sabato 29 settembre 2012

432 - MONOPOLIZZARE DIO - 30 Settembre 2012 – XXVIª Domenica Tempo ordinario

(Numeri 11,25-29 Giacomo 5,1-6 Marco 9,38-47

La tentazione di monopolizzare Dio e di misurarlo secondo i nostri pensieri e scopi è sempre forte, anche nei credenti. Dio, però, manifesta il suo amore in modo completamente libero. La «via e la verità» che egli ha mostrato in Gesù sono un invito serio a rivedere continuamente i nostri schemi religiosi. E soprattutto a non giudicare, bensì ad operare affinché «a tutti i popoli della terra siano annunciate le meraviglie del suo amore».

Il vangelo riunisce insieme alcuni insegnamenti di Gesù che riguardano la vita pratica e tentano di risolvere alcuni problemi che andavano sorgendo in seno alla comunità cristiana primitiva.

L’uso del nome di Gesù suscita frutti di salvezza anche al di fuori della cerchia ristretta dei discepoli. Il problema nasce perché un estraneo (v. 38: «uno» [in greco: tina]) utilizza il nome di Gesù come parola di guarigione nei suoi esorcismi (cfr. At 19,13-16). La reazione dei discepoli è rappresentata da Giovanni, che anche altre volte nei vangeli viene presentato con un temperamento focoso e intransigente (Lc 9,54) fino a meritarsi, con il fratello Giacomo, il titolo di «figlio del tuono» (Mc 3,17). La sua reazione è degna di uno «zelota»; egli non ammette che si possa produrre qualche frutto di salvezza fuori dalla cerchia dei discepoli. L’atteggiamento di Giovanni ricorda quello di Giosuè (prima lettura): egli giudica intollerabile che uno sconosciuto, estraneo al gruppo, cacci i demoni nel nome di Gesù. L’atteggiamento intollerante di Giovanni verso questo esorcista non autorizzato si muove su due registri: il verbo «seguire» e il pronome «noi»; il testo greco letteralmente dice: «perché non ci seguiva» (v. 38). Il problema sta nel complemento che fa da oggetto al verbo «seguire». La sequela non consiste nell’aggregarsi a un gruppo (= ci), ma nel «seguire» Gesù Cristo. Il motivo di coesione della comunità cristiana è il «me» che troviamo in ogni racconto di chiamata: Seguimi! (cfr. Mc 2,14 e paralleli; Gv 1,43) e non il gruppo dei discepoli. La comunità radunata da Gesù non è un ente autonomo, solo Gesù Cristo e la sua presenza giustifica il cammino dei Dodici. Dunque, il «noi» non può essere protagonista assoluto. Gesù capovolge la prospettiva di Giovanni, allarga i confini, sbriciola la categoria «blindata» del discepolo appartenente a una specie di setta. Se Gesù è il riferimento assoluto, allora chi scaccia demoni nel suo nome non può essere né contro di lui né contro il gruppo che lui ha costituito (cfr. vv. 39-40).

La relazione che i discepoli hanno con Gesù viene da loro vissuta come se Gesù fosse loro esclusivo possesso, e la sequela dovesse garantire loro un privilegio che tutti devono rispettare. La risposta di Gesù: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me» (v. 39), è un avvertimento a evitare ogni forma di invidia per il bene che fanno gli altri, ogni forma di concorrenza, ogni pretesa di accaparrare solo per sé la potenza (il nome) di Cristo. Lo Spirito soffia dove vuole (cfr. Gv 3,8), e anche fuori della comunità dei cristiani può guidare gli uomini al compimento delle opere di Dio (cfr. vv. 40-41). Gesù afferma che, se uno ricorre al suo nome per fare del bene, questo è sempre e comunque un segno positivo, perché ha riconosciuto l’importanza della sua persona, e finché non c’è una presa di posizione che si distanzi da lui, resta una vicinanza misteriosa con lui e perfino con i discepoli: «Chi non è contro di noi è per noi» (vv. 40-41). Esiste una parola, usata abbastanza frequentemente nel mondo ecclesiale, la parola «lontano». Chiamiamo «lontani» coloro che non si riconoscono nella comunità parrocchiale o nei movimenti cattolici. Chiamiamo «lontani» coloro che, in qualche modo, sono in una linea diversa dalla nostra quanto alla fede e al modo di viverla. Questa pagina di Vangelo mette profondamente in crisi questa categoria, e noi che l’abbiamo creata. Le persone che chiamiamo «lontani», infatti, «da chi» sono «lontani»? O «da dove» sono «lontani»? La lontananza da un certo modello di comunità ecclesiale è sempre identificabile con la lontananza da Cristo? E se i «lontani» li creassimo noi? Se fossimo noi a creare dei confini rigidi in base ai quali c’è chi è dentro e chi è fuori?

Certe persone che non conoscono il vangelo, ne sono talvolta più vicine di altre, sedicenti cristiane, che si vantano di conoscerlo, ma che con le loro infedeltà ne sono invece molto lontane. Il «lontano» che opera il bene ci interpella e ci provoca. La sua opera al servizio dell’uomo interroga la nostra religiosità, a volte così sterile e incapace di produrre solidarietà.

PREGHIERA - Siamo talmente affezionati alle nostre etichette, ai nostri registri ed elenchi, che ci balza subito all’occhio, Gesù, chi non è dei nostri, chi non appartiene al nostro gruppo, alla nostra comunità. E subito investiamo zelo ed energie per bloccarlo immediatamente, per impedirgli di agire nel tuo nome. Del resto ci chiediamo: Dove andremo a finire se gli estranei usurpano le tue parole e i tuoi gesti, un tesoro di cui noi solamente ci consideriamo eredi autorizzati?

Tu non sembri condividere il nostro comportamento e ci chiedi di usare determinazione e coraggio in tutt’altro senso: nello sradicare risolutamente il male che ha attecchito nel nostro cuore, nelle decisioni e negli atteggiamenti, in tutto ciò che scandalizza i poveri ed i piccoli. Gesù, donami la tua saggezza e liberami dalla fretta nel giudicare gli altri.

431 - VALUTARE SECONDO IL VANGELO

Per una pausa spirituale durante la XXVª Settimana del Tempo ordinario

1. GUIDATI DALLO SPIRITO SANTO. Non è mai stato semplice valutare secondo i criteri del Vangelo. Oggi le difficoltà sembrano decisamente ingigantite. Viviamo in un periodo storico di grandi convulsioni che mettono in crisi anche i criteri ritenuti da sempre come il fondamento della vita e della convivenza umana. Lo smarrimento è grande, per tutti. Il discernimento, nei suoi diversi tipi e nelle sue diverse espressioni ed articolazioni, si trova in difficoltà. Certo, la finalità è chiara ed è sempre la medesima. Si tratta di conoscere la volontà di Dio e il suo disegno di vita e di salvezza. Così pure è evidente che la luce per il discernimento ci proviene dal Vangelo che è Gesù Cristo: in lui solo risplende il volto di Dio Padre, in lui solo risplende il volto dell’uomo («solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce [vere clarescit] il mistero dell’uomo», afferma il n. 22 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes). Non dobbiamo mai dimenticare l’aiuto che ci è assicurato: siamo figli di Dio, abitati e animati dallo Spirito Santo. Ricordiamo l’apostolo Paolo: i figli di Dio, abitati e guidati dallo Spirito di Dio, vivono secondo lo Spirito (cfr. Rm 8,1-17), «camminano secondo lo Spirito» e producono «il frutto dello Spirito» (cfr. Gal 5,22-24). Sempre Paolo ci avverte anche che l’esercizio della nostra libertà è reso difficile dal fatto che dobbiamo combattere una dura battaglia contro gli spiriti e le potenze del male (cfr. Ef 6,12). È per questo che egli esorta a fare discernimento (cfr. 1 Cor 12,10), perché siamo esposti a molteplici fraintendimenti e soprattutto siamo condizionati dal modo di pensare del mondo, dai suoi criteri e dalle sue ‘agende’. Così rischiamo di prescindere da Dio, non teoricamente, ma praticamente, fino a dimenticarlo nelle valutazioni e nelle scelte.

Questa è la questione seria: il primato di Dio nella nostra vita e nelle nostre comunità cristiane. Se si dimentica la relazione fondamentale, la relazione con Dio, se essa non è viva e vissuta, allora viene meno il criterio decisivo, viene a mancare la bussola per il nostro orientamento e la luce per il nostro cammino. Anche le nostre relazioni umane stentano ad avere la loro forma precisa se manca la relazione fondamentale e decisiva con Dio. Anche la nostra libertà diventa svuotata senza il riferimento a Dio che è l’Amore, la Verità, il Bene. Allora si creano le divisioni e le contrapposizioni forzate, non si edifica la comunione ecclesiale, non si concorre all’avvento del Regno di Cristo che è regno di giustizia, di amore e di pace. Lo Spirito è libertà: non può essere guidato dallo Spirito chi si lascia trascinare nella schiavitù. Lo Spirito è amore: non può operare dove manca la comunione. Lo Spirito è verità: non può essere percepito da chi è prevenuto o accecato da problematiche interessate e da pregiudizi. Solo nello Spirito ci viene donata sia la luce che tiene desta la nostra intelligenza sia la forza che rende robusta la nostra volontà. Lo Spirito è colui che dona la vera libertà, cioè la capacità di pensare, di agire e di vivere secondo scelte consapevoli, mossi da convinzioni vere, e non per ciechi impulsi o per imposizioni esterne.

2. ILLUMINATI DALLA LUCE DELLA FEDE PASQUALE. È la fede pasquale che illumina tutta la vicenda umana e dona la grazia di uno sguardo attento e vigile che non dimentica, pur nella simpatia per il tempo in cui si vive, i tanti elementi di sofferenza, di negatività, di male, di peccato presenti nel cuore del mondo e nel cuore dell’uomo. La Pasqua parte dalla croce, dall’oscurità, dalla morte. La via crucis conduce al Calvario, con il pianto, lo smarrimento e il silenzio del Venerdì santo. Quella dolorosa via della croce diventa la consolante via lucis: all’alba del primo giorno dopo il sabato risuona l’annuncio della Vita che ha sconfitto la morte. Il Crocifisso è il re della gloria, «il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa!». La croce non è il fallimento, non è l’esito di un insuccesso. Sulla croce Cristo manifesta l’offerta di amore che giunge al dono smisurato della propria vita. E nel Figlio, crocifisso per amore, il Padre manifesta e dona agli uomini il suo abbraccio paterno. Ai piedi della croce scopriamo l’amore che si consegna nella pura gratuità e nella debolezza e impariamo ad amare ciò che Dio ama. Dalla croce Gesù ci consegna il suo spirito e quindi una vita nuova, la sua, per stare nella storia lasciando affiorare nelle nostre decisioni e nei nostri gesti il suo amore per il Padre e il suo amore per ogni uomo e soprattutto per i più derelitti. Animati dallo Spirito, la lieta notizia della Vita che ha vinto il peccato e la morte ci consente di stare nella storia e di cogliere in essa i ‘gemiti dello Spirito’ che ci interpellano per una nuova alleanza tra cielo e terra. Allora si possono cogliere i frammenti di speranza sparsi nell’agitarsi degli uomini, si può mettere in tensione la storia verso la sua pienezza.

3. CAPACI DI DISCERNERE I SEGNI DEI TEMPI. Il concilio Vaticano II invita a riconoscere i ‘segni dei tempi’: «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (Gaudium et Spes, n. 4). Ricorda poi che il popolo di Dio deve discernere negli avvenimenti del mondo «i veri segni della presenza o del disegno di Dio»: il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane (n. 11). In questo impegno di discernimento «la Chiesa non ignora quanto ha ricevuto dalla storia», afferma sempre la Costituzione pastorale Gaudium et Spes (n. 44). Possiamo subito aggiungere che il verbo al passato – «quanto la Chiesa ha ricevuto» – non esclude il presente: la Chiesa non ignora quanto riceve dalla storia passata e presente. Si tratta, prosegue il concilio, di «ascoltare, discernere, interpretare i vari linguaggi del nostro tempo»: è, questo, un preciso dovere del popolo di Dio. Nella visione cristiana, il ‘tempo’ non è solo kronós, successione di fatti e avvenimenti, ma è soprattutto kairós. Pur nelle incognite degli accadimenti, ciò che accade e si manifesta deve essere accolto con occhio attento e vigile: in quel fatto scorgiamo un appello che ci interpella nella nostra libertà e nella nostra responsabilità. Il tempo è ‘favorevole’ non solo e non tanto a motivo delle circostanze, quanto per il modo in cui affrontiamo i fatti e le situazioni. Come quando si riceve una visita inaspettata: non sappiamo chi veramente sia colui che ci visita e che cosa rappresenterà per noi. Se, insieme alla vigilanza, manifestiamo l’accoglienza, allora quella visita può diventare tempo favorevole, può essere una sorprendente novità e diventare un inaspettato kairós. Ciò che appare semplicemente generato dalla storia e dalla sua contingenza può essere come una porta che si apre verso l’oltre della storia; ciò che si manifesta come un’irruzione di novità può essere come l’inizio di un tempo veramente diverso. Allora, più che interrogarci sul perché accade questo o quello, diventa preminente comprendere come sia possibile vivere in quella determinata situazione come popolo del Signore e come figli di Dio. È dunque necessario essere sempre molto vigilanti, certo, ma è pure importante cogliere l’‘occasione’ che, alla luce della fede, diventa appello alla coscienza e stimolo alla conversione. Possiamo essere visitati e interpellati come Abramo alle querce di Mamre: «vide tre uomini che stavano in piedi presso di lui» (Gen 18,1-15). Gli occhi devono essere aperti, le orecchie devono essere attente, il cuore deve essere ospitale per accogliere la ‘novità’ di Dio nelle vicende della storia. È il Signore che, domandandoci di valutare il tempo, ci chiede d’interpretare ciò che avviene nel mondo per cogliere le vere domande dell’uomo e favorire la crescita dei più autentici desideri del cuore umano. Questo avviene se siamo guidati dallo Spirito e illuminati dalla luce pasquale.

sabato 22 settembre 2012

430 - AI PICCOLI HAI RIVELATO IL REGNO DEI CIELI - 23 Settembre 2012 – XXVª Domenica Tempo ordinario

(Sapienza 2,12.17-20 Giacomo 3,16-4,3 Marco 9,30-37)

Gesù sta parlando di sofferenza e di morte, i discepoli invece discutono tra loro su chi sarebbe stato il più grande nel regno futuro. Evidentemente avevano capito poco o nulla del discorso di Gesù. Dopo che sono entrati in casa, Gesù chiede loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?» (v. 33), essi però non vogliono rispondere. Gesù, conoscendo i loro pensieri, offre il suo insegnamento accompagnandolo con un gesto simbolico: chiama un bambino e lo pone in mezzo a loro (v. 36). Davanti a quel bambino si sentono imbarazzati e anche un po’ buffi, ma questo contrasto serve a Gesù per trasmettere un messaggio importante. Posando la mano sulla spalla di quel bambino, Gesù dice: se ci tenete tanto a diventare grandi agli occhi di Dio e a occupare i primi posti nel Regno, dovete diventare come questo bambino. Naturalmente Gesù non intende dire agli apostoli che devono ripercorre all’indietro i loro anni, chiede invece di acquisire una mentalità semplice come quella dei bambini. Si tratta di abbandonare il desiderio di primeggiare che li sta prendendo, si tratta di non essere ambiziosi e di non voler stare un gradino al di sopra degli altri. Il bambino dipende docilmente e spesso totalmente dagli altri. Anche questo punto di vista diventa esemplare per i discepoli, perché nel loro rapporto con Dio devono acquisire un atteggiamento di dipendenza docile e spontanea per lasciarsi condurre per mano da lui. Gesù conclude le sue parole dicendo: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (v. 37). Questo immedesimarsi di Gesù nel bambino ribadisce ancora una volta l’efficacia del modello proposto: il bambino, proprio perché indifeso, docile e incapace di ambizione, diventa immagine di Gesù che, pur essendo Dio, si è fatto piccolo, umile, per incontrare l’uomo.

Marco mette volutamente in contrasto il cammino dei discepoli «lungo la via» (cfr. v. 30) e il loro ritrovarsi «in casa» con Gesù (cfr. v. 33). Lungo la via discutono su chi sia il più grande, il loro camminare è ancora segnato da interessi mondani. È necessario raccogliersi in casa con lui e lì lasciarsi istruire. La «strada» diventa immagine di un modo di essere e pensare lontano da quello del Maestro, mentre la «casa» simboleggia il momento in cui ci si mette alla sua scuola. Quando sono in casa, infatti, Gesù si siede e imparte il suo insegnamento. Da questa «cattedra» egli offre una lezione sullo stile di vita del cristiano: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (v. 35). Non è neppure un caso che i destinatari di questa istruzione non siano più i discepoli in generale, come era finora, ma i Dodici. Essi sono i capi nella comunità di Gesù, le autorità riconosciute, perciò sono proprio loro a dover essere istruiti sullo stile di vita del vero discepolo. La Chiesa per Marco è fatta di primi e di ultimi, ma i primi e gli ultimi non sono quelli che appaiono più grandi o più piccoli, ma coloro che sono o non sono come Gesù, servo che dona la vita.

Ricchezza, potere, piacere, sono le cose che molti, oggi come ieri, mettono in cima alla scala dei valori, e per conseguirle sono disposti a sacrificare tutto il resto. Gesù rovescia questa scala di valori, e pone al vertice l’umiltà, la povertà, la croce. La grandezza cristiana consiste nel mettere se stessi al servizio degli altri. «Servire» è il verbo che sintetizza tutta la vita di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45), e che deve caratterizzare la vita del cristiano. Questo «servire» non ha limiti, non dice mai basta. La vera grandezza davanti a Dio non dipende dalla riuscita materiale, dallo spessore del proprio portafoglio, da un conto in banca con parecchi «zero», ma nel mettere la propria vita a servizio degli altri. Purtroppo per molti «riuscire» nella vita significa far soldi a palate, salire sul podio degli onori, raccogliere a piene mani le gioie della vita. Contro questa mentalità «terra terra» Gesù proclama che non esiste grandezza se non viene dal dono di sé disinteressato e generoso, dal servizio verso gli altri, soprattutto dei più indifesi e disprezzati. Perciò chi accoglie un «bambino» (= un piccolo, un povero) accoglie Gesù, anzi accoglie il Padre.

PREGHIERA - Potrei anche tentare, Gesù, di raggiungere gli ultimi posti, di diventare il servo di tutti, di consacrare energie e risorse alla loro riuscita, al loro bene. Non sarebbe facile, lo ammetto: si tratterebbe di morire al mio orgoglio, alla mia superbia, al bisogno insano di emergere, di primeggiare, di impormi all’attenzione e alla stima di tutti.

Ma se poi veramente si dimenticano di me, se poi finiscono col prendermi come il debole di turno, l’ingenuo e il buono che riescono a sfruttare per il loro successo? Ecco quello che temo più di tutto: che si dimentichino di me, delle mie doti, delle mie capacità, che non mi circondino più del loro apprezzamento, della loro considerazione, del loro consenso.

Mi metterei anch’io a servizio con contratto a tempo determinato, se avessi la sicurezza di guadagnarmi uno scatto consistente di carriera. E invece tu mi chiedi di farlo a tempo pieno, fino in fondo, senza limiti, sicuro che tu non mi abbandonerai.

429 - ANCHE NOI COME PIETRO

Per una pausa spirituale durante la XXIVª Settimana del Tempo ordinario

Davanti all’indeterminazione e all’indecisione che caratterizzano i pareri della gente, Pietro esce allo scoperto e non tace la sua convinzione: per lui Gesù è il Cristo, il Messia. Ma cosa mette dietro a questo titolo con cui si designa il ‘consacrato’, l’‘inviato di Dio’? Molti di quelli che erano rimasti attratti da Gesù attendevano un liberatore, un capo che avrebbe guidato il popolo ebreo nel cacciare fuori dalla sua terra i romani e i loro dèi, tutti gli impuri e le loro usanze. Ritenevano che, in caso di necessità, se era veramente il Messia, Dio lo avrebbe aiutato con legioni di angeli. In questo contesto l’annuncio dato da Gesù sulla sofferenza che l’attendeva non poteva essere facilmente inteso e digerito.

Anche noi come Pietro abbiamo fatto la nostra professione di fede. E abbiamo riconosciuto che Gesù non è solamente un maestro eccezionale, un profeta vigoroso, un uomo saggio, ma è il Cristo, il Figlio di Dio. Abbiamo trovato le parole giuste per dire quello che ci passava per la mente ed il cuore e abbiamo percepito di essere giunti ad un approdo importante della nostra vita. Lo abbiamo ascoltato a lungo, ci siamo soffermati a meditare i vangeli, abbiamo percorso i racconti dei suoi gesti meravigliosi di liberazione, di guarigione, di misericordia. La conclusione a cui siamo giunti ci ha colmati di gioia e di entusiasmo. Ma ora le sue parole sono come una doccia fredda. Non successo, consenso, popolarità, assunzione di poteri, percorso trionfale, ma condanna, riprovazione, sofferenza, croce, morte.

Sì, anche noi, come Pietro, abbiamo avvertito il bisogno di dirglielo. Discretamente, in disparte, a tu per tu, senza fare strepito. «Signore, io ti voglio bene e quindi mi auguro che queste cose non ti accadano mai». Tu ti meriti di vincere, non di essere sconfitto. Tu sei in grado di sbaragliare i tuoi nemici, cosa ti può fare la loro condanna? Tu sei il Figlio di Dio: fatti rispettare, dunque, mostra la tua forza! Sì, anche noi, come Pietro, ci siamo sentiti rimproverare, e ci ha addirittura chiamati ‘satana’, un impedimento, una tentazione sulla sua strada.

È vero: nell’euforia ci pareva di aver già capito tutto, di indovinare quale sarebbe stata la continuazione folgorante. È vero: davamo per scontato che Dio la pensasse come noi e che le nostre strategie fossero in perfetta sintonia con i suoi progetti.

È vero: finché resta un ornamento prezioso, un oggetto artistico, un simbolo prezioso da mettere al collo, la croce, tutto sommato, ci piace. Ma quando diventa vera, autentica, un fardello pesante da portare, un legno a cui venire inchiodati, uno strumento di dolore e di morte… Allora no! Non ci stiamo più!

Sì, lo sappiamo, ‘dopo’ viene anche la risurrezione, ma ‘intanto’ ci troviamo in una situazione di pericolo, di insicurezza, di fallimento… ‘Dopo’ tutto assume un senso, ma ‘intanto’ ci troviamo nel bel mezzo del guado con un oggetto ingombrante sulle spalle, nella parte degli sconfitti… Noi siamo pronti a guadagnare la vita eterna, ma non a perdere questa esistenza; disposti ad assicurarci un vantaggio enorme, ma non a correre un rischio mortale; fiduciosi nella tua potenza, ma non tanto da andar incontro a questi pericoli. Eppure non c’è un’altra strada. Non ci sono scorciatoie. Resta quel sentiero stretto che passa per il Calvario, ed è l’unico che porti al mattino della Pasqua!

A Gesù non basta essere identificato come il Messia, il Figlio di Dio. È ben altro quello che cerca. Cerca persone disposte a condividere la sua stessa esperienza di morte e di risurrezione, cerca discepoli pronti a prendere la loro croce e a seguirlo per una strada angusta che passa attraverso la collina del Calvario e giunge alla domenica della risurrezione. E allora non vi è nulla di più pericoloso che dichiarare la propria fede nel Cristo e poi cercare di piegare i suoi progetti alla nostra volontà.

Come può piacere la croce? Come spiegare una realtà che sembra in sé del tutto contraddittoria: che bisogna morire per risorgere, che bisogna perdere la vita per salvarla, che bisogna spezzarla per ritrovarla intatta? Umanamente non è possibile fornire alcuna prova: è questione di fiducia. E la difficoltà sta proprio lì: nel mettere la propria vita nelle mani di un Altro, Dio, rinunciando a farne quello che vogliamo noi. Rinunciando a spiegarsi tutto. Rinunciando a cercare di difendersi da quella sofferenza a cui Gesù ci chiede di andare incontro non in modo incosciente, ma per decisione.

Qualcuno prende la croce come una tegola che cade giù dal cielo e… a chi tocca tocca. Ma la croce di Gesù è frutto di una scelta: una fedeltà vissuta fino in fondo, a costo di morire, a costo di finir male. E questa fedeltà è troppo esigente per poggiare solo sulle forze esili di un uomo o di una donna. In effetti resiste unicamente quando poggia su Dio, sulla certezza che lui non abbandona mai e che un giorno proprio quello che, agli occhi di tutti, sembrava un fallito, uno che aveva sbagliato tutto, un ingenuo, aveva invece scelto l’unica strada possibile per ‘salvare’ la propria esistenza e quella degli altri.

Il vangelo di domenica (Marco 8,27-35) ci invita a cogliere l’atteggiamento fondamentale di un cristiano. Le parole di Gesù, certo, sono parole dure, che non è facile accettare, soprattutto se si considera l’esistenza come un’occasione per realizzare sogni di gloria, di successo, di potere. Eppure producono un benefico effetto perché dissolvono un equivoco. Non possiamo metterci davanti a Gesù, ma dietro di lui, decidendo di compiere lo stesso percorso. E quindi non possiamo evitare la croce, cioè la disponibilità a «perdere la propria vita» per lui e per il Vangelo. Il compito che ci viene affidato è una missione d’amore: deporre nel vuoto assoluto d’amore che è la morte la pienezza dell’amore del Padre per gli uomini. Seguire Gesù vuol dire allora accettare di offrire la propria vita, gioie e dolori, perché egli ne faccia un luogo di incarnazione del suo amore, quell’amore che dirà l’ultima parola con la risurrezione.

sabato 15 settembre 2012

428 - CHI È GESÙ? - 16 Settembre 2012 – XXIVª Domenica Tempo ordinario

(Isaia 50,5-9 Giacomo 2,14-18 Marco 8,27-35)


La domanda: Chi è Gesù? dà unità e dinamismo a tutta la prima parte del vangelo di Marco: si incontra per la prima volta nella guarigione di un indemoniato, nella giornata tipo di Cafarnao (1,27); viene ripresa nelle controversie con i capi dei giudei (2,7); risuona sulla bocca dei discepoli nel miracolo della «tempesta sedata» (4,41). Il momento culminante dell’inchiesta sull’identità di Gesù si ha nell’episodio di Cesarea di Filippo, che costituisce lo spartiacque del vangelo. La confessione della vera identità di Gesù è riservata ai discepoli, che sono portati a riconoscere chi si nasconde nella persona del loro Maestro da una serie di segni che culminano nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque del lago (6,50: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!»). L’affermazione «Io sono» nell’AT è riservata solo a Dio (6,45-52). La confessione dei discepoli non è solo una deduzione legata a quanto hanno visto e udito, è una specie di guarigione dal torpore dei sensi, espresso simbolicamente da due miracoli che precedono questo momento: la guarigione di un sordomuto (7,32-35) e la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26). Gesù accetterà il titolo di Messia, ma d’ora in avanti cercherà di chiarire in che senso sia Messia. I discepoli devono capire e accettare che il messianismo di Gesù deve passare attraverso la sofferenza e la morte.

Gesù si era sempre preoccupato di mantenere nascosta la sua vera identità, ora interroga i discepoli circa l’opinione della gente e la loro propria opinione nei suoi riguardi. Questo significa che siamo a una svolta importante del vangelo. I discepoli, rispondendo alla domanda di Gesù, riportano i pareri della gente: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti» (v. 28). Da queste risposte si evince che la gente, nonostante lo stupore e l’ammirazione per i poteri straordinari manifestati dal rabbî di Nazareth, è rimasta nell’indeterminatezza e nell’indecisione, non è arrivata a riconoscere Gesù per quello che veramente è. Gesù personalizza la domanda, e Pietro esprime la convinzione che lui e i discepoli si sono fatti: «Tu sei il Cristo» (v. 29). Resta però da precisare che cosa i discepoli intendano per «Messia»: da una parte, la professione di fede in Gesù-Messia indica che i discepoli si sono finalmente decisi per lui, hanno riconosciuto nel rabbî di Nazareth il Salvatore promesso da Dio e mandato a instaurare il regno; d’altra parte, non si può escludere che Pietro e i discepoli siano ancora nella linea dell’attesa messianica coeva, rivolta verso un liberatore politico, un glorioso re nazionale; in questo senso, la loro fede deve essere ancora approfondita e purificata. Proprio per questo Gesù proibisce loro di manifestare la sua vera identità alla gente (v. 30), vuole cioè evitare che si dia un senso sbagliato alla sua missione.

Gesù, dopo la confessione di Pietro, cerca di far capire ai discepoli la natura del suo messianismo. Non sarà un messia potente e glorioso, ma un messia che donerà la salvezza passando attraverso la sofferenza e la morte (v. 31). Pietro, però, non capisce, si scandalizza (v. 32). La reazione di Pietro incarna quella degli uomini di tutti i tempi di fronte al mistero e allo scandalo della croce. Ma il centro della fede è proprio questo: credere alla gloria del Figlio di Dio e insieme accettare l’umiliazione della croce; il mistero della persona di Gesù sta nella sintesi di questi due elementi. Gesù è un messia crocifisso, è l’uomo dei dolori, il servo sofferente annunciato e descritto dai profeti, mandato dal Padre per salvare l’uomo ed elevarlo alla dignità di figlio di Dio. Egli non solo si è rivestito della nostra umanità, ma deve anche pagare il prezzo più alto: quello del sangue. Si tratta di un mistero insondabile che ha una sola spiegazione: l’amore di Dio per l’uomo, sua creatura privilegiata.

Essere discepoli di Gesù significa seguire il suo stile di vita, fare le sue stesse scelte, accettare la logica del vangelo. Al termine della vita di Gesù ci fu la croce; essa però era già una realtà a ogni passo, come conseguenza della decisione di seguire come unica proposta di vita la volontà di Dio. «Prendere la croce» significa decidere di rimanere fedeli a Cristo, anche a costo di rimetterci la vita. La croce naturalmente non va cercata per se stessa, non è frutto di autolesionismo, è invece segno di un amore senza misura, e quindi di una vita non persa ma realizzata, segno della propria fedeltà a Cristo. Come Gesù ha salvato il mondo con il suo apparente fallimento sulla croce, così anche il discepolo ogni volta che sopporta sofferenza e persecuzione per non cedere al compromesso, per essere fedele a Dio e al suo piano sul mondo, diventa causa di salvezza, manifestazione della potenza di Dio che salva per mezzo della croce. «L’albero della croce è il pilastro dell’universo e il sostegno del mondo» (Ippolito di Roma), ed è pure il pilastro e il sostegno di ogni esistenza, anche se spesso è difficile accettarla.

PREGHIERA - Quante volte anch’io, come Pietro, ti ho riconosciuto con gioia come il Cristo, il Figlio venuto a salvare il mondo. E tuttavia basta poco per incrinare il mio entusiasmo: appena tu cominci ad annunciare il passaggio doloroso e angusto che tu hai attraversato e che proponi anche a me, subito mi lascio afferrare dalla paura e quasi quasi pretendo di farti cambiare itinerario.

Sì, lo ammetto: sono allergico alla sofferenza e alla croce, al rifiuto violento che investe la mia persona e la mia vita, e non me la sento di andare incontro all’insuccesso e al fallimento, all’abbandono e alla solitudine… Ma non esiste proprio la possibilità di raggiungere per un’altra via la luce radiosa della risurrezione?

Devo proprio sprofondare nel gorgo oscuro della morte per approdare alla pienezza di una comunione senza fine? Gesù, non abbandonarmi a tutte queste paure, non permettere che a parlarmi siano le tenebre e l’angoscia, ma una fiducia colma di speranza!

427 - EFFATÀ NEL RITO DEL BATTESIMO: IL SUO SIGNIFICATO

Per una pausa spirituale durante la XXIIIª Settimana del Tempo ordinario
Già nelle antiche fonti liturgiche il gesto dell’Effatà è conosciuto nei riti battesimali associato particolarmente all’ultimo esorcismo sugli eletti. Ambrogio lo chiama apertio aurium: «Che cosa abbiamo fatto sabato? Un’apertura (apertio) evidentemente. Quali misteri sono stati celebrati nell’apertura quando il sacerdote ti ha toccato le orecchie e il naso?» (De sacramentis 1,2-3). Il gesto, che riguardava anche le narici, si poneva esplicitamente in linea con una precisa azione di Gesù e, d’altra parte, trovava nella ritualità iniziatica la sua nuova collocazione. La mistagogia di Ambrogio cerca di mantenere questo ponte tra l’evento narrato in Mc 7,31-37, dove Gesù compie un atto di guarigione nei confronti di un sordomuto, e l’oggi dei catecumeni chiamati alla liberazione dal male e all’accoglienza della nuova vita.

Il Rito per l’Iniziazione Cristiana degli Adulti (RICA) e il Rito del Battesimo dei Bambini (RBB), scaturiti dalla Riforma liturgica conciliare, per una maggiore aderenza all’episodio evangelico, non contemplano il gesto di toccare le narici e prevedono, invece, il riferimento alla bocca. Il RICA allude alla guarigione operata dal Signore più esplicitamente mettendo in bocca a colui che presiede le stesse parole di Cristo, ampliate dal nuovo significato («Effatà, cioè: Apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio», 202), il RBB vi allude in modo più velato tralasciando le parole di Gesù e utilizzando la forma dell’auspicio («Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre», 74). In entrambi i casi, viene motivato il gesto con il contenuto di fede, in maniera sintetica per gli adulti dove l’apertura degli organi dell’udito e della parola è finalizzata alla professione di fede, e in maniera più estesa per i bambini dove, dopo aver evocato l’episodio evangelico e in particolare l’espressione di stupore della folla (Mc 7,37), si evidenzia l’antitesi tra la sordità e l’afasia del sordomuto e l’ascolto della parola di Dio e la professione di fede da parte del credente. Inoltre, mentre nel RICA il rito dell’Effatà è collocato tra gli elementi preparatori ai sacramenti dell’iniziazione, nel RBB è posto tra le azioni successive al battesimo.

Affine a questo gesto non si può sottacere quanto avviene nel Rito di ammissione al catecumenato (RICA 83-87): colui che presiede, i catechisti e i garanti tracciano sulla fronte dei candidati un segno di croce. Successivamente, seppure in via facoltativa, il segno di croce può essere tracciato sui sensi: sugli orecchi «per ascoltare la voce del Signore», sugli occhi «per vedere lo splendore del volto di Dio», sulla bocca «per rispondere alla parola di Dio», sul petto «perché Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori» e sulle spalle «per sostenere il giogo soave di Cristo».

Il gioco simbolico che emerge dall’analisi rituale aiuta a comprendere la profonda unità tra dentro e fuori, corpo e spirito. Il soggetto è chiamato a vivere il dono della fede non al livello dell’intenzione o del puro afflato interiore, ma nella totalità di alcune azioni basilari: ascoltare e parlare, recepire una parola proclamata e confessare con la voce la propria fede. Il suono, emanato e ricevuto, non è dunque innocuo per la dinamica della fede: non si crede infatti a ciò cha già si sa, ma si dà il proprio assenso a Colui che fa risuonare la sua inconfondibile parola hic et nunc. Non soltanto l’udito e il linguaggio sono rilevanti in questo segmento rituale, ma anche il tatto: esso esprime prossimità, rimuove le distanze tra i corpi e, soprattutto nel nostro caso, trasmette energia nuova al corpo che accoglie il gesto. Si tratta di ‘aprire’ l’uomo che non può rimanere chiuso e isolato nei confronti dei fratelli e di Dio; contro ogni astrazione il rito iscrive nella persona la convinzione che Dio è forza che risana e rinnova nel corpo e nell’intimo. Non questo senza quello. Siamo nella prospettiva del passaggio tra morte e vita, che ogni rito iniziatico comporta: il battezzato è chiamato a passare decisamente alla vita e a non essere un morto che cammina, incapace di comunicazione, di ascolto docile, di parola sincera, di dialogo cordiale. L’Effatà, allora, è un rito promettente poiché si apre al futuro e supera ogni nostalgia di morte.

Contrariamente a quanto avveniva nella “Estrema Unzione” del Rituale tridentino, nell’Effatà gli organi di senso non vengono toccati quali sedi di eventuali azioni malvagie, ma quali possibilità concrete di incontrare la salvezza di Dio. La parola e il gesto ‘toccante’ del presidente concorrono a stabilire una possibilità inedita dove la persona si lascia plasmare dalla parola che ascolta e interviene da protagonista nella professione di fede e nella lode.

Evidentemente anche l’Effatà domanda ai celebranti, pastori e fedeli, una maggiore consapevolezza del valore del corpo nell’opera della salvezza e nella liturgia. La fede, infatti, passa in primis attraverso un corpo toccato da una Parola reale, e non metaforica, e si sostiene grazie a continue professioni di fede all’interno della comunità di credenti. Mani, bocca e orecchi diventano, così, organi della vita nuova in Cristo nell’inizio simbolico affidato al rito che sancisce il primato della grazia di Cristo e nella testimonianza quotidiana del dono ricevuto.

domenica 9 settembre 2012

426 - UN GESTO SIMBOLICO - 09 Settembre 2012 – XXIIIª Domenica Tempo ordinario

(Isaia 35,4-7  Giacomo 2,1-5  Marco 7,31-37)
La guarigione del sordomuto non è uno dei tanti miracoli di Gesù, se proprio quel gesto dell’“Effatà! Apriti!” viene ripreso tutte le volte che si celebra un Battesimo. Perché? Perché è un gesto simbolico che mostra concretamente le conseguenze dell’incontro con Gesù. Egli ci strappa ai nostri isolamenti, a quelli forzati, obbligati, senza alcuna nostra colpa, ma anche a quelli voluti, cercati. Così noi veniamo restituiti alla comunicazione con gli altri: dal sospetto e dalla sensazione di estraneità, passiamo alla benevolenza, dal rifiuto alla solidarietà e alla condivisione. E tutto questo è reso possibile da un nuovo rapporto con Dio: un Dio che ci raggiunge con la sua Parola per offrirci la sua amicizia, la sua alleanza, un Dio al quale possiamo rivolgerci con la spontaneità e la franchezza dei figli.
Anche la comunicazione con Dio si nutre e si sostiene attraverso l’ascolto e la parola di risposta. Ecco perché il gesto con cui Gesù ha compiuto il miracolo viene ripetuto ad ogni Battesimo. «Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre»: sono parole che spesso vengono ignorate perché si trovano proprio sul finire del rito. Eppure sono straordinariamente importanti. Ci richiamano ciò che è fondamentale nella nostra relazione con Dio. Non possiamo incontrarlo se non accogliamo la sua parola: rischiamo di perderci in tragici equivoci in cui gli attribuiamo un volto e delle intenzioni che non gli sono propri. Non possiamo vivere una autentica relazione con lui, se non rispondiamo al messaggio di amore e di verità che ci ha raggiunto …
Però … purtroppo ai preti questo gesto non ‘riesce’ sempre. Ci sono cristiani che restano muti, cioè non sentono mai il bisogno di rivolgersi a Dio, e molti di più che rimangono chiusi nella loro sordità, impenetrabili alla sua Parola. Da chi dipende? Penso che le cause non siano da cercare nell’abilità del celebrante, ma in coloro che circondano un bambino fin dai primi giorni e hanno tanta influenza sulla sua vita. Sì, si tratta proprio dei suoi genitori! Sono loro che hanno il compito delicato ed esaltante di aprirlo a Dio… ma se loro stessi sono ‘bloccati’, come realizzeranno questa missione? Non c’è altra via d’uscita se non quella di chiedere a Gesù di ripetere il miracolo, magari servendosi di qualche cristiano che è già stato guarito!
Tutti siamo un po’ sordomuti… Tutti noi attraversiamo dei periodi in cui siamo sordomuti, in cui rimaniamo bloccati, irrigiditi. Sordomuti nel rapporto di coppia o con i figli. Bloccati nei confronti di coloro che ci vivono accanto, dai colleghi di lavoro ai vicini di casa. Irrigiditi nella nostra incapacità di trovare la strada per una qualche comunicazione.
Anche nella Chiesa di Dio si vivono esperienze di mutismo e di sordità. Sordità di fronte ad una Parola che non arriva al cuore perché siamo troppo indaffarati. Mutismo di fronte ad un Dio a cui ripetiamo stancamente solo frasi fatte. Mutismo dei laici a cui non viene data la parola se non nella santa assemblea per rispondere con formule prefabbricate. Mutismo dei pastori di fronte a tante situazioni della vita comune, che richiedono una parola profetica e coraggiosa. Sordità dei fedeli e dei pastori di fronte a richieste che si finge di non aver nemmeno udito. Ma se qualcuno ci porta da lui, Gesù, c’è la possibilità di sentirsi dire: «Apriti!» e di conoscere una comunione insperata.
PREGHIERA - Ci sono condizioni che appaiono ineluttabilmente bloccate e sembra che non ci sia proprio nulla da fare, Gesù. Del resto come affrontare l’impossibilità di intendere la parola che ci raggiunge e l’incapacità di dare voce a quel che passa per l’anima? Non rimane che rassegnarsi, allora, ad una chiusura a doppia mandata che impedisce qualsiasi comunicazione? E cosa fare quando c’è una sordità che ci rende impenetrabili alla voce stessa di Dio, alla tua Buona Novella, quando un mutismo ostinato impedisce qualsiasi risposta all’amore che tu ci offri?
Ecco perché tu sei venuto: per guarirci nel profondo, per donarci una possibilità insperata di vivere in comunione con te e con il nostro prossimo, di proclamare con gratitudine i tuoi gesti di salvezza e per rispondere con l’intera esistenza ai doni smisurati della tua grazia.
Pronuncia, dunque, anche su di noi il tuo “Effatà” perché si aprano finalmente i miei orecchi e la mia lingua dica tutta la gioia che invade i miei giorni.

sabato 8 settembre 2012

425 - VEGLIARE DAL PROPRIO CUORE

Per una pausa spirituale durante la XXIIª Settimana del Tempo ordinario

L’invito è perentorio. Vigilare sul proprio cuore è la condizione essenziale per realizzare la propria vocazione umana, inscindibile dalla comunità in cui si è inseriti e dalla più ampia comunità degli uomini. Oggi si parla, con significato analogo, di “cura dell’anima” o di vita spirituale che si alimenta di contemplazione e di silenzio. Nella tradizione biblica si parla piuttosto di cuore (kardía) o di reni, per mettere in evidenza le diverse dimensioni dell’umano: quella esterna che si espone alla percezione dell’altro e quella interna che sfugge spesso all’occhio dell’uomo, ma non a quello penetrante di Dio. Quello che è interno dà valore all’esterno, nella misura della corrispondenza tra le due dimensioni. Se non esiste questa corrispondenza, tutto appare falso e non autentico. Si può celare il proprio mondo interiore allo sguardo di tanti, compresi quelli che ci sono più vicini, con cui condividiamo la quotidianità dell’esistenza, ma non lo si può nascondere a Dio che è per eccellenza il conoscitore del cuore umano.
Il cuore è il luogo dei sentimenti, dei pensieri, dei progetti e quindi delle decisioni in cui ne va di noi stessi. I progetti operativi incidono nelle relazioni dirette e nelle strutture che vengono costruite insieme. Le istituzioni infatti possono essere capaci di favorire le relazioni tra le persone o possono essere estremamente oppressive, avvolgendo persone, cose, la natura stessa dentro la logica del dominio. Non è un caso che anche nei documenti ecclesiali più impegnativi, da qualche anno circoli l’espressione «strutture di peccato» e che siano dichiarate effetto di un’attenzione inadeguata, o addirittura di opposizione alla dimensione morale, che conduce inevitabilmente alla disumanizzazione della vita associata. La coscienza interiore (il cuore) è criterio morale di azione e bisogna seguire quanto essa detta. È il significato della parola synéidēsis, che Paolo usa spesso nelle sue lettere.
Gesù manifesta una straordinaria coscienza di sé. Convinto com’era di possedere il potere di perdonare i peccati, si comporta di conseguenza richiedendo un’adesione totale ed esclusiva alla sua persona. Si presenta come una presenza decisiva sui cammini dell’umanità e della storia, e quale centro del progetto salvifico di Dio, eppure ha dovuto lottare per preservare la sua identità, il suo cuore, dalle pressioni dell’ambiente, dalle attese messianiche trionfalistiche e per tener fede al progetto divino su di lui, caratterizzato da un messianismo povero e addirittura inefficace agli occhi degli uomini, a cominciare da quelli dei suoi discepoli.
Le tentazioni diaboliche che deve affrontare all’inizio della sua missione, dopo aver ricevuto nel battesimo l’abilitazione carismatica alla sua missione, comportano una lotta drammatica e spossante nel suo cuore, che ha come teatro il deserto, il luogo della prova e della verità. Ancora più drammatica è la lotta che si svolge nel suo cuore lacerato dal desiderio di sfuggire alla morte violenta e insieme dalla spinta a fare la volontà del padre.Un conflitto interiore da cui emerge la sofferta decisione di rimanere fedele al progetto divino. Il cuore, dunque, ancora una volta come luogo della decisione: decisione di essere per la vita, pur sapendo che ciò comporta la morte del corpo, anche se essa non è definitiva.
Se, come si è detto all’inizio, il cuore nel senso biblico può essere considerato sinonimo di vita spirituale o di “cura dell’anima”, esso esige la contemplazione e il silenzio. Più che mai necessari nel mondo della comunicazione ininterrotta e della piazza (soprattutto mediatica) ribollente di voci contrastanti e devianti; nel mondo della creazione di bisogni indotti, che suscitano una continua tensione verso l’acquisizione di beni. Un trafelato presente in cui tutto è affidato all’esperienza del momento, con la perdita di senso e lo svuotamento dei criteri di rilevanza, che permettono di distinguere l’essenziale dal superfluo, il durevole dall’effimero.
Si tratta di Vite di corsa, per usare il titolo di un fortunato pamphlet di Zygmunt Bauman: gli individui sono immersi in un fiume inarrestabile di informazioni, di parole, di sollecitazioni, di seduzioni che sradicano la persona da sé, mantenendola in un’esteriorità largamente manipolata. «L’essere proprio di ciascuno è esteriorizzato, dominato da forze su cui non ha alcuna presa. Dipendenza che opera come una droga poiché diventa così vitale che è impossibile farne a meno» (Paul Valadier). Il filosofo tedesco Axel Honnet – allievo di Jürgen Habermas – parla, a questo proposito, di «patologie sociali gravi e destrutturanti», perché tendono a far disprezzare ogni forma di solitudine, senza la quale l’essere umano perde la propria interiorità e il proprio centro di gravità.
Senza momenti di solitudine, la persona è invasa, occupata, spossessata di se stessa, subisce un processo di ‘reificazione’, di costante inerzia spirituale che può essere disattivata solo nel silenzio, nella contemplazione, nel nutrimento della meditazione, nella frequentazione delle Scritture, in assoluta gratuità, senza attendersi vantaggi. Non si tratta solo di sfuggire dal rumore che ci circonda, ma di affrontare il rumore che ciascuno ha dentro di sé e di fare i conti con esso, di liberarsi da tutto ciò che preme dentro e distrae e obbliga a quel divertissement di cui parla Pascal, per aprirsi ed essere disponibili all’ascolto di Dio e del suo silenzio.
Silenzio che è necessario, perché il Dio cui ci si apre non è a nostra disposizione, non è obbligato a risponderci: va cercato e invocato nel silenzio interiore, nell’ascolto disponibile, nella rinuncia ad una ricerca troppo interessata. I mistici medievali parlano di ‘svuotamento’ e di ‘abbandono’ come premessa per entrare in relazione diretta con Dio. Un Dio che non risponde a comando. Con il suo silenzio ci aiuta a immergerci in una notte che purifica il nostro cuore, condizione dell’accoglienza di una Parola che si offre nella brezza leggera, nella presenza discreta, vissuta nel segreto, appunto, del nostro cuore.

 

sabato 1 settembre 2012

424 - DOVE NASCE IL MALE? - 02 Settembre 2012 – XXIIª Domenica Tempo ordinario

(Deuteronomio 4,1-8 Giacomo 1,17-27 Marco 1-23)

Gesù sembra affermare che il male non è esterno all’uomo, ma proviene dal di dentro. L’uomo è contaminato da ciò che produce il cuore, non dal contatto con sostanze estranee a lui. La questione anche qui è capitale: Dove nasce il male? Gesù sembra dire che il male nasce dall’interno dell’uomo. Questo non significa che l’uomo sia sempre cattivo, ma che l’uomo può coltivare il male dentro di sé. Il cuore, secondo Gesù, è la sede dove il male e il bene sono generati. Se l’uomo fa il male è perché dentro di sé ha coltivato pensieri cattivi, che si sono manifestati in azioni malvagie.
La vera frontiera tra puro e impuro passa attraverso il cuore dell’uomo – che nel mondo semita è la sede delle decisioni della persona. Tutto ciò che è esterno non lo tocca (cibi, riti, tradizioni), non compromette le relazioni. Tutto quello che invece parte dal cuore può essere buono o cattivo, puro o impuro. Dal cuore dell’uomo parte l’egoismo, l’orgoglio, la brama del piacere e dello sfruttare, sono queste cose che rompono la relazione con Dio. È su questo che occorre vigilare. Questo fa la differenza tra discepoli e non discepoli, non le consuetudini, che possono esserci, ma non sono decisive dal punto di vista religioso.
Il fariseismo è preoccupato dell’inquinamento che dall’esterno raggiunge l’uomo, ma il vero inquinamento è quello che ha sede e origine all’interno dell’uomo, perché è lì che nasce ciò che lo contamina: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi…» (v.21).
C’è sempre il rischio di polverizzare la legge di Dio in una serie di precetti, di seppellirla sotto una casistica da azzeccagarbugli, di imporre la legge della grazia con il ricatto della paura e la minaccia dei castighi, facendo perdere il nocciolo della questione, che è la retta intenzione, la legge dell’amore, la salvezza delle persone. Scrive sant’Ambrogio: «Una volta che tu abbia purificato ciò che sta nell’interno, hai purificato anche l’esterno; così se l’acqua scorre intorpidita, è inutile pensare di ripulire la cisterna, se l’acqua esce fangosa alla sorgente: non gioverà a nulla aver pulito le vasche, se il difetto è nella sorgente. Sei tu che devi purificarti per primo, se vuoi che da te scorra tutto ciò che è puro. Il tuo cuore è la sorgente da cui scaturiscono i tuoi pensieri. In quella fonte o viene vomitata l’acqua torbida dell’impudicizia, o sgorga la limpida vena della pietà».
Per far sì che le espressioni religiose dell’uomo non si riducano a formalità ipocrita e soffocante, è necessario riconoscere il primato della parola di Dio. Gesù, di fronte ai farisei, distingue tra ciò che sta veramente nella tradizione scritta della Parola e le pratiche successive aggiunte dalla «pietà» farisaica. Anche per la comunità cristiana vale questo principio, anche la comunità cristiana deve tornare sempre alla fonte vitale della Parola, per purificare le varie tradizioni che si sviluppano nel tempo all’interno della comunità dei credenti. Infine, è decisiva la questione dell’interiorità, del cuore dell’uomo, perché è lì che si decide la santità. L’evangelista Marco fa degli esempi che ricordano i dieci comandamenti (cfr. v. 22). Egli lascia intendere che il cuore dell’uomo è malato e deve guarire ispirandosi all’intenzione autentica di Dio, formandosi una coscienza morale realmente corrispondente al volere di Dio. Non si tratta di negare l’importanza e l’utilità delle forme esteriori, ma di fare sì che il cuore si formi secondo la mente di Dio, in modo che quanto l’uomo fa, le cose per cui si impegna, siano realmente trasparenza della vita divina che in Gesù è comunicata all’uomo. La parola di Dio rimane il criterio ultimo di giudizio dell’agire del discepolo di Gesù; la cosa importante non sono le pratiche esteriori, ma lo spirito di adesione alla volontà di Dio e di servizio del prossimo.

 PREGHIERA - Tu sai bene, Gesù, dove sta veramente il pericolo e non ti lasci impressionare da chi si ostina a compiere riti di purificazione per liberarsi dal male che proviene dall’esterno. Non è da quello, infatti, che dobbiamo guardarci, ma dalla cattiveria che esce dal profondo del nostro cuore e rivela un’esistenza deturpata e devastata.
Tu chiami per nome, Gesù, i diversi aspetti, le multiformi sembianze che assume questo male, capace di inquinare e rovinare seriamente questa nostra vita. Dal nostro cuore, infatti, possono uscire gesti e parole ispirati da vendetta ed astio, da invidia e gelosia, da malvagità e tradimenti, da voglie insane e piaceri sconsiderati, dalla superbia e dall’orgoglio.
Ecco il nome di quelle malattie che ci devono impensierire. Ecco su che cosa concentrare i nostri sforzi e il nostro impegno, se veramente desideriamo accogliere il tuo Vangelo.

423 - LA FEDE È UNA SCELTA

Per una pausa spirituale durante la XXIª Settimana del Tempo ordinario

Per i cristiani la fede è il nome della relazione che, mediante l’azione del suo Spirito, il Crocifisso risorto rende possibile in ogni tempo con lui. Credere è possibile a condizione di corrispondere alla sua offerta, nell’impegno della nostra libertà. Sotto questo aspetto, l’esperienza della fede non può che essere soggettiva, cioè calibrata sulla storia personale di ciascuno. Come non esistono due storie di amore uguali, così la decisione di credere assume in ciascuno tratti originali, come ben si vede nella straordinaria ricchezza delle biografie della santità.
Allo stesso tempo vale la pena almeno suggerire come la proposta di Gesù venga ad incontrare il dinamismo fondamentale della nostra libertà. La convinzione di questo approfondimento è che, per diventare credenti, si debba prendere sul serio la nostra umanità. Vi sono infatti alcune virtù della libertà – alcune condizioni affinché la libertà possa dispiegarsi senza mentire a se stessa – che valgono come requisiti per lasciarsi afferrare da Cristo. Due in particolare: a) la disponibilità a lasciarsi incontrare e b) la pratica della giustizia.
a) L’identità di ciascuno di noi prende forma nella trama di un riconoscimento. Dalla ricerca psicologica è stato ormai acclarato che l’ideale monologico è una tentazione pericolosa perché disumanizzante: pensare di venire a capo della propria libertà isolandosi dalla relazione significa tradire anzitutto se stessi. L’ideale autarchico viene smascherato come un clamoroso inganno, e la diffidenza come una riserva che isterilisce la vita. Umile dunque è la libertà che accetta di lasciarsi indicare da altri la direzione nella quale spendersi, mettendo in conto di non differire la propria implicazione, rimanendo “alla finestra”. La relazione è il luogo dove la libertà può scoprire la sua verità, perché la libertà ha una struttura estroversa: è in cerca di un legame che non la sopprima, ma la custodisca nella sua unicità.
b) Se il compimento della libertà è sospeso al destino delle relazioni, si profila una meta urgente e vincolante per la nostra umanità: custodire le relazioni nella giustizia. In termini tecnici è la “regola d’oro”. Possiamo tradurla così: per quanto dipende da me, voglio impegnare tutto di me per far essere l’altro come altro, offrendo un incontro che restituisca all’altro la dignità della sua libertà, fosse anche sul punto di terminare la sua esistenza; mantenendo certo la consapevolezza di non poter mai salvare (cioè detenere l’origine) della vita di altri, ma di poter condividere l’avventura misteriosa della vita (è la fraternità!). La forma simbolicamente più alta di questo atteggiamento è la generazione di un figlio, come atto che si estende fino al rischioso compito dell’educazione.
Chi si dispone a vivere così realizza anticipatamente quella speranza e quella carità che definiscono il singolare di Gesù. Infatti, chiunque entri nella vita cogliendola come un’opportunità buona per fare il bene (di contro abbiamo lo scoraggiamento e la disperazione, come anche la disposizione narcisistica e predatoria), anche se magari non esplicita il suo riferimento a Dio, professa fiducia nella verità buona dell’Origine (chiudendo, tra l’altro, le pratiche di risarcimento che rendono ardua l’accettazione di sé). Il brano di Mt 25,31-46 non offre un’alternativa solidaristica alla pratica della fede; piuttosto mette in scena la possibilità universale della fede proprio in ragione della sua forma cristologica. Ciò che soltanto i cristiani credono – che Dio in Gesù è colui che si offre per noi – è principio di una salvezza a portata di tutti: di tutti coloro che sono disposti ad amare, anche in perdita. In quali direzioni fondamentali viene orientata (convertita) la libertà di coloro che si lasciano incontrare da Cristo?

 1) Nel vocabolario paolino, cristiano è colui che è conformato a Cristo (Rm 8,29; Fil 3,10); che porta la sua immagine (1 Cor 15,49); che si riveste di Cristo (Rm 13,14; Gal 3,27; cfr. Col 3,10; Ef 4,24). “Vivere di fede” non designa dunque un vago riferimento ideale, quanto piuttosto una confessione determinata («Gesù è il Signore», Rm 14,9; Fil 2,11; Rm 10,9) ed una appartenenza totalizzante: «voi siete di Cristo» (1 Cor 3,23; 2 Cor 10,7; Gal 3,29; Rm 8,9; cfr. la metafora del sigillo: 2 Cor 1,22; Ef 1,13; 4,30). Il tema dell’inabitazione (Ef 3,17 e soprattutto Gal 2,20; cfr. Gal 4,19) ribadisce la radicalità di un legame nel quale l’identità singolare non viene dissolta, ma elevata ad una dignità inaudita: quella filiale. Il cristiano vive nella tensione – non spasmodica, ma amorosa – di conquistare colui dal quale è stato conquistato (Fil 3,7-12; cfr. 1 Cor 13,12), nella logica della corrispondenza ad una possibilità che gratuitamente ci anticipa (poiché: Ef 1,3; Col 1,15-21; allora: 2 Cor 5,17; Rm 6,11; 1 Cor 1,30). Essere «di Cristo» (cfr. 1 Cor 1,23; 6,15; Gal 5,24) comporta un decentramento da se stessi, persino un esproprio (cfr. Gal 2,20) che non è alienante, perché Gesù non è soltanto «vero uomo», ma “l’uomo vero”, ovvero l’uomo nuovo (cfr. Ef 4,24; Col 3,10; 1 Cor 15,47; Rm 5,14). Se la grazia della creazione reca la ferita della disobbedienza (cfr. Gen 3), la creazione nuova e definitiva è cominciata nell’obbedienza di Gesù ed è in gestazione nella nostra libertà sorretta dal suo Spirito. Per educarci a questo abbandono – da non confondere con la remissività e l’inattività parassitaria – la palestra privilegiata è la preghiera, che ci rende certi della nostra dignità filiale (cfr. Mt 6,9), abilitandoci a vivere – nella buona e nella cattiva sorte – alla sua Presenza (cfr. Mt 6,25-34).
2) Facendo eco alla testimonianza evangelica (cfr. Gv 8,32-36), Paolo annuncia che chi si lascia conquistare da Cristo diviene finalmente libero (cfr. Gal 5,13), perché nulla può contro il suo amore per noi (cfr. Rm 8,31-39). In particolare, la libertà che ci viene da Cristo spezza i ceppi della paura che sempre attanaglia l’amore. Infatti, siccome amare costa, chi si arrischia nell’amore viene assalito dalla paura di incappare non soltanto in uno sbilancio (tra ciò che riceve e ciò che impegna di sé), ma addirittura di ridursi sul lastrico (l’eventualità di perdersi). I vangeli ci offrono due quadretti deliziosi del superamento di questa paura: la posa scandalosa del Maestro che si atteggia nelle mansioni dello schiavo (cfr. Gv 13,3-17); e l’obolo della vedova (cfr. Mc 12,41-44). Cosa voglia dire mettere la propria vita a servizio non può essere determinato una volta per tutte, né può essere circoscritto ad un’unica modalità. Tutte le vocazioni, però, sono accomunate da una ‘legge’, che, di primo acchito, fa impietrire: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33). L’esistenza spesa a difendersi è una vita buttata; l’esistenza vissuta nello stile di una restituzione lieta è una vita affidata a colui che rende degno di Dio ogni frammento di generosità.