sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dell’essere spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità ‘io-tu’, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è ‘prossimo’, quali che siano le sue condizioni culturali, etniche, di genere, sociali, economiche…), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo.
Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è ben visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante.
Il rapporto tra primo e secondo comandamento trova pertanto una bella definizione sintetica in Matteo: «Il secondo è simile al primo» (cfr. Mt 22,39). Fra i due comandamenti vi è una reciprocità come in uno specchio. L’amore per il prossimo è specchio dell’amore per Dio. Vi è consustanzialità tra i due. Dirà molto bene Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L’amore per il prossimo, in dipendenza dall’amore per Dio con tutto se stesso, implica un lavoro di decentramento da sé che conduce ad amare anche colui che agli occhi umani è un nemico, ma agli occhi di Dio resta una creatura a sua immagine e somiglianza, un suo figlio, un mio fratello. Così, l’amore del prossimo diviene narrazione sacramentale dell’amore di Dio per l’uomo e testimonianza dell’amore umano per Dio.
Ma qui cogliamo l’ultimo e decisivo punto della nostra riflessione. Ovvero, la sua dimensione cristologica. L’ordine dei comandi, il loro essere primo e secondo, e l’essere il secondo specchio del primo, simile ad esso, è in bocca a Gesù che i comandamenti non si limita a formularli ma li vive in prima persona. L’umanità di Gesù narra l’ordine dell’amore: sapendosi amato dal Padre («Il Padre ama il Figlio»: Gv 3,35; «Il Padre mi ama»: Gv 10,17), Gesù ama il Padre, l’Abbà («Io amo il Padre»: Gv 14,31) e ama i suoi, il suo prossimo fino a dare la vita per loro («Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine»: Gv 13,1). E l’amore per i suoi, illuminato dall’amore per Dio, diviene anche amore per il nemico. Amore effettivo e concreto anche per Giuda, davanti a cui Gesù si inchina per lavargli i piedi facendo il gesto dell’amore e del servizio per colui che sta per alzare il calcagno contro di lui con il tradimento (Sal 41,10; Gv 13,18). L’amore del prossimo illuminato dall’amore di Dio e per Dio diviene per il credente scelta di amare incondizionatamente, di amare anche chi non è amabile, di amare anche chi lo odia. Diviene, in Cristo, un atto di indicibile libertà in cui, amando l’altro, il credente può amare Dio con tutta l’anima, ovvero, fino al punto in cui gli viene strappata l’anima, tolta la vita.
La domanda che costituisce il titolo di questa riflessione si riferisce al fatto che Marco e Matteo parlano del comando di amare Dio come ‘primo’ comandamento (Mc 12,29; Mt 22,38) e di quello di amare il prossimo come del ‘secondo’ (Mc 12,31; Mt 22,38). In Luca non si trova più alcuna menzione di primo e secondo: questo ordine dei comandi scompare e i due sono pienamente unificati (Lc 10,27). Ma, più radicalmente, il carattere ‘secondo’ del comando di amare il prossimo è anzitutto connesso al suo stesso essere un comandamento. E in questo esso è in compagnia del comandamento di amare Dio. Il comandamento dice la priorità di Colui che lo formula e lo dona. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’uomo di adempierlo. «Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio».
Il comandamento poi non è solo ‘ordine’, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice ‘tu devi’, ma dice anche e prioritariamente ‘tu puoi’. Anzi, si basa sul ‘tu puoi’. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: ‘Tu amerai’ (agapḗseis). Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente.
L’amore quindi, sia per Dio che per il prossimo, è ‘secondo’ perché suppone l’attivazione della capacità di ascolto e, attraverso l’ascolto, la fede. Per Marco il primo comandamento è costituito dalle parole iniziali della quotidiana confessione di fede che è lo shemah: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore; tu amerai il Signore…» (Mc 12,29). E l’ascolto dello shemah è ascolto di una parola con cui Dio convoca tutte le facoltà dell’uomo a impegnarsi nell’amore per Dio: cuore, anima, mente (Matteo); cuore, anima, mente, forza (Marco). In questa totalità della persona umana invitata ad amare Dio vi è già implicato l’invito ad amare l’uomo. L’uomo, infatti, è relazione con l’altro, è essere sociale: egli non è senza l’altro. E amare con tutte le fibre del proprio essere non può che implicare anche l’amore per ogni essere creato a immagine e somiglianza di Dio.
La priorità del comando di amare Dio rispetto all’amare il prossimo sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dell’essere spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità ‘io-tu’, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è ‘prossimo’, quali che siano le sue condizioni culturali, etniche, di genere, sociali, economiche…), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo.
Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è ben visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante.
Il rapporto tra primo e secondo comandamento trova pertanto una bella definizione sintetica in Matteo: «Il secondo è simile al primo» (cfr. Mt 22,39). Fra i due comandamenti vi è una reciprocità come in uno specchio. L’amore per il prossimo è specchio dell’amore per Dio. Vi è consustanzialità tra i due. Dirà molto bene Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L’amore per il prossimo, in dipendenza dall’amore per Dio con tutto se stesso, implica un lavoro di decentramento da sé che conduce ad amare anche colui che agli occhi umani è un nemico, ma agli occhi di Dio resta una creatura a sua immagine e somiglianza, un suo figlio, un mio fratello. Così, l’amore del prossimo diviene narrazione sacramentale dell’amore di Dio per l’uomo e testimonianza dell’amore umano per Dio.
Ma qui cogliamo l’ultimo e decisivo punto della nostra riflessione. Ovvero, la sua dimensione cristologica. L’ordine dei comandi, il loro essere primo e secondo, e l’essere il secondo specchio del primo, simile ad esso, è in bocca a Gesù che i comandamenti non si limita a formularli ma li vive in prima persona. L’umanità di Gesù narra l’ordine dell’amore: sapendosi amato dal Padre («Il Padre ama il Figlio»: Gv 3,35; «Il Padre mi ama»: Gv 10,17), Gesù ama il Padre, l’Abbà («Io amo il Padre»: Gv 14,31) e ama i suoi, il suo prossimo fino a dare la vita per loro («Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine»: Gv 13,1). E l’amore per i suoi, illuminato dall’amore per Dio, diviene anche amore per il nemico. Amore effettivo e concreto anche per Giuda, davanti a cui Gesù si inchina per lavargli i piedi facendo il gesto dell’amore e del servizio per colui che sta per alzare il calcagno contro di lui con il tradimento (Sal 41,10; Gv 13,18). L’amore del prossimo illuminato dall’amore di Dio e per Dio diviene per il credente scelta di amare incondizionatamente, di amare anche chi non è amabile, di amare anche chi lo odia. Diviene, in Cristo, un atto di indicibile libertà in cui, amando l’altro, il credente può amare Dio con tutta l’anima, ovvero, fino al punto in cui gli viene strappata l’anima, tolta la vita.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.