sabato 21 luglio 2012

411 - IL RISCHIO DELL’INSUCCESSO

Per una pausa spirituale durante la XVª Settimana del Tempo ordinario

Strano invito, quello di Gesù. I discepoli devono prendere solo il bastone che aiuta il camminare, i sandali che evitano le conseguenze della durezza del suolo, una sola tunica, senza il mantello che serve per ripararsi dalla umidità della notte. Proprio l’essenziale. Si potrebbe dire che è l’invito alla debolezza e a correre senza angosce accettando anche lo smacco e il rifiuto. Nel considerare così questo passaggio del vangelo di Marco(6,7-13), non corriamo anche il rischio di riproporre un cristianesimo dolorante, depressivo, autopunitivo?

I discepoli sono inviati ad annunciare la “bella notizia”: la notizia e la sua bellezza non dipendono dalla loro forza, dice in sostanza Gesù. Loro ne sono i semplici testimoni. Per questo raccomanda l’attrezzatura più semplice perché non succeda che l’attrezzatura, che deve semplicemente far passare il messaggio, lo oscuri con il suo ingombro eccessivo.

Si deve partire da qui per una rielaborazione positiva dell’insuccesso, così come sembra venir fuori dal testo: del «buon uso delle malattie», avrebbe detto Pascal. Tutti abbiamo fatto, prima o poi, un’esperienza simile. Puntiamo tutto sulla fede, per noi quella è la vita. Eppure ciò che per noi è tutto non è nulla per tanta gente che conosciamo e, talvolta, perfino per quelli «della nostra casa». In quegli smacchi dolorosi si può fare – ‘si può’, perché, ovviamente, non è facile – l’esperienza di una strana, paradossale purificazione della fede. Quando la fede ‘passa’ viviamo la soddisfazione di essere riusciti a trasmettere ciò in cui crediamo. La tentazione possibile, in quel caso, è di ritenerci noi gli artefici del successo, di considerare la fede una ‘cosa’ che siamo riusciti a trasmettere, come un pacco, ad altri. Abbiamo deciso noi che cosa c’era nel pacco, chi ne era il destinatario, quali i sistemi postali per farlo arrivare a destinazione. Quando, invece, non passa, capiamo che la fede non è un cosa, capiamo soprattutto che in essa si mettono in gioco la misericordia insondabile di Dio e il mistero della libertà dell’uomo. E, partendo da lì, arriviamo a mettere in discussione tutto. Non sappiamo bene che cosa ci sia nel pacco, perché è favolosamente più ricco di quello che possiamo immaginare; non sappiamo bene chi erano i destinatari, perché abitati dalla libertà sulla quale non possiamo mettere le mani; non sappiamo quasi nulla dei canali buoni per far arrivare a destinazione tutto, perché chi spedisce è imprevedibile.

Il passaggio evangelico e le sue possibili ricadute richiamano anche tante immagini letterarie che, in diversi modi, lo illustrano. Tra quelle che più mi piacciono e tra le più note c’è il racconto celebre della disavventura – una delle tante – di don Chisciotte. Siamo nei primi passaggi del grandioso racconto. Il cavaliere errante incontra dei mercanti di Toledo e parla loro della sua bellissima dama, Dulcinea, ne tesse tutte le lodi possibili e chiede che i suoi interlocutori ne riconoscano la bellezza, senza la minima possibilità di dubbio. Don Chisciotte ne è convintissimo. Solo che i mercanti sono gente concreta: stanno andando a Murcia a comperare i tessuti che servono per il loro lavoro e di fronte a quel profeta esagitato, chiedono qualche prova, pretendono di vedere almeno un’immagine di cotanta conclamata bellezza. Don Chisciotte, invece, non fa altro che esaltare la bellezza di Dulcinea e più è convinto della bellezza della sua dama tanto più è scandalizzato dalla incredulità dei mercanti. Tanto che, a un certo punto, vuol punire duramente uno di loro che insiste nel pretendere le ‘prove’.

E così dicendo, partì con la lancia abbassata contro colui che aveva parlato, con tanta collera e furia, che se la buona sorte non avesse fatto inciampare e cadere Ronzinante a metà strada, il temerario mercante se la sarebbe vista brutta. Ma cadde Ronzinante, e il suo padrone andò rotolando per un buon tratto nella terra dei campi; e ogni volta che cercava di rialzarsi, non ci riusciva, per l’impiccio che gli davano la lancia, lo scudo, gli sproni e la celata, insieme col peso della vecchia armatura. E mentre lottava senza esito per alzarsi, andava dicendo: «Non scappate, gente codarda; aspettate, razza di schiavi; che non per colpa mia, ma del mio cavallo, io son qui per terra».

Il don Chisciotte a terra, preda insieme della sua passione e della sua armatura, può essere un bell’esempio del cristiano e delle sue disavventure. Anche il credente, infatti, si affanna spesso a difendersi e a difendere il messaggio di cui è testimone. Ma è tale il suo affanno che spesso ne diventa vittima e, mentre ne soffre, non riesce a capire i suoi errori e accusa gli altri e le circostanze e la nequizia dei tempi, esattamente come don Chisciotte che accusa il suo cavallo, mentre dovrebbe accusare soltanto se stesso. E dovendo, a un certo punto, rimediare ai suoi eccessi, s’accorge di non riuscire a rialzarsi proprio perché troppo appesantito dalle sue attrezzature, quelle che avrebbero dovuto aiutarlo a difendersi.

E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. Altrimenti rischiamo di diventare dei don Chisciotte che cadono rovinosamente a terra, prigionieri della loro stessa forza. Altrimenti rischiamo di difendere precisamente quella forza, invece di usarla per annunciare la debolezza disarmata dell’uomo del Golgota.

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