Non è raro sentire in confessione l’espressione: “Padre, io perdono, ma non dimentico”, accompagnata da un velo di tristezza, che emerge dal senso di colpa di ritenere di aver in tal modo vanificato il perdono. Ma veramente ricordo e perdono si escludono? Oppure è solo un certo tipo di memoria che lo inficia ed è quindi da purificare e poi da superare senza cancellarla?
Alcuni testi biblici e liturgici parrebbero, a prima vista, andare nella direzione dell’alternativa: o ricordo o perdono. Così, ad esempio, Isaia 43,18-19a : “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova” (analogamente Isaia 65, 17-18, cui fa eco Apocalisse 21,5: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”); oppure il Salmo 25,7: “I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”. E l’antifona nella messa del mercoledì delle Ceneri recita: “Tu ami tutte le creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (cfr. Sapienza 11,23-26). Risalta qui l’invito a non ricordare più il passato, a voltargli le spalle e a rivolgere decisamente lo sguardo alla novità che Dio dischiude; inoltre, l’agire di Dio nei confronti del peccatore convertito viene espresso dalla coppia di verbi “dimentichi e perdoni”, quasi a dire che il verbo perdono si associa appunto all’oblio. In questo modo il drastico taglio del passato, cancellandolo pure dalla memoria, pare un requisito essenziale per il perdono. Ma se fosse così, chi non dimentica non sarebbe capace di perdonare. È proprio questo l’insegnamento biblico sul perdono?
Nella prima lettura di domenica leggiamo: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, in quale tiene sempre presenti i suoi peccati” (Siracide 27,30-28,1). Il rancore è memoria bloccata, è frutto di un cuore rancido che avvelena la vita perché non fa circolare sangue puro, ma infetto. Il rancore conserva il male ricevuto e con esso vizia le relazioni a venire. Come superare ciò? Prestiamo attenzione al perdono invocato per noi stessi, prima di riflettere sull’esigenza del perdono da offrire a chi ci ha offeso. Sempre nella prima lettura leggiamo ancora: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (Sir 28,6-7). E nel salmo già citato :”ricordati di me nella tua misericordia”. Per superare il rancore ci viene dunque chiesto di ricordare sia la propria precarietà (“ricòrdati della fine, della dissoluzione e della morte, di me”) che la fedeltà di Dio (“ricorda i precetti, l’alleanza dell’Altissimo, la sua misericordia”). A Dio non chiediamo di dimenticare o dimenticarci, ma al contrario che si ricordi di noi, così come siamo, deboli ma sicuri della sua alleanza. L’incontro tra la nostra povertà e la grandezza di Dio permette di vederci contrassegnati non solo dalla debolezza di un cuore infedele, ma anche e soprattutto sorretti dall’incrollabile fedeltà divina. È Dio che gratuitamente ha voluto stringere un patto d’amore con noi, senza includere come clausola l’annullamento dello stesso se fossimo stati trovati inaffidabili o inizialmente addirittura incapaci di reciprocità. E ciò è difficile da accettare, perché essere amati senza pretendere immediatamente altrettanto, ci lascia sorpresi e disarmati e umilia il nostro narcisismo, che vorrebbe rivendicare un qualche merito.
L’alleanza poggia dunque anzitutto sull’amore di Dio per l’uomo, più che sull’affidabilità dell’uomo stesso; è questa priorità nell’amore da parte di Dio che può educare l’amore dell’uomo per l’uomo e per Dio. Per essere perdonati non chiediamo al Signore che non veda e non tenga presenti i nostri peccati, ma che non ci escluda dalla sua alleanza, riportandoci al suo cuore fedele che rinnova. È l’incontro con la stabilità di Dio, del suo amore che non viene meno, nonostante le ferite infertegli dai nostri peccati, a permetterci di guardare con realismo e speranza ad un possibile futuro diverso, garantito dall’amore che non viene meno: il Signore ci conosce realmente come siamo, ci ha presenti, e noi chiediamo che si ricordi di noi, della nostra condizione; per questo è il guaritore delle nostre anime, perché sa di che cosa abbiamo bisogno, conoscendo le nostre infermità. Ma il Signore sa anche educarci col suo amore fedele a superare le ferite e recuperare la nostra dignità, donandoci così la speranza di una vita nuova. Gesù sa chi è Zaccheo, la peccatrice, Pietro, e questi si sentono conosciuti e svelati da lui; ma proprio il fatto di essere conosciuti realmente e personalmente li rende consapevoli che il perdono loro offerto da Gesù non è un generico e cieco buonismo, ma un atto della carità che non solo vede bene la condizione misera di chi ha di fronte, ma anche la dignità mai persa e il possibile futuro che li attende; perciò li risana dalle loro piaghe profonde e putride e dischiude realmente per loro una prospettiva nuova. Per perdonare, Gesù ha dovuto anzitutto far emergere il male, portarlo alla luce e risanarlo. Si è ricordato della loro vita, l’ha cioè ricondotta al suo cuore amante, capace di risanare e rigenerare (“Oggi la salvezza è entrata in questa casa”; “Neanche io ti condanno; và e non peccare più”; “Pasci i miei agnelli”). Il perdono concesso da Gesù non è pertanto dimenticanza, ma ricordo e trasformazione. Così è per noi: l’incontro col perdono di Dio richiede di far emergere il nostro peccato e le nostre piaghe, per discutere realmente per noi una prospettiva nuova di salvezza. Il principio di Santayana recita: “Colui che non vuole ricordare il passato è destinato a commettere gli stessi errori nel futuro”. Gesù ricorda e perdona. Ora, se ciò avviene per noi, siamo chiamati a fare lo stesso nei confronti dei nostri offensori. Anzitutto, per perdonare occorre ricordare l’offesa ricevuta; se ciò non avvenisse, il perdono non avrebbe l’oggetto per cui esercitarsi. Perché perdonare se è cancellata la ragione dell’offesa? È quindi necessario fare spazio in noi al male effettivamente arrecato. Scrive E. Hillesum: “Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bella e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio”. Ma questo ricordo può rendersi presente o nella forza paralizzante del rancore, che rende impossibile il perdono, o nella forza rigenerante dell’amore, che invece lo dischiude. Un’analogia può aiutarci. Il sangue pompato dal cuore raggiunge le varie membra nutrendole e ossigenandole, ma ritorna al cuore carico di impurità. Se esse venissero trattenute dal sangue, verrebbero nuovamente rimesse in circolo con esse e infetterebbero le membra al posto di vitalizzarle. Occorre che il cuore purifichi il sangue e lo arricchisca nuovamente perché l’organismo possa vivere. Così, la nostra vita raggiunge attraverso le relaziona le varie membra della comunità dando vita, ma anche caricandosi di impurità che possono viziarla. Occorre che ci riportiamo al cuore della nostra vita cristiana, ovvero il mistero di Cristo, alla sua alleanza sigillata sulla croce e perpetuata nell’eucarestia e nella riconciliazione, carichi di tutto quello che siamo e abbiamo, perché il gratuito amore di Cristo ci purifichi e ci renda nuovamente vitali. Non si tratta, insomma, di ricordare l’offesa perché essa si perpetui nella memoria e vizi l’agire, ma di farla emergere per ricondurla al cuore della vita cristiana, ossia guardarla e purificarla con lo sguardo e l’amore di Cristo. In questo senso si può dire che il perdono cristiano non è semplicemente una relazione a due, ma a tre. Non vengono chiamati in causa solo l’offeso e l’offensore, bensì anche e soprattutto Dio che permette di guardare e trattare l’avvenimento doloroso in modo realistico, ma con occhi nuovi e con una prospettiva di respiro. Perdonare non è dimenticare, ma trasformare. E ciò avviene sia per l’offensore, che vede dischiudersi una possibilità di ripresa immeritata o addirittura inattesa, sia per l’offeso che si vede capace di ciò che forse riteneva impossibile per lui. E così l’amore del Padre può recuperare entrambi i figli. “il perdono non è l’oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal passato o dalla memoria” (Ch. Duquoc). “Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore” (Sal 25,7). Ricordi e perdoni. Ricordo e perdono.
Alcuni testi biblici e liturgici parrebbero, a prima vista, andare nella direzione dell’alternativa: o ricordo o perdono. Così, ad esempio, Isaia 43,18-19a : “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova” (analogamente Isaia 65, 17-18, cui fa eco Apocalisse 21,5: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”); oppure il Salmo 25,7: “I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni, non li ricordare: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”. E l’antifona nella messa del mercoledì delle Ceneri recita: “Tu ami tutte le creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (cfr. Sapienza 11,23-26). Risalta qui l’invito a non ricordare più il passato, a voltargli le spalle e a rivolgere decisamente lo sguardo alla novità che Dio dischiude; inoltre, l’agire di Dio nei confronti del peccatore convertito viene espresso dalla coppia di verbi “dimentichi e perdoni”, quasi a dire che il verbo perdono si associa appunto all’oblio. In questo modo il drastico taglio del passato, cancellandolo pure dalla memoria, pare un requisito essenziale per il perdono. Ma se fosse così, chi non dimentica non sarebbe capace di perdonare. È proprio questo l’insegnamento biblico sul perdono?
Nella prima lettura di domenica leggiamo: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, in quale tiene sempre presenti i suoi peccati” (Siracide 27,30-28,1). Il rancore è memoria bloccata, è frutto di un cuore rancido che avvelena la vita perché non fa circolare sangue puro, ma infetto. Il rancore conserva il male ricevuto e con esso vizia le relazioni a venire. Come superare ciò? Prestiamo attenzione al perdono invocato per noi stessi, prima di riflettere sull’esigenza del perdono da offrire a chi ci ha offeso. Sempre nella prima lettura leggiamo ancora: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (Sir 28,6-7). E nel salmo già citato :”ricordati di me nella tua misericordia”. Per superare il rancore ci viene dunque chiesto di ricordare sia la propria precarietà (“ricòrdati della fine, della dissoluzione e della morte, di me”) che la fedeltà di Dio (“ricorda i precetti, l’alleanza dell’Altissimo, la sua misericordia”). A Dio non chiediamo di dimenticare o dimenticarci, ma al contrario che si ricordi di noi, così come siamo, deboli ma sicuri della sua alleanza. L’incontro tra la nostra povertà e la grandezza di Dio permette di vederci contrassegnati non solo dalla debolezza di un cuore infedele, ma anche e soprattutto sorretti dall’incrollabile fedeltà divina. È Dio che gratuitamente ha voluto stringere un patto d’amore con noi, senza includere come clausola l’annullamento dello stesso se fossimo stati trovati inaffidabili o inizialmente addirittura incapaci di reciprocità. E ciò è difficile da accettare, perché essere amati senza pretendere immediatamente altrettanto, ci lascia sorpresi e disarmati e umilia il nostro narcisismo, che vorrebbe rivendicare un qualche merito.
L’alleanza poggia dunque anzitutto sull’amore di Dio per l’uomo, più che sull’affidabilità dell’uomo stesso; è questa priorità nell’amore da parte di Dio che può educare l’amore dell’uomo per l’uomo e per Dio. Per essere perdonati non chiediamo al Signore che non veda e non tenga presenti i nostri peccati, ma che non ci escluda dalla sua alleanza, riportandoci al suo cuore fedele che rinnova. È l’incontro con la stabilità di Dio, del suo amore che non viene meno, nonostante le ferite infertegli dai nostri peccati, a permetterci di guardare con realismo e speranza ad un possibile futuro diverso, garantito dall’amore che non viene meno: il Signore ci conosce realmente come siamo, ci ha presenti, e noi chiediamo che si ricordi di noi, della nostra condizione; per questo è il guaritore delle nostre anime, perché sa di che cosa abbiamo bisogno, conoscendo le nostre infermità. Ma il Signore sa anche educarci col suo amore fedele a superare le ferite e recuperare la nostra dignità, donandoci così la speranza di una vita nuova. Gesù sa chi è Zaccheo, la peccatrice, Pietro, e questi si sentono conosciuti e svelati da lui; ma proprio il fatto di essere conosciuti realmente e personalmente li rende consapevoli che il perdono loro offerto da Gesù non è un generico e cieco buonismo, ma un atto della carità che non solo vede bene la condizione misera di chi ha di fronte, ma anche la dignità mai persa e il possibile futuro che li attende; perciò li risana dalle loro piaghe profonde e putride e dischiude realmente per loro una prospettiva nuova. Per perdonare, Gesù ha dovuto anzitutto far emergere il male, portarlo alla luce e risanarlo. Si è ricordato della loro vita, l’ha cioè ricondotta al suo cuore amante, capace di risanare e rigenerare (“Oggi la salvezza è entrata in questa casa”; “Neanche io ti condanno; và e non peccare più”; “Pasci i miei agnelli”). Il perdono concesso da Gesù non è pertanto dimenticanza, ma ricordo e trasformazione. Così è per noi: l’incontro col perdono di Dio richiede di far emergere il nostro peccato e le nostre piaghe, per discutere realmente per noi una prospettiva nuova di salvezza. Il principio di Santayana recita: “Colui che non vuole ricordare il passato è destinato a commettere gli stessi errori nel futuro”. Gesù ricorda e perdona. Ora, se ciò avviene per noi, siamo chiamati a fare lo stesso nei confronti dei nostri offensori. Anzitutto, per perdonare occorre ricordare l’offesa ricevuta; se ciò non avvenisse, il perdono non avrebbe l’oggetto per cui esercitarsi. Perché perdonare se è cancellata la ragione dell’offesa? È quindi necessario fare spazio in noi al male effettivamente arrecato. Scrive E. Hillesum: “Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bella e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio”. Ma questo ricordo può rendersi presente o nella forza paralizzante del rancore, che rende impossibile il perdono, o nella forza rigenerante dell’amore, che invece lo dischiude. Un’analogia può aiutarci. Il sangue pompato dal cuore raggiunge le varie membra nutrendole e ossigenandole, ma ritorna al cuore carico di impurità. Se esse venissero trattenute dal sangue, verrebbero nuovamente rimesse in circolo con esse e infetterebbero le membra al posto di vitalizzarle. Occorre che il cuore purifichi il sangue e lo arricchisca nuovamente perché l’organismo possa vivere. Così, la nostra vita raggiunge attraverso le relaziona le varie membra della comunità dando vita, ma anche caricandosi di impurità che possono viziarla. Occorre che ci riportiamo al cuore della nostra vita cristiana, ovvero il mistero di Cristo, alla sua alleanza sigillata sulla croce e perpetuata nell’eucarestia e nella riconciliazione, carichi di tutto quello che siamo e abbiamo, perché il gratuito amore di Cristo ci purifichi e ci renda nuovamente vitali. Non si tratta, insomma, di ricordare l’offesa perché essa si perpetui nella memoria e vizi l’agire, ma di farla emergere per ricondurla al cuore della vita cristiana, ossia guardarla e purificarla con lo sguardo e l’amore di Cristo. In questo senso si può dire che il perdono cristiano non è semplicemente una relazione a due, ma a tre. Non vengono chiamati in causa solo l’offeso e l’offensore, bensì anche e soprattutto Dio che permette di guardare e trattare l’avvenimento doloroso in modo realistico, ma con occhi nuovi e con una prospettiva di respiro. Perdonare non è dimenticare, ma trasformare. E ciò avviene sia per l’offensore, che vede dischiudersi una possibilità di ripresa immeritata o addirittura inattesa, sia per l’offeso che si vede capace di ciò che forse riteneva impossibile per lui. E così l’amore del Padre può recuperare entrambi i figli. “il perdono non è l’oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal passato o dalla memoria” (Ch. Duquoc). “Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore” (Sal 25,7). Ricordi e perdoni. Ricordo e perdono.
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