sabato 19 maggio 2012

389 - L’AMORE PIÙ GRANDE … DARE LA PROPRIA VITA

Per una pausa spirituale durante la Sesta Settimana di Pasqua

Giovanni 15,9-17 segue immediatamente la pericope che parla della vite e i tralci (15,1-8) e ci propone il modo migliore di applicare il rapporto che Gesù vuole tra sé ed i suoi discepoli. All’invito «Rimanete in me» (v. 4) subentra ora un’altra esortazione: «Rimanete nel mio amore» (v. 9).

L’origine di tutto è l’amore (agápē) del Padre, effuso sul Figlio, il quale lo ha dimostrato nei confronti dell’umanità. I discepoli di Gesù hanno potuto sperimentare personalmente la sua agápē, cioè la sua capacità autentica di relazione, di legame buono e affettuoso, di disponibilità accogliente nei confronti dell’altro. Ne hanno fatto l’esperienza perché sono entrati di fatto in questa dinamica dell’affetto che accoglie: hanno ricevuto la possibilità di amare nel modo con cui sono stati amati. L’impegno che Gesù affida loro dunque è custodire il dono, rimanendo radicati e fondati nella comunione trinitaria che li ha avvolti e trasformati. Non chiede loro di conquistare o guadagnarsi l’amore di Dio, bensì di conservare ciò che è già stato dato.

«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (v. 10). Il vocabolo ‘comandamento’, oltre a richiamare i «Dieci comandamenti», suona un po’ troppo come ordine; l’originale greco «entolḗ» ha una sfumatura più delicata, che possiamo chiarire attraverso l’etimologia. Composto dalla preposizione en (= ‘in’) e dalla radice del verbo téllō (= ‘mettere’), il termine corrisponde all’italiano «proposta» o – ancora meglio – all’inglese input: evoca quindi una parola che mette dentro all’ascoltatore una spinta all’azione, una raccomandazione che offre una possibilità buona di vita. I comandamenti di Gesù infatti coincidono con la proposta del suo amore e non sono imposizione esterna di precetti da eseguire con le proprie forze umane: l’amore con cui il Figlio ha amato i discepoli produce un effetto, li rende cioè capaci di fare altrettanto. La forma plurale («i miei comandamenti») può alludere alle varie parole dette da Gesù e ai vari modi con cui egli ha mostrato di amarli. Ma certamente coincide con la formula al singolare, adoperata in precedenza, che bene riassume questa fondamentale idea giovannea: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). La novità sta nel dono dell’agápē: l’amore del Padre è stato donato al Figlio, Gesù l’ha donato agli uomini, rendendoli così partecipi dello stesso legame divino e capaci di intessere nuovi e buoni legami umani.

Compito dei discepoli è «custodire» (tēréō) tale dono. L’espressione giovannea è molto più ricca di quel che in italiano suona «osservare i comandamenti»: non si tratta di eseguire degli ordini, bensì di custodire un dono, conservare una relazione, accogliere e vivere la logica della relazione generosa.

«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v. 11). La parola che Gesù ha rivelato ai suoi è fonte della gioia. Come comunica il «suo» amore, così trasmette anche la «sua» gioia (chará). La gioia promessa da Gesù è ciò che san Tommaso d’Aquino definisce come gaudium, ovvero «la presenza del bene amato». Quando è presente, un bene amato produce gioia; chi, incontrando Gesù, lo riconosce come il vero bene, il sommo Bene, e a lui aderisce personalmente con tutto il cuore, si scopre sorpreso dalla gioia. La gioia non sta nelle concrete situazioni della vita, ma piuttosto nella comunione di vita con Gesù Cristo, perché il premio è lui stesso. La gioia sta nell’essere con Cristo: questa è infatti per ogni persona la possibilità di raggiungere la pienezza di vita, così come è l’origine dell’amore vicendevole.

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (v. 12). Con la stessa espressione di Gv 13,34 viene ribadito che l’amore di Gesù non è solo ‘modello’, ma soprattutto ‘causa’ dell’affetto vicendevole fra i discepoli: l’agápē rivelata dal Messia rende coloro che l’accolgono capaci di uno stile analogo. E prosegue precisando in che cosa consiste tale amore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (v. 13). Qualcuno potrebbe osservare che sarebbe ancora più grande «dare la vita per i propri nemici»: ma questo è proprio ciò che intende dire Gesù. Infatti Egli ha dato la propria vita per quelli che non si meritavano nulla, come spiega bene san Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Gesù è morto per i nemici, affinché diventassero amici: l’amore di Cristo trasforma i nemici in amici. Questa è la grandezza dell’agápē di Dio!

Divenuti amici per grazia, gli uomini sono esortati a custodire il dono e a rimanere in tale disposizione, vivendo di fatto ciò che è stato proposto (cfr. v. 14). «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (v. 15). Gesù, rivelatore del Padre, ci ha fatto conoscere i segreti del cuore di Dio: da questo comprendiamo che ci ha trattato da amici, dal momento che gli aspetti più preziosi della nostra vita interiore li comunichiamo solo ad un amico autentico di cui si ha grande fiducia, a cui si vuole bene. Non ci ha trattati da servitori, a cui si danno solo indicazioni di cose da fare, ma ci ha aperto il suo cuore, mettendoci a parte della sua intima relazione con il Padre e con lo Spirito. All’origine di tale relazione d’amicizia c’è la libera scelta del Signore, l’iniziativa è la sua: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (v. 16a). Ci ha trattati da amici, ci ha fatti diventare amici. È necessario quindi rimanere amici!

«Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (v. 16b). Ritorna a questo punto il tema della vigna (cfr. Gv 15,5.8) e si precisa nuovamente che l’obiettivo è «portare frutto». Non si tratta però di prospettiva aziendale di massimo rendimento; il frutto sta nel diventare discepoli ovvero amici, il grande frutto consiste in una vita profondamente legata al Cristo con tutti i benefici che ne conseguono. Perché se uno è in Cristo, chiede al Padre proprio quello che egli vuole e quindi ottiene tutto (v.16c). La scelta operata da Gesù è finalizzata appunto a tale amore comunitario capace di restare. L’origine di tutto è l’amore comunitario di Dio, il fine di tutto è l’amore comunitario umano. La storia della salvezza parte di lì e lì vuole arrivare. Dopo aver ricamato sugli stessi temi, l’abilità dell’evangelista porta al culmine la sezione, riprendendo il tema fondamentale: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (v. 17).

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