sabato 24 settembre 2011

279 - LA DIFFICILE DIALETTICA TRA GIUSTIZIA E MISERICORDIA - Per una pausa spirituale durante la XXVª settimana

Problematiche e orizzonte della tematica - Il rapporto tra la giustizia e la misericordia (di Dio) si intreccia con molteplici difficoltà di ordine antropologico e linguistico, prima ancora che propriamente teologico. I due termini, infatti, sembrano elidersi vicendevolmente e la loro compresenza costituirebbe ciò che viene normalmente descritto con la figura retorica dell’ossimoro, con cui vengono catalogate espressioni del tipo «ghiaccio bollente» o simili. Come potrebbero coesistere la giustizia e la misericordia, se la prima pretende la soddisfazione della pena per la colpa della legge infranta e la seconda perdona qualsiasi infrazione della stessa legge? A complicare la situazione, a livello teologico, si pongono le diverse ermeneutiche con le quali si sono comprese le due categorie, soprattutto la prima, e il dibattito che ne è seguito al tempo della Riforma, nel secolo xvi. Gli stessi termini presi in esame, inoltre, possono presentare diverse e articolate sfumature. La questione del rapporto tra giustizia e misericordia, pertanto, viene a caricarsi di quesiti che si sovrappongono al tema fondamentale per rivestirsi di altre tematiche, per esempio di carattere ecumenico, pastorale, spirituale, canonico, catechetico oltre che filologico e semantico. La prospettiva fondamentale rimane certamente quella biblica. Solo a partire da una profonda esegesi ed ermeneutica della sacra Scrittura è possibile riscoprire la densità di due categorie teologiche così importanti per l’intellectus fidei, con tutte le pregnanti conseguenze che ne derivano.
Il fondamentale aspetto biblico - Il primo elemento che emerge nella comprensione biblica antica della giustizia non è il riferimento a una legge da osservare, ma ad una comunità in cui vivere. In questo orizzonte, giusto non è tanto colui che osserva una norma, ma colui che vive in armonia con gli altri ed è la rottura di tale armonia che genera l’ingiustizia. La giustizia si viene a declinare nell’ottica della relazione interpersonale più che sul piano dell’osservanza individuale a un codice. Applicata a Dio, la giustizia mantiene questo sfondo relazionale in cui il Giudice è coinvolto nel giudizio cercando di ripristinare la relazione armonica in seno alla comunità qualora fosse minata attraverso le contese. La visione biblica veterotestamentaria ha chiara la dimensione della relazione in rapporto a Dio. Giustizia di Dio non significa solo che Dio giudica, nel senso che condanna il colpevole e assolve l’innocente per recuperare l’armonia nella comunità, che diventa giusta, ma che Dio stesso ripristina la relazione (giusta) tra lui e il suo popolo. Solo allora si ha la giustizia di Dio, in cui Dio è il soggetto che dona la giustizia, ossia la giusta relazione. La giustizia di Dio, quindi, è sinonimo di salvezza perché si caratterizza per una relazione donata da Dio in cui l’uomo ottiene la comunione con Dio. Inoltre, poiché la giustizia ha una valenza comunitaria, la salvezza come giustizia dovrà essere colta non solo sul piano individuale, ma come dono per tutto Israele. È all’interno del popolo di Dio che si sperimenta la salvezza di Dio.
L’esperienza della salvezza di Israele lungo la storia determina e approfondisce la prospettiva della giustizia di Dio. La relazione tra Yahweh e Israele si pone sempre sul piano della non reciprocità, per cui Yahweh si rivela e salva Israele liberandolo
dalla schiavitù e non solo donando l’alleanza e il suo codice, la Legge, ma restando fedele costituendolo suo popolo, il popolo di Dio. Israele, invece, declina la propria relazione con Yahweh spesso solo attraverso l’accoglienza formale o rituale dell’alleanza, quindi non lasciandosi interpellare e coinvolgere, anzi, sul piano esistenziale e storico l’alleanza viene vissuta nella non osservanza della Legge, ossia la relazione con Yahweh viene sperimentata come costante infedeltà. Israele non vive la giustizia, è ingiusto, perché non accoglie in profondità l’alleanza offertagli da Yahweh, ma adora altri dèi, spesso il dio della fertilità, copiando i popoli confinanti. Israele, allora, viene descritto come una donna infedele, anzi, una prostituta. L’infedeltà di Israele porta a non vivere la Legge, quindi a uno status di ingiustizia e alla perdita della libertà. Traumatica è l’esperienza dell’esilio di Babilonia, causato, secondo la lettura profetica, dal peccato di Israele, ossia dall’infedeltà alla relazione, all’alleanza con Yahweh il quale sembra non essere fedele alle promesse, visto che permette che Israele subisca l’esilio. O meglio, l’infedeltà di Israele è talmente grande che sembra sia inutile tentare di proseguire sulla strada dell’alleanza, e così Yahweh abbandona (apparentemente) Israele al suo destino. Tuttavia, proprio da
questa notte dell’alleanza, non solo Yahweh interviene ancora mostrandosi fedele liberando Israele dal giogo dell’esilio addirittura attraverso un imperatore pagano, Ciro, ma sorge in ambito profetico il desiderio di una nuova alleanza (Ger 31), ossia
non di un’alleanza rinnovata, non di una nuova legge, ma di un cambiamento del cuore: un cuore nuovo, che sia ricolmo dello Spirito di Dio (Ez 36). Si tratta della misericordia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo […] porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 26-27). È solo mediante il cuore nuovo (dono della misericordia di Dio) che è possibile vivere (giustizia) i comandamenti (legge) di Dio.
Spunto conclusivo - È sulla misericordia di Dio che si colloca una delle novità fondamentali del cristianesimo. La vita è vocazione, ossia risposta alla chiamata dell’amore di Dio, il quale, per Cristo, con Cristo e in Cristo, viene abbondantemente ‘versato’ nei nostri cuori ed è da e con il cuore nuovo, radicalmente cambiato e permeato dell’amore di Dio, che non basta più osservare la legge per avere la giustizia, ma occorre vivere il comandamento nuovo, ossia l’amore.

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