Secondo giorno: “Avremo noi l’eredità”
La risposta alla nostra domanda è certamente difficile. Possiamo lasciarci istruire da quell’affermazione dei servi che intendono uccidere il figlio del padrone della vigna: «Su, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità» (Matteo 21,38). Mediante l’immagine della vigna, l’insegnamento di Gesù, in continuità con quello del profeta Isaia, ci dice la connessione intima di due verità: Dio si prende cura del suo popolo e il popolo deve corrispondere a questo amore di Dio con una vita buona e giusta.
La cura che Dio ha per noi esige che ciascuno di noi produca frutti di giustizia e di bene. Questo nesso è ben esplicitato nel vangelo di Giovanni: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto (…). Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me (…) senza di me non potete far nulla» (Giovanni 15,1-5). Dunque, secondo la metafora così efficacemente illustrata da Gesù, la condizione indispensabile per produrre frutti è riconoscere il Padre ed essere uniti a Gesù, innestati in Lui e rimanere sempre in Lui. Solo in questo modo la linfa vitale che è in Gesù scorrerà anche in noi, e noi diventiamo fecondi di buone opere.
I servi della vigna hanno deciso di uccidere il figlio del padrone della vigna per prendere l’eredità: «avremo noi l’eredità». E quindi vogliono diventare padroni della vigna: l’uccisione del figlio comporta dunque l’eliminazione del padre. Solo così possono avere veramente l’eredità e diventare quindi padroni della vigna. Ma in questo modo la vigna produrrà ancora frutti buoni?
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)
La risposta alla nostra domanda è certamente difficile. Possiamo lasciarci istruire da quell’affermazione dei servi che intendono uccidere il figlio del padrone della vigna: «Su, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità» (Matteo 21,38). Mediante l’immagine della vigna, l’insegnamento di Gesù, in continuità con quello del profeta Isaia, ci dice la connessione intima di due verità: Dio si prende cura del suo popolo e il popolo deve corrispondere a questo amore di Dio con una vita buona e giusta.
La cura che Dio ha per noi esige che ciascuno di noi produca frutti di giustizia e di bene. Questo nesso è ben esplicitato nel vangelo di Giovanni: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto (…). Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me (…) senza di me non potete far nulla» (Giovanni 15,1-5). Dunque, secondo la metafora così efficacemente illustrata da Gesù, la condizione indispensabile per produrre frutti è riconoscere il Padre ed essere uniti a Gesù, innestati in Lui e rimanere sempre in Lui. Solo in questo modo la linfa vitale che è in Gesù scorrerà anche in noi, e noi diventiamo fecondi di buone opere.
I servi della vigna hanno deciso di uccidere il figlio del padrone della vigna per prendere l’eredità: «avremo noi l’eredità». E quindi vogliono diventare padroni della vigna: l’uccisione del figlio comporta dunque l’eliminazione del padre. Solo così possono avere veramente l’eredità e diventare quindi padroni della vigna. Ma in questo modo la vigna produrrà ancora frutti buoni?
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)
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