Il brano del Vangelo di domenica 28 agosto è dominato dal brusco dialogo tra Gesù e Pietro. «Questo non ti accadrà mai!», afferma Pietro, entrando in contrasto con ciò che Gesù ha appena affermato sulla sua passione e morte.
Incoraggiato dalla familiarità e dalla confidenza con il Signore, Pietro si permette di opporsi alla prospettiva che Gesù comincia a far intravedere. Si profilano all’orizzonte dolore, morte, sconfitta; Pietro, che a Gesù vuole sinceramente bene, non può adattarsi ad accettare tutto questo. L’energia con cui contrasta Gesù è quella di chi pretende di insegnare a Dio che cosa fare. Nello slancio generoso con cui Pietro vuole impedire a Gesù di incamminarsi sulla via della croce c’è l’animo di tutti coloro che sanno di che cosa ha bisogno il mondo per essere salvato, di che cosa hanno bisogno loro stessi per essere felici; e portano avanti la loro idea con energia, con sicurezza, senza dubbi né esitazioni.
Nella reazione di Pietro vi è l’atteggiamento di tanti di noi, che rivolgiamo al Signore richieste, pensieri e preghiere, sicuri del valore di ciò che chiediamo: il benessere, la salute, un buon posto di lavoro, il successo agli esami … non si può dire che queste richieste non siano legittime: magari qualcuna è banale, ma tutte esprimono la domanda di bene e di felicità che vi è nel cuore di ciascuno.
Gesù non ha mai sconfessato questa domanda di bene e di pienezza che sale dalla vita delle persone: non avrebbe compiuto tanti dei suoi miracoli! Però corregge continuamente questa domanda, dandole orizzonti più vasti e più veri: la felicità non sta nell’avere successo o nel benessere raggiunto, ma nell’essere poveri: «beati i poveri in spirito…»; non sta nel riuscire ad averla vinta sulle persone che ci contrastano, ma nell’essere cercatori e costruttori di pace e di concordia: «beati gli operatori di pace…». La via delle beatitudini è quella della felicità secondo il cuore di Dio, e non secondo i nostri piccoli orizzonti; si spiega nella logica di Dio, che è quella del suo amore, che si riassume e si esprime compiutamente nella pasqua.
La pretesa di insegnare a Dio si manifesta quando egli svela la natura del suo essere Messia; per Pietro, e per noi con lui, un Messia non può che essere trionfante; Gesù invece sa che solo un Messia sconfitto può salvare il mondo e ridonargli speranza. Noi a Dio abbiamo da insegnare sostanzialmente la logica del successo, dell’affermazione di noi stessi, della forza che si impone: così – noi pensiamo – si vince il male! Il Signore invece ci insegna che la via divina della salvezza è quella che si carica il male sulle spalle, che non lo sfugge ma se lo assume, quasi divenendo una cosa sola con esso. E il male prende la forma di una croce, che scava la carne, che piega sotto il dolore: sembra solo sofferenza ed umiliazione, e lo è effettivamente, ma è la forma di un amore totale che fa dono di sé fino alla fine, senza sconti. La croce, che noi identifichiamo con il dolore, in effetti nella prospettiva di Dio è amore; per noi è fallimento, per Dio è la salvezza; per noi è umiliazione, per Dio è gloria. Chi si ferma al dolore non vede la verità dalla croce, non conosce il cuore di Dio, che nell’amore conosce solo la totalità.
Nel dialogo tra Gesù e Pietro si confrontano due logiche: quella umana e quella di Dio; quella umana ritiene che la salvezza sia un sinonimo di successo e la croce di sconfitta; quella di Dio è quella dell’amore, che si fa umile, piccolo, solidale con tutti coloro che soffrono e sono sconfitti. A noi quella di Dio sembra una logica perdente, non ‘da Dio’, non degna della sua onnipotenza, e soprattutto dell’immagine che noi ci siamo fatti di Lui. E nella nostra pretesa di ricondurre Dio dentro i nostri angusti orizzonti, cerchiamo di insegnargli che cosa deve fare, perché noi ‘sappiamo’ che cosa è bene per noi, per la Chiesa, per il mondo intero; e così pretendiamo di rinchiudere anche la vita cristiana in una prospettiva di buon senso, senza slancio, senza audacia, senza profezia.
Gesù oggi ci dice che non dobbiamo avere la pretesa di insegnare a Dio, ma ci invita ad avere l’umiltà di imparare da Lui, mettendoci alla sua sequela, accettando di camminare dietro a Lui e di vivere come Lui. È quello che hanno fatto quei testimoni che, alla scuola del Signore, hanno imparato la sua logica e hanno riespresso nel loro linguaggio di ogni giorno il modo di pensare di Dio. Tra essi, Vittorio Bachelet, che pochi anni prima della sua morte scriveva: «Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento d’amore, se non contrapponendo la capacità di dare la vita per il sostegno e la difesa degli inermi, degli innocenti, di chi vive in una insostenibile situazione di ingiustizia. Non si vince questo nostro egoismo se non riscoprendo il valore di ogni uomo perché figlio del Padre che dà la vita». La sua morte, vissuta con animo mite, lo ha collocato nel solco di coloro che camminano sui passi del Signore e non pretendono di insegnargli come si salva il mondo.
Incoraggiato dalla familiarità e dalla confidenza con il Signore, Pietro si permette di opporsi alla prospettiva che Gesù comincia a far intravedere. Si profilano all’orizzonte dolore, morte, sconfitta; Pietro, che a Gesù vuole sinceramente bene, non può adattarsi ad accettare tutto questo. L’energia con cui contrasta Gesù è quella di chi pretende di insegnare a Dio che cosa fare. Nello slancio generoso con cui Pietro vuole impedire a Gesù di incamminarsi sulla via della croce c’è l’animo di tutti coloro che sanno di che cosa ha bisogno il mondo per essere salvato, di che cosa hanno bisogno loro stessi per essere felici; e portano avanti la loro idea con energia, con sicurezza, senza dubbi né esitazioni.
Nella reazione di Pietro vi è l’atteggiamento di tanti di noi, che rivolgiamo al Signore richieste, pensieri e preghiere, sicuri del valore di ciò che chiediamo: il benessere, la salute, un buon posto di lavoro, il successo agli esami … non si può dire che queste richieste non siano legittime: magari qualcuna è banale, ma tutte esprimono la domanda di bene e di felicità che vi è nel cuore di ciascuno.
Gesù non ha mai sconfessato questa domanda di bene e di pienezza che sale dalla vita delle persone: non avrebbe compiuto tanti dei suoi miracoli! Però corregge continuamente questa domanda, dandole orizzonti più vasti e più veri: la felicità non sta nell’avere successo o nel benessere raggiunto, ma nell’essere poveri: «beati i poveri in spirito…»; non sta nel riuscire ad averla vinta sulle persone che ci contrastano, ma nell’essere cercatori e costruttori di pace e di concordia: «beati gli operatori di pace…». La via delle beatitudini è quella della felicità secondo il cuore di Dio, e non secondo i nostri piccoli orizzonti; si spiega nella logica di Dio, che è quella del suo amore, che si riassume e si esprime compiutamente nella pasqua.
La pretesa di insegnare a Dio si manifesta quando egli svela la natura del suo essere Messia; per Pietro, e per noi con lui, un Messia non può che essere trionfante; Gesù invece sa che solo un Messia sconfitto può salvare il mondo e ridonargli speranza. Noi a Dio abbiamo da insegnare sostanzialmente la logica del successo, dell’affermazione di noi stessi, della forza che si impone: così – noi pensiamo – si vince il male! Il Signore invece ci insegna che la via divina della salvezza è quella che si carica il male sulle spalle, che non lo sfugge ma se lo assume, quasi divenendo una cosa sola con esso. E il male prende la forma di una croce, che scava la carne, che piega sotto il dolore: sembra solo sofferenza ed umiliazione, e lo è effettivamente, ma è la forma di un amore totale che fa dono di sé fino alla fine, senza sconti. La croce, che noi identifichiamo con il dolore, in effetti nella prospettiva di Dio è amore; per noi è fallimento, per Dio è la salvezza; per noi è umiliazione, per Dio è gloria. Chi si ferma al dolore non vede la verità dalla croce, non conosce il cuore di Dio, che nell’amore conosce solo la totalità.
Nel dialogo tra Gesù e Pietro si confrontano due logiche: quella umana e quella di Dio; quella umana ritiene che la salvezza sia un sinonimo di successo e la croce di sconfitta; quella di Dio è quella dell’amore, che si fa umile, piccolo, solidale con tutti coloro che soffrono e sono sconfitti. A noi quella di Dio sembra una logica perdente, non ‘da Dio’, non degna della sua onnipotenza, e soprattutto dell’immagine che noi ci siamo fatti di Lui. E nella nostra pretesa di ricondurre Dio dentro i nostri angusti orizzonti, cerchiamo di insegnargli che cosa deve fare, perché noi ‘sappiamo’ che cosa è bene per noi, per la Chiesa, per il mondo intero; e così pretendiamo di rinchiudere anche la vita cristiana in una prospettiva di buon senso, senza slancio, senza audacia, senza profezia.
Gesù oggi ci dice che non dobbiamo avere la pretesa di insegnare a Dio, ma ci invita ad avere l’umiltà di imparare da Lui, mettendoci alla sua sequela, accettando di camminare dietro a Lui e di vivere come Lui. È quello che hanno fatto quei testimoni che, alla scuola del Signore, hanno imparato la sua logica e hanno riespresso nel loro linguaggio di ogni giorno il modo di pensare di Dio. Tra essi, Vittorio Bachelet, che pochi anni prima della sua morte scriveva: «Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento d’amore, se non contrapponendo la capacità di dare la vita per il sostegno e la difesa degli inermi, degli innocenti, di chi vive in una insostenibile situazione di ingiustizia. Non si vince questo nostro egoismo se non riscoprendo il valore di ogni uomo perché figlio del Padre che dà la vita». La sua morte, vissuta con animo mite, lo ha collocato nel solco di coloro che camminano sui passi del Signore e non pretendono di insegnargli come si salva il mondo.
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