Riempiti di questa potenza dall’alto, gli apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (v. 4). Lo Spirito è all’inizio dell’evangelizzazione e il segno di questa fondamentale opera apostolica è espresso dal «parlare in lingue»: ma che cosa significa? Potrebbe trattarsi di una espressione tecnica per indicare un carisma frequente nella Chiesa primitiva, detto anche «glossolalía»: gli apostoli emetterebbero suoni incomprensibili, in stato estatico, e il miracolo consisterebbe nel fatto che la gente capiva lo stesso (cfr. 1 Cor 12–14). Ma un attento confronto induce a concludere che l’evento di Pentecoste fu un’altra cosa rispetto alla prassi della glossolalia di cui parla la 1 Cor, anche se Luca dipende nel linguaggio da questa mentalità, che mostra la glossolalia in stretta dipendenza con il dono dello Spirito.
Probabilmente Luca ha utilizzato l’immagine della glossolalia, illuminata dall’interpretazione profetica, fondendola con lo schema dei cantici spirituali, secondo cui lo Spirito suscita in alcune persone la lode e la profezia. Il linguaggio del Magnificat, ad esempio, con il tipico verbo «megalýnein» (magnificare, dire grandi cose) è ripreso più volte negli Atti (cfr. At 2,11; 10,46). Lo Spirito fa esultare di gioia per le grandezze del Signore e la lode di Dio è profezia: in At 2,18 Pietro applica la profezia di Gioele (3,1-5) agli apostoli che parlano in lingue. Luca ha filtrato con la sua mentalità, secondo l’influsso delle comunità di Paolo, gli antichi ricordi di quel prodigioso evento. Il dono pieno dello Spirito Santo fa iniziare la storia della Chiesa e Luca lo racconta richiamando quel che era già successo all’inizio della vita di Gesù. Sembra dunque che il carisma di Pentecoste appartenga al genere profetico dei cantici spirituali.
Il narratore inoltre annota che «ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua» (2,6.11) ed evidenzia che si tratta di un fatto molto strano, giacché coloro che parlano sono tutti galilei (2,7-8). Raccogliendo insieme i vari indizi, si può affermare che il significato prevalente è quello di un discorso comprensibile in tutte le lingue degli uditori: il miracolo consiste proprio nel fatto che tutti gli ascoltatori riuscivano a capire il discorso degli apostoli.
I giudei di Gerusalemme che hanno sentito il fenomeno rumoroso e ascoltano l’inspiegabile parlare degli apostoli vengono «da tutte le nazioni che stanno sotto il cielo» (v. 5). Infatti i giudei, diffusi in tutto il mondo antico, partecipavano alle diverse nazionalità condividendone anche la lingua. Con artificio retorico, il narratore pone in bocca agli stessi giudei un discorso di stupore, in cui vengono elencati i paesi di provenienza di quella folla così variegata (vv. 9-11). L’elenco delle nazionalità non vuole essere completo: il discorso è decisamente fittizio e ha la tipica forma lucana per presentare quello che pensano i personaggi. L’interesse teologico che muove l’autore è l’universalismo: Luca infatti, quando compone le sue opere, ha ormai maturato l’idea dell’universalità della Chiesa, eppure sa che, all’inizio della missione apostolica, questa apertura universale non c’era ancora. Proprio per questo inserisce nel racconto dell’evento fondamentale un universalismo implicito: il miracolo di Pentecoste ha infatti una valenza implicita, che diverrà esplicita in seguito.
Quel giorno – dice Luca – è stata manifestata la potenza dello Spirito ed è stato rivelato ciò che la Chiesa è in potenza. Il seguito del racconto mostra appunto lo sviluppo della dimensione universale della Chiesa che si apre lentamente a tutte le genti, finché il Vangelo arrivi fino agli estremi confini della terra.
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