sabato 1 ottobre 2011

281 - PERCHÉ PUÒ CAPITARE CHE I GIUSTI NON SIANO APERTI ALLA CONVERSIONE?

Per una pausa spirituale durante la XXVIª settimana

Se si osservano attentamente le dinamiche che contrassegnano il processo della conversione cristiana, ci si accorge che sovente le maggiori resistenze alla stessa conversione vengono da persone – preti, frati, suore e laici – che si ritengono giusti.
Attenzione! Raramente un uomo o una donna di Chiesa affermerà nei riguardi di se stesso di essere giusto. Quasi sempre, invece, professerà con estremo candore e anche pubblicamente di essere peccatore. Ma non bisogna credere troppo a queste affermazioni. Ad una semplice domanda che intende verificarle, ci si accorge che la persona intervistata – prima assolutamente convinta dei propri peccati – prova difficoltà ad identificarli o si rifugia in considerazioni assolutamente generiche e poco personali. Ci si trova davanti ad uno di quei classici casi di retorica ecclesiastica, che non solo non rende ragione della verità delle cose, ma risulta assolutamente nocivo per un sano cambiamento interiore e comportamentale.
Qual è, allora, la struttura mentale dei giusti? Che cosa è loro di ostacolo nel perseguire un serio cammino di conversione?
Si può ragionevolmente pensare che la genesi del sentirsi giusto sia addebitabile ad una sorta di affidamento che l’uomo fa alla sfera ideale del proprio io. Avviene un movimento strano. È come se l’uomo, per potersi dire compiutamente, per poter
essere soddisfatto del proprio io, affidasse alla sfera dell’idealità umana la propria esistenza personale. Detto in altri termini: io ci sono, io sono ok, solo se sono buono. Questo movimento – è ben noto – avviene già quando si è piccoli. Molte volte, infatti, sono gli stessi genitori che, anche inconsapevolmente, ricattano affettivamente i propri piccoli, dicendo loro che se vogliono veramente bene devono comportarsi secondo le regole dell’educazione e negano, quindi, il loro consenso-affetto ai figli quando questi si comportano male. Il bambino fin dall’inizio è sottoposto a questi messaggi e s’insinua in lui la convinzione che la sua esistenza è meritevole solo se è buona, che egli esiste solo se è utile. Solo, infatti, al soddisfacimento di queste condizioni potrà beneficiare dell’amore dei suoi. Altro che amore incondizionato!
Altro che amore gratuito! Sappiamo poi che il delicato tempo della pre-adolescenza e dell’adolescenza mette a fuoco tutte le contraddizioni di bene e di male che sono presenti all’interno di ogni ragazzo e ragazza. L’esito di questo tempo non è affatto
scontato. Si possono verificare risultati molto diversi tra loro. Si va, infatti, dai giovani che sono riusciti a fare unità dentro di loro, integrando l’accettazione dinamica delle proprie zone interiori di male con quelle del bene, ai giovani che invece hanno tenuto ben separate le due sfere e vivono una realtà esistenziale ‘schizzata’, ai giovani che hanno scelto di essere cinici ed arrivisti, ai giovani infine confusi e inconsapevoli.
I cosiddetti ‘giusti’ sono coloro che hanno tenuto separate le due sfere. Gli ‘schizzati’. Essi, infatti, hanno una percezione falsa di sé, perché nel momento in cui vanno alla propria sfera positiva, profondamente connotata dall’idealità dei valori, non si rendono conto che questa sfera appartiene sì a loro, ma non coincide con tutto se stessi. In quel momento essi sono realmente convinti di essere giusti o, in ogni caso, di essere persone per bene, migliori rispetto ai ladri, agli omicidi, ai pedofili. Questa falsa autoconsapevolezza li blocca nella loro crescita umana e nella capacità di fare unità in se stessi, non li pone in una ferma volontà di conversione permanente. Essi sono, secondo una bella e significativa espressione del compianto dom André Louf, «giusti incalliti». Non ci sono, infatti, soltanto i ben noti peccatori incalliti. Ci sono anche, e sono più pericolosi, i giusti incalliti. Sono quelli che in fin dei conti non si lasciano scalfire né tanto meno mettere in crisi da alcunché. Sono quelli che non prendono sul serio la loro debolezza, non la considerano come costitutiva della propria esistenza, rivelativa del fatto che essa – la debolezza appunto – può e deve diventare il luogo dell’invocazione di Dio, dell’incontro con la grazia perdonante di Dio. Anzi, quando si rendono conto della loro debolezza, vogliono con tutte le loro forze nasconderla e schiacciarla, molte volte con senso di vergogna, perché quella stessa debolezza li ha fatti scendere dal loro piedistallo interiore in cui si erano posti. Il loro presunto essere giusti fa così da filtro pesante sia nei confronti del rapporto con gli altri uomini, considerati sempre dall’alto in basso, sia nei confronti di Dio, reso muto ed impotente nel suo ruolo di Salvatore misericordioso. È una situazione davvero penosa. È come se si restasse soli con se stessi. Condannati all’adorazione di questo nuovo ed antico idolo: gli ideali.
Quando questo incantesimo viene rotto, quando gli ideali crollano sotto il peso delle situazioni della vita e delle crisi dell’età della vita umana, l’effetto è disastroso. Ma guai a voler subito ricostruire. Guai a voler rifare tutto alla stessa maniera. C’è da fermarsi, invece, sedendosi su quelle stesse macerie del fallimento degli ideali, attendendo con fiduciosa speranza l’intervento della grazia di Dio («ti basta la mia grazia»), l’unica che può esprimere una reale signoria dentro le nostre debolezze. E così la vita rifiorisce e la parola del Signore, che ha rivelato l’inseparabile rapporto – almeno in questo mondo – tra il grano buono e la zizzania, trova una sua effettuale verità. E il Dio della vita e di ogni vivente diventa il partner – oltre ogni moralismo
– di un uomo finalmente liberato dalla sua presunzione di autosalvezza.

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