sabato 24 settembre 2011

280 - DIRE … FARE … LA VOLONTÀ DEL PADRE

25 Settembre 2011 – Domenica XXVIª Tempo Ordinario
(Ezechiele 18,25-28 Filippesi 2,1-11 Matteo 21,28-32)

Quando si decide di affacciarsi sul mondo nuovo che il Vangelo consegna costantemente alla storia, si prende atto che da un lato si manifesta «la durezza del
giudizio sul formalismo senz’anima» e dall’altro il dramma della «incoerenza di vita della relazione con Dio». Questa presa d’atto fa emergere come i due figli evocati dal Vangelo impersonifichino i due gruppi in cui si divide il popolo.
• Da una parte gli ufficialmente onesti, i sostenitori della questione morale, i politici che si dichiarano casti e puri, gli osservanti, i non dediti agli intrallazzi, i pieni di zelo a parole (ed egli rispose: «Sì, Signore!»).
• Dall’altra parte stanno quanti sono stimati peccatori, (per il Vangelo «i pubblicani e le prostitute»), gli inosservanti, quelli che si trovano sul banco dell’opposizione, che notoriamente non ascoltano la legge di Mosè (ed egli rispose: «Non ne ho voglia»).
Ma da un’analisi attenta la realtà si capovolge: gli ossequienti fino allo spasimo alla legge di Mosè a parole (sì, vado), non aprono il cuore alla voce del Figlio di Dio; anzi lo rifiutano (ma non andò). E quegli altri che finora non avevano obbedito, che apparivano ribelli (non vado), ora ascoltano l’appello supremo di Cristo (andò).
Ha ragione Paul Claudel quando annota che «i grandi uomini sono delle parabole viventi». Solo vivendo i contenuti dei valori non ci sentiamo condannati all’adorazione del nuovo ed antico idolo degli ideali.
Collegata a questa situazione è la dialettica fra ortodossia e ortoprassi. Quanti discorsi si vanno facendo oggi di rifondazione, di partecipazione, di pulizia generale, di democrazia, di pace, di rinnovamento, di autenticità, di valori, di impegno.
Tutti parlano (sì, vado) oggi e non ci accorgiamo che stiamo sempre più creando una società di rammolliti, canalizzata dalla TV, tematizzata dai partiti, condizionata dalla réclame, imbrigliata dalle frasi fatte, defraudata dai detentori dei poteri economici
e di informazione, banalizzata dal consumismo. Una società che non ha più il senso del sacrificio, della rinuncia, della scelta e, quindi, della creatività. Una società che, avendo per sottofondo orgiastico slogan e frasi fatte, si trova oltremodo ricca di parlatori e tremendamente povera di operatori (non andò).
Aveva ragione il grande semiologo Umberto Eco quando affermava: «Siamo talmente investiti da un flusso di messaggi che lasciano ben poco spazio alle nostre possibilità di intervento consapevole e creativo». Don Milani alla conclusione della sua vita ha potuto affermare la possibilità della totale coerenza fra principi valoriali e scelte concrete di vita parlando ai ragazzi della sua scuola: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
Preghiera - Le tue parole, Gesù, provocano un brusco e duro risveglio. Eppure esse mi richiamano alla realtà e mi pongono, senza tanti preamboli, la domanda decisiva:
sono disposto a convertirmi, a cambiar modo di agire e di pensare?
Sono pronto a lasciare i percorsi abituali per mettermi veramente sulle tue vie, sui tuoi passi? Oppure continuo ad illudermi con le mie professioni di fede, con le mie dichiarazioni di intenti, con i miei discorsi sui princìpi?
Sono abile, Gesù, a maneggiare le parole, ma finisco col perdere di vista ciò che conta veramente ai tuoi occhi: le mie scelte, le mie decisioni, i comportamenti che segnano questa mia esistenza. Lo riconosco, Gesù: mi sento di casa nel tuo vangelo,
a mio agio tra le tue parabole, al punto da ritenere che mi possa bastare la loro conoscenza, un cristianesimo che passa per la testa e non smuove affatto il cuore, un cristianesimo che colora l’esterno e non raggiunge mai il profondo, un cristianesimo che si accontenta dello scenario e non produce alcuna conversione.

279 - LA DIFFICILE DIALETTICA TRA GIUSTIZIA E MISERICORDIA - Per una pausa spirituale durante la XXVª settimana

Problematiche e orizzonte della tematica - Il rapporto tra la giustizia e la misericordia (di Dio) si intreccia con molteplici difficoltà di ordine antropologico e linguistico, prima ancora che propriamente teologico. I due termini, infatti, sembrano elidersi vicendevolmente e la loro compresenza costituirebbe ciò che viene normalmente descritto con la figura retorica dell’ossimoro, con cui vengono catalogate espressioni del tipo «ghiaccio bollente» o simili. Come potrebbero coesistere la giustizia e la misericordia, se la prima pretende la soddisfazione della pena per la colpa della legge infranta e la seconda perdona qualsiasi infrazione della stessa legge? A complicare la situazione, a livello teologico, si pongono le diverse ermeneutiche con le quali si sono comprese le due categorie, soprattutto la prima, e il dibattito che ne è seguito al tempo della Riforma, nel secolo xvi. Gli stessi termini presi in esame, inoltre, possono presentare diverse e articolate sfumature. La questione del rapporto tra giustizia e misericordia, pertanto, viene a caricarsi di quesiti che si sovrappongono al tema fondamentale per rivestirsi di altre tematiche, per esempio di carattere ecumenico, pastorale, spirituale, canonico, catechetico oltre che filologico e semantico. La prospettiva fondamentale rimane certamente quella biblica. Solo a partire da una profonda esegesi ed ermeneutica della sacra Scrittura è possibile riscoprire la densità di due categorie teologiche così importanti per l’intellectus fidei, con tutte le pregnanti conseguenze che ne derivano.
Il fondamentale aspetto biblico - Il primo elemento che emerge nella comprensione biblica antica della giustizia non è il riferimento a una legge da osservare, ma ad una comunità in cui vivere. In questo orizzonte, giusto non è tanto colui che osserva una norma, ma colui che vive in armonia con gli altri ed è la rottura di tale armonia che genera l’ingiustizia. La giustizia si viene a declinare nell’ottica della relazione interpersonale più che sul piano dell’osservanza individuale a un codice. Applicata a Dio, la giustizia mantiene questo sfondo relazionale in cui il Giudice è coinvolto nel giudizio cercando di ripristinare la relazione armonica in seno alla comunità qualora fosse minata attraverso le contese. La visione biblica veterotestamentaria ha chiara la dimensione della relazione in rapporto a Dio. Giustizia di Dio non significa solo che Dio giudica, nel senso che condanna il colpevole e assolve l’innocente per recuperare l’armonia nella comunità, che diventa giusta, ma che Dio stesso ripristina la relazione (giusta) tra lui e il suo popolo. Solo allora si ha la giustizia di Dio, in cui Dio è il soggetto che dona la giustizia, ossia la giusta relazione. La giustizia di Dio, quindi, è sinonimo di salvezza perché si caratterizza per una relazione donata da Dio in cui l’uomo ottiene la comunione con Dio. Inoltre, poiché la giustizia ha una valenza comunitaria, la salvezza come giustizia dovrà essere colta non solo sul piano individuale, ma come dono per tutto Israele. È all’interno del popolo di Dio che si sperimenta la salvezza di Dio.
L’esperienza della salvezza di Israele lungo la storia determina e approfondisce la prospettiva della giustizia di Dio. La relazione tra Yahweh e Israele si pone sempre sul piano della non reciprocità, per cui Yahweh si rivela e salva Israele liberandolo
dalla schiavitù e non solo donando l’alleanza e il suo codice, la Legge, ma restando fedele costituendolo suo popolo, il popolo di Dio. Israele, invece, declina la propria relazione con Yahweh spesso solo attraverso l’accoglienza formale o rituale dell’alleanza, quindi non lasciandosi interpellare e coinvolgere, anzi, sul piano esistenziale e storico l’alleanza viene vissuta nella non osservanza della Legge, ossia la relazione con Yahweh viene sperimentata come costante infedeltà. Israele non vive la giustizia, è ingiusto, perché non accoglie in profondità l’alleanza offertagli da Yahweh, ma adora altri dèi, spesso il dio della fertilità, copiando i popoli confinanti. Israele, allora, viene descritto come una donna infedele, anzi, una prostituta. L’infedeltà di Israele porta a non vivere la Legge, quindi a uno status di ingiustizia e alla perdita della libertà. Traumatica è l’esperienza dell’esilio di Babilonia, causato, secondo la lettura profetica, dal peccato di Israele, ossia dall’infedeltà alla relazione, all’alleanza con Yahweh il quale sembra non essere fedele alle promesse, visto che permette che Israele subisca l’esilio. O meglio, l’infedeltà di Israele è talmente grande che sembra sia inutile tentare di proseguire sulla strada dell’alleanza, e così Yahweh abbandona (apparentemente) Israele al suo destino. Tuttavia, proprio da
questa notte dell’alleanza, non solo Yahweh interviene ancora mostrandosi fedele liberando Israele dal giogo dell’esilio addirittura attraverso un imperatore pagano, Ciro, ma sorge in ambito profetico il desiderio di una nuova alleanza (Ger 31), ossia
non di un’alleanza rinnovata, non di una nuova legge, ma di un cambiamento del cuore: un cuore nuovo, che sia ricolmo dello Spirito di Dio (Ez 36). Si tratta della misericordia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo […] porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 26-27). È solo mediante il cuore nuovo (dono della misericordia di Dio) che è possibile vivere (giustizia) i comandamenti (legge) di Dio.
Spunto conclusivo - È sulla misericordia di Dio che si colloca una delle novità fondamentali del cristianesimo. La vita è vocazione, ossia risposta alla chiamata dell’amore di Dio, il quale, per Cristo, con Cristo e in Cristo, viene abbondantemente ‘versato’ nei nostri cuori ed è da e con il cuore nuovo, radicalmente cambiato e permeato dell’amore di Dio, che non basta più osservare la legge per avere la giustizia, ma occorre vivere il comandamento nuovo, ossia l’amore.

sabato 17 settembre 2011

278 - DIO CHIAMA TUTTI E A TUTTE LE ORE E DÀ L’UNICA PAGA: LA MONETA-SALVEZZA

18 Settembre 2011 – Domenica XXVª Tempo Ordinario
(Isaia 55,6-9 Filippesi 1,20-27 Matteo 20,1-16)

La parabola degli operai chiamati in diverse ore del giorno e che ricevono la stessa paga apre uno scenario che obbliga noi cristiani a considerare con gli occhi e con il cuore di Dio ciò che avviene all’interno della Chiesa e nella società. Perché dietro i servi che mormorano ci sono coloro che si illudono di vantare dei meriti nei confronti di Dio, quasi che egli si trovasse in debito nei loro confronti!
– Dietro i servi che mormorano ci sono dei bravi cristiani che non tollerano che l’ultimo arrivato sia avvolto dall’amore di Dio e possa partecipare al suo Regno.
– Dietro i servi che mormorano ci sono anche quelli che difendono strenuamente i loro privilegi, magari accampando la scusa della loro sicurezza e della loro tranquillità.
– Dietro i servi che mormorano ci sono coloro che non possono assolutamente accettare che il loro benessere raggiunga anche i poveri condannati da sempre ad un salario da fame.
È bene chiarire che il nostro Dio non ragiona secondo le logiche di mercato, secondo le ferree leggi dell’economia, secondo le dure esigenze della sopravvivenza. Il nostro non è solo un Dio ‘buonista’, dal cuore troppo tenero: è imperdonabilmente ed eccessivamente buono. Accoglierlo è il punto di passaggio cruciale per entrare nel Regno. Rifiutarlo significa tagliarsi fuori dalla sua offerta di grazia. Alla fine, infatti potrebbe accadere ciò che è veramente paradossale: «Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi». Un monito, un avvertimento serio lanciato a tutti quelli che si illudono di imporre a Dio il loro modo meschino di ragionare.
Appare chiaro, a questo punto, che la giustizia di Dio non corrisponde alla nostra. Può vivere la giustizia di Dio e mettere in pratica i suoi comandamenti solo chi ha un cuore nuovo, ricolmo dello Spirito di Dio, dono della sua misericordia. Solo il passaggio attraverso questa esperienza consente di leggere in modo diverso la realtà e di agire di conseguenza. Così la partecipazione al Regno non è collegata a meriti o diritti acquisiti da far valere. E non si tratta in ogni caso di una retribuzione, quanto piuttosto di una gratuita e generosa ricompensa. Chi chiama a lavorare nella sua vigna lo fa a tutte le ore del giorno. Ai suoi occhi ciò che conta è la risposta positiva che si è data, la disponibilità a lasciarsi coinvolgere in una relazione nuova con lui. Si diventa in tal modo ‘braccianti’ che non pretendono di dettare i criteri della retribuzione e che sono pronti a riconoscere la generosità del padrone. Egli infatti offre a tutti la sua gioia e chi lo conosce e lo ama non può che rallegrarsi della sua decisione. Mentre comincia il nuovo anno pastorale, un messaggio del genere risulta più che mai attuale. Nessuno può sentirsi in diritto di far valere la sua ‘anzianità’: a contare infatti è l’aver raccolto l’invito a lavorare nella vigna, mettendo a disposizione energie e risorse. La ricompensa è la stessa per tutti ed è, in ogni caso, un regalo immeritato.
Preghiera - Anch’io, Gesù, come i braccianti che sono stati assunti all’alba e hanno faticato tutta la giornata, ho delle rimostranze da fare. Non accetto di essere pagato come quelli che sono arrivati alla fine. Ho dei meriti superiori da accampare nei loro confronti, dei diritti da far valere davanti al padrone della vigna.
Anch’io, Gesù, come quei lavoratori, pretendo di imporre a Dio i miei criteri di retribuzione, il mio concetto di giustizia in cui non c’è molto posto per ciò che è gratuito, ma tutto deve corrispondere a parametri molto rigidi.
Sì, Signore, è come se mi fossi del tutto meritato quella gioia e quella pienezza che sono solo dono della tua bontà e quindi potessi permettermi di mettere un argine alla tua misericordia.
Quando mai, Signore, riconoscerò che le vie di Dio non sono le mie, che il suo modo di condurre la storia non può essere sottomesso alla mia grettezza, alla mia piccineria, alla mia ottusità che nulla hanno a che fare con il cuore di un Padre?

277 - RICORDO E PERDONO - Per una pausa spirituale durante la XXIVª settimana

Non è raro sentire in confessione l’espressione: “Padre, io perdono, ma non dimentico”, accompagnata da un velo di tristezza, che emerge dal senso di colpa di ritenere di aver in tal modo vanificato il perdono. Ma veramente ricordo e perdono si escludono? Oppure è solo un certo tipo di memoria che lo inficia ed è quindi da purificare e poi da superare senza cancellarla?
Alcuni testi biblici e liturgici parrebbero, a prima vista, andare nella direzione dell’alternativa: o ricordo o perdono. Così, ad esempio, Isaia 43,18-19a : “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova” (analogamente Isaia 65, 17-18, cui fa eco Apocalisse 21,5: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”); oppure il Salmo 25,7: “I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”. E l’antifona nella messa del mercoledì delle Ceneri recita: “Tu ami tutte le creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (cfr. Sapienza 11,23-26). Risalta qui l’invito a non ricordare più il passato, a voltargli le spalle e a rivolgere decisamente lo sguardo alla novità che Dio dischiude; inoltre, l’agire di Dio nei confronti del peccatore convertito viene espresso dalla coppia di verbi “dimentichi e perdoni”, quasi a dire che il verbo perdono si associa appunto all’oblio. In questo modo il drastico taglio del passato, cancellandolo pure dalla memoria, pare un requisito essenziale per il perdono. Ma se fosse così, chi non dimentica non sarebbe capace di perdonare. È proprio questo l’insegnamento biblico sul perdono?
Nella prima lettura di domenica leggiamo: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, in quale tiene sempre presenti i suoi peccati” (Siracide 27,30-28,1). Il rancore è memoria bloccata, è frutto di un cuore rancido che avvelena la vita perché non fa circolare sangue puro, ma infetto. Il rancore conserva il male ricevuto e con esso vizia le relazioni a venire. Come superare ciò? Prestiamo attenzione al perdono invocato per noi stessi, prima di riflettere sull’esigenza del perdono da offrire a chi ci ha offeso. Sempre nella prima lettura leggiamo ancora: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (Sir 28,6-7). E nel salmo già citato :”ricordati di me nella tua misericordia”. Per superare il rancore ci viene dunque chiesto di ricordare sia la propria precarietà (“ricòrdati della fine, della dissoluzione e della morte, di me”) che la fedeltà di Dio (“ricorda i precetti, l’alleanza dell’Altissimo, la sua misericordia”). A Dio non chiediamo di dimenticare o dimenticarci, ma al contrario che si ricordi di noi, così come siamo, deboli ma sicuri della sua alleanza. L’incontro tra la nostra povertà e la grandezza di Dio permette di vederci contrassegnati non solo dalla debolezza di un cuore infedele, ma anche e soprattutto sorretti dall’incrollabile fedeltà divina. È Dio che gratuitamente ha voluto stringere un patto d’amore con noi, senza includere come clausola l’annullamento dello stesso se fossimo stati trovati inaffidabili o inizialmente addirittura incapaci di reciprocità. E ciò è difficile da accettare, perché essere amati senza pretendere immediatamente altrettanto, ci lascia sorpresi e disarmati e umilia il nostro narcisismo, che vorrebbe rivendicare un qualche merito.
L’alleanza poggia dunque anzitutto sull’amore di Dio per l’uomo, più che sull’affidabilità dell’uomo stesso; è questa priorità nell’amore da parte di Dio che può educare l’amore dell’uomo per l’uomo e per Dio. Per essere perdonati non chiediamo al Signore che non veda e non tenga presenti i nostri peccati, ma che non ci escluda dalla sua alleanza, riportandoci al suo cuore fedele che rinnova. È l’incontro con la stabilità di Dio, del suo amore che non viene meno, nonostante le ferite infertegli dai nostri peccati, a permetterci di guardare con realismo e speranza ad un possibile futuro diverso, garantito dall’amore che non viene meno: il Signore ci conosce realmente come siamo, ci ha presenti, e noi chiediamo che si ricordi di noi, della nostra condizione; per questo è il guaritore delle nostre anime, perché sa di che cosa abbiamo bisogno, conoscendo le nostre infermità. Ma il Signore sa anche educarci col suo amore fedele a superare le ferite e recuperare la nostra dignità, donandoci così la speranza di una vita nuova. Gesù sa chi è Zaccheo, la peccatrice, Pietro, e questi si sentono conosciuti e svelati da lui; ma proprio il fatto di essere conosciuti realmente e personalmente li rende consapevoli che il perdono loro offerto da Gesù non è un generico e cieco buonismo, ma un atto della carità che non solo vede bene la condizione misera di chi ha di fronte, ma anche la dignità mai persa e il possibile futuro che li attende; perciò li risana dalle loro piaghe profonde e putride e dischiude realmente per loro una prospettiva nuova. Per perdonare, Gesù ha dovuto anzitutto far emergere il male, portarlo alla luce e risanarlo. Si è ricordato della loro vita, l’ha cioè ricondotta al suo cuore amante, capace di risanare e rigenerare (“Oggi la salvezza è entrata in questa casa”; “Neanche io ti condanno; và e non peccare più”; “Pasci i miei agnelli”). Il perdono concesso da Gesù non è pertanto dimenticanza, ma ricordo e trasformazione. Così è per noi: l’incontro col perdono di Dio richiede di far emergere il nostro peccato e le nostre piaghe, per discutere realmente per noi una prospettiva nuova di salvezza. Il principio di Santayana recita: “Colui che non vuole ricordare il passato è destinato a commettere gli stessi errori nel futuro”. Gesù ricorda e perdona. Ora, se ciò avviene per noi, siamo chiamati a fare lo stesso nei confronti dei nostri offensori. Anzitutto, per perdonare occorre ricordare l’offesa ricevuta; se ciò non avvenisse, il perdono non avrebbe l’oggetto per cui esercitarsi. Perché perdonare se è cancellata la ragione dell’offesa? È quindi necessario fare spazio in noi al male effettivamente arrecato. Scrive E. Hillesum: “Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bella e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio”. Ma questo ricordo può rendersi presente o nella forza paralizzante del rancore, che rende impossibile il perdono, o nella forza rigenerante dell’amore, che invece lo dischiude. Un’analogia può aiutarci. Il sangue pompato dal cuore raggiunge le varie membra nutrendole e ossigenandole, ma ritorna al cuore carico di impurità. Se esse venissero trattenute dal sangue, verrebbero nuovamente rimesse in circolo con esse e infetterebbero le membra al posto di vitalizzarle. Occorre che il cuore purifichi il sangue e lo arricchisca nuovamente perché l’organismo possa vivere. Così, la nostra vita raggiunge attraverso le relaziona le varie membra della comunità dando vita, ma anche caricandosi di impurità che possono viziarla. Occorre che ci riportiamo al cuore della nostra vita cristiana, ovvero il mistero di Cristo, alla sua alleanza sigillata sulla croce e perpetuata nell’eucarestia e nella riconciliazione, carichi di tutto quello che siamo e abbiamo, perché il gratuito amore di Cristo ci purifichi e ci renda nuovamente vitali. Non si tratta, insomma, di ricordare l’offesa perché essa si perpetui nella memoria e vizi l’agire, ma di farla emergere per ricondurla al cuore della vita cristiana, ossia guardarla e purificarla con lo sguardo e l’amore di Cristo. In questo senso si può dire che il perdono cristiano non è semplicemente una relazione a due, ma a tre. Non vengono chiamati in causa solo l’offeso e l’offensore, bensì anche e soprattutto Dio che permette di guardare e trattare l’avvenimento doloroso in modo realistico, ma con occhi nuovi e con una prospettiva di respiro. Perdonare non è dimenticare, ma trasformare. E ciò avviene sia per l’offensore, che vede dischiudersi una possibilità di ripresa immeritata o addirittura inattesa, sia per l’offeso che si vede capace di ciò che forse riteneva impossibile per lui. E così l’amore del Padre può recuperare entrambi i figli. “il perdono non è l’oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal passato o dalla memoria” (Ch. Duquoc). “Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore” (Sal 25,7). Ricordi e perdoni. Ricordo e perdono.

276 - PERDONARE È VIVERE -11 Settembre 2011 – Domenica XXIVª Tempo Ordinario - (Sir 27,30 – 28,7 Rm 14,7 -9 Mt 18,31-35)

Il perdono è una scelta che fa bene alla vita! È un atto umanamente liberante (chi lo dona libera la propria vita da ogni rancore che rende impossibile il vivere): è un atto cristianamente necessario (molte volte il Vangelo parla del perdono e nel Padre nostro diciamo “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” … questo “come” non indica né il tempo, né la quantità, né la qualità del perdono … ma la condizione perché io possa sentire il perdono di Dio che mi rende capace di perdonare, a mia volta, la persona che mi ha offeso … notiamo poi che tra il perdono di Dio che condona 10.000 talenti (=60.000.000 di giornate lavorative) ed il nostro perdono 100 denari (=100 giornate lavorative) non c’è confronto; è un atto “divino” per eccellenza … solo Dio può perdonare (perché non ha mai offeso nessuno), solo Dio sa perdonare (perché ama personalmente, gratuitamente, totalmente … ed il suo amore è l’unico che rigenera sempre) … chi perdona per un’offesa gratuita (teniamo però presente che nella maggioranza dei casi umani la colpa è condivisa quindi il perdono è reciproco) compie un atto “divino”!
Perché è così difficile perdonare? La parabola del Vangelo ci fornisce un esempio lampante della nostra piccineria. Come si fa ad essere esigenti davanti ad un debitore di cento denari proprio poco dopo che si è ricevuta una grazia così grande del condono di diecimila talenti che sono 60.000.000 di denari? Sorge a questo punto un interrogativo: perché è così difficile perdonare?
Mi sono trovato talvolta di fronte a persone di grande onestà e dirittura morale, al punto di essere rigorose e severe con se stesse. E sono rimasto sconcertato quando mi sono accorto che, accanto a qualità di grande valore, albergava in loro una resistenza consistente a donare il perdono a chi aveva sbagliato nei loro confronti. E mi sono chiesto: perché?
Una risposta credo di averla trovata. Può perdonare solo chi ha fatto l’esperienza di essere perdonato. È un po’ quello che accade riguardo alle sofferenze umane: cogliere lo smarrimento, le ferite interiori, il dolore fisico e dell’anima solo chi ci è passato. Chi ha attraversato certe regioni oscure e faticose dell’esistenza è come se ricevesse una capacità particolare di intuire quanti stanno percorrendo quel sentiero che lui stesso ha conosciuto.
Questo vale anche per il perdono. Chi ha provato il bisogno di essere accolto con le sue fragilità, chi ha sentito vergogna per i propri sbagli, sa quanta tristezza e quanta amarezza può invadere colui che ha sbagliato nel riscontrare il suo errore. Chi ha avvertito il desiderio profondo di avere un fratello o una sorella che lo aiui a venirne fuori, ma con dolcezza, con dignità, attraverso un perdono generoso e largo, chi ha sentito su di se lo sguardo limpido di qualcuno che ha saputo vedere in lui non solo la debolezza, ma anche le risorse, le capacità, le cose belle che uno si porta dentro, dovrebbe essere capacità di riservare ad altri quello che è statoi regalato a lui.
Queste esperienze sono autentiche, però, solo se raggiungono il profondo di una esistenza. Anche il ministro di quel re era stato perdonato ed il suo debito, smisurato, gli era stato condonato. Ma il suo cuore non aveva apprezzato la grazia che gli era stata fatta. Era rimasto un cuore duro ed ostinato, incapace di sentire la bellezza e la grandezza del perdono donato.
Preghiera – Mi sembra di essere un eroe, Gesù, quando non rispondo subito all’offesa con l’offesa, all’insulto con l’insulto. E mi illudo quasi di essere un santo quando rinuncio alla vendetta e cerco di reprimere il rancore. Ma Tu non ti accontenti neppure di tutto questo …
Mi chiedi di perdonare, di cancellare addirittura il debito e di essere pronto a farlo non solo per qualche volta, ma addirittura sempre. E per convincermi, dal momento che una cosa del genere non mi riesce affatto spontanea, mi richiami il mio debito, il debito ingente e sproporzionato che ho nei confronti nel Padre tuo.
Che cosa sono, al confronto, i debiti che alcuni possono avere contratto con me? Poca cosa, che sparisce di fronte a quello che devo in prima persona a Dio.
Per questo, Gesù, ti domando di cambiare il mio cuore, di spezzare il mio orgoglio, la mia superbia, di sradicare la mia voglia di rivalsa, di condurmi per la via della misericordia, quella che tu hai tracciato dalla croce, donando il tuo perdono a chi ti faceva morire.
NB.: Sul perdono potete leggere i numeri 258-264!

domenica 4 settembre 2011

275 - INSEGNARE A DIO QUELLO CHE DEVE FARE E COME FARLO? - Per una pausa spirituale durante la XXIIª settimana

Il brano del Vangelo di domenica 28 agosto è dominato dal brusco dialogo tra Gesù e Pietro. «Questo non ti accadrà mai!», afferma Pietro, entrando in contrasto con ciò che Gesù ha appena affermato sulla sua passione e morte.
Incoraggiato dalla familiarità e dalla confidenza con il Signore, Pietro si permette di opporsi alla prospettiva che Gesù comincia a far intravedere. Si profilano all’orizzonte dolore, morte, sconfitta; Pietro, che a Gesù vuole sinceramente bene, non può adattarsi ad accettare tutto questo. L’energia con cui contrasta Gesù è quella di chi pretende di insegnare a Dio che cosa fare. Nello slancio generoso con cui Pietro vuole impedire a Gesù di incamminarsi sulla via della croce c’è l’animo di tutti coloro che sanno di che cosa ha bisogno il mondo per essere salvato, di che cosa hanno bisogno loro stessi per essere felici; e portano avanti la loro idea con energia, con sicurezza, senza dubbi né esitazioni.
Nella reazione di Pietro vi è l’atteggiamento di tanti di noi, che rivolgiamo al Signore richieste, pensieri e preghiere, sicuri del valore di ciò che chiediamo: il benessere, la salute, un buon posto di lavoro, il successo agli esami … non si può dire che queste richieste non siano legittime: magari qualcuna è banale, ma tutte esprimono la domanda di bene e di felicità che vi è nel cuore di ciascuno.
Gesù non ha mai sconfessato questa domanda di bene e di pienezza che sale dalla vita delle persone: non avrebbe compiuto tanti dei suoi miracoli! Però corregge continuamente questa domanda, dandole orizzonti più vasti e più veri: la felicità non sta nell’avere successo o nel benessere raggiunto, ma nell’essere poveri: «beati i poveri in spirito…»; non sta nel riuscire ad averla vinta sulle persone che ci contrastano, ma nell’essere cercatori e costruttori di pace e di concordia: «beati gli operatori di pace…». La via delle beatitudini è quella della felicità secondo il cuore di Dio, e non secondo i nostri piccoli orizzonti; si spiega nella logica di Dio, che è quella del suo amore, che si riassume e si esprime compiutamente nella pasqua.
La pretesa di insegnare a Dio si manifesta quando egli svela la natura del suo essere Messia; per Pietro, e per noi con lui, un Messia non può che essere trionfante; Gesù invece sa che solo un Messia sconfitto può salvare il mondo e ridonargli speranza. Noi a Dio abbiamo da insegnare sostanzialmente la logica del successo, dell’affermazione di noi stessi, della forza che si impone: così – noi pensiamo – si vince il male! Il Signore invece ci insegna che la via divina della salvezza è quella che si carica il male sulle spalle, che non lo sfugge ma se lo assume, quasi divenendo una cosa sola con esso. E il male prende la forma di una croce, che scava la carne, che piega sotto il dolore: sembra solo sofferenza ed umiliazione, e lo è effettivamente, ma è la forma di un amore totale che fa dono di sé fino alla fine, senza sconti. La croce, che noi identifichiamo con il dolore, in effetti nella prospettiva di Dio è amore; per noi è fallimento, per Dio è la salvezza; per noi è umiliazione, per Dio è gloria. Chi si ferma al dolore non vede la verità dalla croce, non conosce il cuore di Dio, che nell’amore conosce solo la totalità.
Nel dialogo tra Gesù e Pietro si confrontano due logiche: quella umana e quella di Dio; quella umana ritiene che la salvezza sia un sinonimo di successo e la croce di sconfitta; quella di Dio è quella dell’amore, che si fa umile, piccolo, solidale con tutti coloro che soffrono e sono sconfitti. A noi quella di Dio sembra una logica perdente, non ‘da Dio’, non degna della sua onnipotenza, e soprattutto dell’immagine che noi ci siamo fatti di Lui. E nella nostra pretesa di ricondurre Dio dentro i nostri angusti orizzonti, cerchiamo di insegnargli che cosa deve fare, perché noi ‘sappiamo’ che cosa è bene per noi, per la Chiesa, per il mondo intero; e così pretendiamo di rinchiudere anche la vita cristiana in una prospettiva di buon senso, senza slancio, senza audacia, senza profezia.
Gesù oggi ci dice che non dobbiamo avere la pretesa di insegnare a Dio, ma ci invita ad avere l’umiltà di imparare da Lui, mettendoci alla sua sequela, accettando di camminare dietro a Lui e di vivere come Lui. È quello che hanno fatto quei testimoni che, alla scuola del Signore, hanno imparato la sua logica e hanno riespresso nel loro linguaggio di ogni giorno il modo di pensare di Dio. Tra essi, Vittorio Bachelet, che pochi anni prima della sua morte scriveva: «Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento d’amore, se non contrapponendo la capacità di dare la vita per il sostegno e la difesa degli inermi, degli innocenti, di chi vive in una insostenibile situazione di ingiustizia. Non si vince questo nostro egoismo se non riscoprendo il valore di ogni uomo perché figlio del Padre che dà la vita». La sua morte, vissuta con animo mite, lo ha collocato nel solco di coloro che camminano sui passi del Signore e non pretendono di insegnargli come si salva il mondo.