(Deuteronomio 30,10-14 Colossesi1,15-20 Luca 10,25-37)
La prossimità non si riduce a una questione di denaro offerto o ricevuto. Si fonda su atteggiamenti che possono essere vissuti in qualsiasi condizione. Per essere il prossimo di qualcuno, in primo luogo è indispensabile saper vedere l’altra persona nella sua concretezza, cogliendo quanto sta vivendo. Non è raro infatti che si viva una contiguità abituale e non si ‘veda’. Non ci si chiede cosa passi nella mente e nel cuore di un altro. Non si notano i suoi stati d’animo che corrono appena sotto pelle, spesso celati per pudore o per orgoglio. Per superficialità, per comodità, per quieto vivere si passa oltre. Si giustifica il disinteresse, dichiarando che si tratta di rispetto della privacy. Si alimenta così una solitudine reciproca che si comprende soltanto quando si vive in prima persona una condizione di bisogno. Non è detto poi che la prossimità, che si manifesta come gentile interessamento e come condivisione, sia da riservare ai casi di dolore o di povertà. Si può essere prossimi anche a chi è nella gioia o gode di qualche fortuna, partecipando sinceramente e superando una serpeggiante invidia che talvolta sa spingere a mormorare o a seminare sospetti.
Corrisponde alla prossimità evangelica quell’atteggiamento che non si concentra su se stessi e sui propri vantaggi. Lo vive chi è libero da un egoismo miope, superandolo non per attitudine spontanea, ma per scelta e per le virtù tipiche di una personalità matura. Questa capacità ha un risvolto anche nel modo e nei sentimenti con cui si affrontano le situazione difficili o dolorose: non si può avere la pretesa né di dissolvere il dolore altrui né di trovare soluzioni radicali e definitive per i mali dell’umanità. Se la sensazione di insufficienza e di dolorosa impotenza sono sentimenti sani, possono essere talvolta dovuti a una sorta di desiderio di onnipotenza come se con la propria buona volontà si potesse mettere fine al disagio. In realtà ogni essere umano può fare sempre e solo qualcosa per gli altri e per il mondo. La consapevolezza della vastità dei problemi come le guerre, la fame, le malattie, le distruzioni o le ingiustizie deve restare sempre viva e pungente, ma come stimolo a non arrendersi e a mettere in gioco quel poco o tanto che si può.
A questo punto allora può intervenire qualche altra considerazione: tenendo conto che allungare 20 centesimi a un mendicante non solo è offensivo, ma non dà alcuna soluzione ai suoi problemi se questi sono veri, si può reagire in modo diverso dicendo con gentilezza ma anche con fermezza: «Hai fame? Ti accompagno in quel bar per un pasto o un panino»; «Devi comprare il latte o i pannolini per il bambino? Ecco là un supermercato. Facciamo la spesa»; «Non hai lavoro? Vieni sabato a tagliare l’erba del prato». Questi esempi vorrebbero suggerire sia di non umiliare coloro che per qualsiasi motivo chiedono sia di offrire loro un aiuto se il bisogno è autentico, senza farsi prendere in giro. In fondo si tratta di dedicare alla persona che chiede un momento in più di quanto occorre per allungare una moneta.
Rivolgendo la parola al povero in strada per prendere atto della sua richiesta, si tratta la persona da persona e non da disturbo da scacciare. Si dà a chi chiede un frammento del proprio tempo. Ci si colloca proprio nella direzione indicata dal racconto evangelico: il samaritano vede, interviene, porta a termine il soccorso immediato, ma non rimedia soltanto all’emergenza. Si prende cura del bisognoso anche per il futuro. È proprio la continuità a fare la differenza perché un intervento nell’emergenza è comprensibile e forse comune, ma un aiuto che si prolunghi oltre questo è una scelta ponderata, onerosa più di un soccorso occasionale.
Il vangelo non dedica una parola per dire se quell’uomo aggredito e abbandonato sulla strada fosse buono o cattivo, onesto, simpatico o saggio. Si deve quindi concludere che l’aiuto è dovuto non per le qualità della persona colpita, ma solo perché è nel bisogno. Ci sono poveri insistenti e testardi, fastidiosi e senza senso della misura che non rinunciano a tallonare il passante per ottenere un’offerta, ma ci sono altri poveri, spesso i più pressati dal bisogno. Non si riconoscono a occhio nudo e non stendono la mano. Sono i ‘nuovi’ poveri, persone che hanno perso il lavoro, padri separati che non riescono a mantenersi dopo aver versato gli alimenti, famiglie che hanno perso la casa per un mutuo o un affitto che non possono saldare, anziani che non possono più vivere con la pensione che percepiscono … In genere si nascondono perché si vergognano della loro situazione come se fosse una colpa. Accade così che nessuno veda e si lasci che il bisogno li schiacci. In questi casi è solo una rete di rapporti umani che può accorgersi della situazione: vicini di casa, amici, parenti. Spesso è proprio questo che si è indebolito o addirittura dissolto.
Il card. Carlo Maria Martini ha reso popolare la comprensione del testo evangelico di Luca, trasformando la domanda «Chi è il mio prossimo?» in invito a «Farsi prossimo». Ci sono mille modi e mille strategie per dar seguito a questo invito, mettendo in conto che scegliere di accostarsi a qualcuno in difficoltà, talvolta scomoda, riserva incognite e non dà il diritto di aspettarsi un grazie. Alla fine la scelta di farsi prossimo comprende anche quella di lasciar andare per la sua strada chi è stato soccorso senza avanzare pretese o coltivare attese di perenne gratitudine.
PREGHIERA
La prossimità non si riduce a una questione di denaro offerto o ricevuto. Si fonda su atteggiamenti che possono essere vissuti in qualsiasi condizione. Per essere il prossimo di qualcuno, in primo luogo è indispensabile saper vedere l’altra persona nella sua concretezza, cogliendo quanto sta vivendo. Non è raro infatti che si viva una contiguità abituale e non si ‘veda’. Non ci si chiede cosa passi nella mente e nel cuore di un altro. Non si notano i suoi stati d’animo che corrono appena sotto pelle, spesso celati per pudore o per orgoglio. Per superficialità, per comodità, per quieto vivere si passa oltre. Si giustifica il disinteresse, dichiarando che si tratta di rispetto della privacy. Si alimenta così una solitudine reciproca che si comprende soltanto quando si vive in prima persona una condizione di bisogno. Non è detto poi che la prossimità, che si manifesta come gentile interessamento e come condivisione, sia da riservare ai casi di dolore o di povertà. Si può essere prossimi anche a chi è nella gioia o gode di qualche fortuna, partecipando sinceramente e superando una serpeggiante invidia che talvolta sa spingere a mormorare o a seminare sospetti.
Corrisponde alla prossimità evangelica quell’atteggiamento che non si concentra su se stessi e sui propri vantaggi. Lo vive chi è libero da un egoismo miope, superandolo non per attitudine spontanea, ma per scelta e per le virtù tipiche di una personalità matura. Questa capacità ha un risvolto anche nel modo e nei sentimenti con cui si affrontano le situazione difficili o dolorose: non si può avere la pretesa né di dissolvere il dolore altrui né di trovare soluzioni radicali e definitive per i mali dell’umanità. Se la sensazione di insufficienza e di dolorosa impotenza sono sentimenti sani, possono essere talvolta dovuti a una sorta di desiderio di onnipotenza come se con la propria buona volontà si potesse mettere fine al disagio. In realtà ogni essere umano può fare sempre e solo qualcosa per gli altri e per il mondo. La consapevolezza della vastità dei problemi come le guerre, la fame, le malattie, le distruzioni o le ingiustizie deve restare sempre viva e pungente, ma come stimolo a non arrendersi e a mettere in gioco quel poco o tanto che si può.
A questo punto allora può intervenire qualche altra considerazione: tenendo conto che allungare 20 centesimi a un mendicante non solo è offensivo, ma non dà alcuna soluzione ai suoi problemi se questi sono veri, si può reagire in modo diverso dicendo con gentilezza ma anche con fermezza: «Hai fame? Ti accompagno in quel bar per un pasto o un panino»; «Devi comprare il latte o i pannolini per il bambino? Ecco là un supermercato. Facciamo la spesa»; «Non hai lavoro? Vieni sabato a tagliare l’erba del prato». Questi esempi vorrebbero suggerire sia di non umiliare coloro che per qualsiasi motivo chiedono sia di offrire loro un aiuto se il bisogno è autentico, senza farsi prendere in giro. In fondo si tratta di dedicare alla persona che chiede un momento in più di quanto occorre per allungare una moneta.
Rivolgendo la parola al povero in strada per prendere atto della sua richiesta, si tratta la persona da persona e non da disturbo da scacciare. Si dà a chi chiede un frammento del proprio tempo. Ci si colloca proprio nella direzione indicata dal racconto evangelico: il samaritano vede, interviene, porta a termine il soccorso immediato, ma non rimedia soltanto all’emergenza. Si prende cura del bisognoso anche per il futuro. È proprio la continuità a fare la differenza perché un intervento nell’emergenza è comprensibile e forse comune, ma un aiuto che si prolunghi oltre questo è una scelta ponderata, onerosa più di un soccorso occasionale.
Il vangelo non dedica una parola per dire se quell’uomo aggredito e abbandonato sulla strada fosse buono o cattivo, onesto, simpatico o saggio. Si deve quindi concludere che l’aiuto è dovuto non per le qualità della persona colpita, ma solo perché è nel bisogno. Ci sono poveri insistenti e testardi, fastidiosi e senza senso della misura che non rinunciano a tallonare il passante per ottenere un’offerta, ma ci sono altri poveri, spesso i più pressati dal bisogno. Non si riconoscono a occhio nudo e non stendono la mano. Sono i ‘nuovi’ poveri, persone che hanno perso il lavoro, padri separati che non riescono a mantenersi dopo aver versato gli alimenti, famiglie che hanno perso la casa per un mutuo o un affitto che non possono saldare, anziani che non possono più vivere con la pensione che percepiscono … In genere si nascondono perché si vergognano della loro situazione come se fosse una colpa. Accade così che nessuno veda e si lasci che il bisogno li schiacci. In questi casi è solo una rete di rapporti umani che può accorgersi della situazione: vicini di casa, amici, parenti. Spesso è proprio questo che si è indebolito o addirittura dissolto.
Il card. Carlo Maria Martini ha reso popolare la comprensione del testo evangelico di Luca, trasformando la domanda «Chi è il mio prossimo?» in invito a «Farsi prossimo». Ci sono mille modi e mille strategie per dar seguito a questo invito, mettendo in conto che scegliere di accostarsi a qualcuno in difficoltà, talvolta scomoda, riserva incognite e non dà il diritto di aspettarsi un grazie. Alla fine la scelta di farsi prossimo comprende anche quella di lasciar andare per la sua strada chi è stato soccorso senza avanzare pretese o coltivare attese di perenne gratitudine.
PREGHIERA
Hai rovesciato la situazione, Gesù. e hai dato alla parola ‘prossimo’ un significato imprevisto. Solo così, in effetti, si può venir fuori da quel tunnel senza via d’uscita in cui ci portano i nostri sospetti, i nostri rancori, le nostre inimicizie, le reti mortifere dei nostri pregiudizi, delle nostre paure, delle nostre reticenze.
Finché il prossimo rimane una persona da aiutare mi posso sempre permettere di scegliere, di distinguere, di tener ben separati gli amici dai nemici, i connazionali dagli stranieri, i simpatici dagli antipatici, i benevoli dagli ostili, i collaboratori dai concorrenti.
Le cose cambiano quando il prossimo è colui che aiuta ed io mi trovo nella sgradevole posizione di chi ha un assoluto bisogno di essere soccorso, aiutato. Allora non importa se colui che si ferma è addirittura uno straniero, un eretico, un nemico dei miei, un samaritano. Ciò che importa è che mi raggiunga il suo gesto di compassione che mi salva.
Finché il prossimo rimane una persona da aiutare mi posso sempre permettere di scegliere, di distinguere, di tener ben separati gli amici dai nemici, i connazionali dagli stranieri, i simpatici dagli antipatici, i benevoli dagli ostili, i collaboratori dai concorrenti.
Le cose cambiano quando il prossimo è colui che aiuta ed io mi trovo nella sgradevole posizione di chi ha un assoluto bisogno di essere soccorso, aiutato. Allora non importa se colui che si ferma è addirittura uno straniero, un eretico, un nemico dei miei, un samaritano. Ciò che importa è che mi raggiunga il suo gesto di compassione che mi salva.
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