Israele
è cosciente della particolarità della sua storia a causa della relazione con Dio
che l’ha resa unica. Questa consapevolezza è espressa nel Deuteronomio (4,32) con la forza
delle domande retoriche: «Vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa
simile a questa?». Dio quindi ha parlato a un popolo che poi si è scelto come
sua proprietà in mezzo alle nazioni.
Anche
Gesù risorto conferma la sua presenza per sempre in mezzo ai suoi discepoli
(Matteo 28,20); questa prerogativa di Dio è fatta propria da Gesù e nel momento
conclusivo della sua missione, prima di lasciare il mondo terreno per tornare
al Padre, promette di rimanere con i suoi sino alla fine del mondo. Colui che
entra nella storia umana come l’Emanuele si mostra realmente il Dio-con-noi per
sempre.
Il
Dio della Bibbia, colui che Gesù ci ha mostrato nel volto del Padre
misericordioso, non è quindi un Dio asettico o distaccato come quello dei
filosofi, non è neanche un generico essere superiore che ci guarda dall’alto,
non è nemmeno una divinità indistinta presente nella natura come una sorta di
madre-terra che tutto contiene, ancora meno è una forza che agisce in noi e genera
una situazione di benessere e pace interiore. Queste visioni distorte di Dio
non sono pura accademia, ma idee più o meno diffuse nella mentalità
contemporanea e talvolta acriticamente anche in persone che si dicono
cristiane.
Più
volte nella Bibbia si racconta la storia che Dio ha intessuto con il suo
popolo, gli eventi che hanno manifestato la sua presenza e la sua azione a
favore di Israele. Ogni credente, ogni cristiano dovrebbe poter raccontare la
propria storia con Dio.
La
storia di Dio con il suo popolo è più che un semplice fare qualcosa per noi e
con noi, infatti tende a costruire una relazione interpersonale così profonda
che consente a ciascun fedele di entrare nella comunione della Trinità. La lettera ai Romani (8,14-17) articola
il rapporto che Dio instaura con noi: nel Battesimo siamo resi figli, riceviamo
lo Spirito Santo che ci guida e ci fa sentire che Dio è Padre, siamo uniti
intimamente a Cristo nelle sue sofferenze ma anche nella sua gloria. Altro che
un generico essere superiore che ha creato il mondo! Altro che una forza interiore
che ci fa stare bene! Il nostro Dio è comunione nella relazione di amore al suo
interno tra le persone divine della Trinità, comunione che partecipa anche a
noi e che ci permette di condividere. Ecco che cos’è anzitutto la fede, che
cosa significa in primo luogo credere: professare che Dio è amore nella
comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito, e accogliere questo dono per
noi, che così possiamo entrare in questa comunione trinitaria.
Come
in ogni relazione interpersonale, anche nella comunione tra Dio e l’uomo occorre
salvaguardare le esigenze che rendono questa relazione salda e autentica. Le
condizioni dell’amicizia umana – sincerità, fedeltà, dono di sé – sono da
coltivare anche nell’amicizia con Dio. Le letture bibliche e i testi eucologici
di questa domenica richiamano alcune di queste condizioni imprescindibili, se
desideriamo che la nostra storia con Dio abbia un seguito.
La
prima esigenza è senz’altro quella di ascoltare e obbedire, perché è Dio che
compie il primo passo, che chiama all’amicizia; a questo invito l’uomo risponde
accogliendo la chiamata e osservando la parola di Dio. Da questo atteggiamento
deriva la seconda esigenza, che consiste nel professare la fede e nell’adorare,
perché la comunione comporta la testimonianza della propria fede, anche in
pubblico. La terza esigenza consiste nella vita del cristiano che crede e sta
nella comunione con Dio, che consiste nel lasciarsi guidare dallo Spirito e
nell’imitazione di Cristo.
La solennità
della Santissima Trinità ci invita a superare, laddove esista, la
superficialità di una fede generica in un essere superiore, per condividere e
vivere in pienezza la comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
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