Per una pausa spirituale durante IVª Settimana del Tempo ordinario
La fase di crisi. Sempre più spesso si incontrano persone ferite e sofferenti che, nonostante la fede, si sentono fallite ed inutili e faticano a superare le crisi. Nella nostra società viene esaltato molto il benessere individuale, che rischia di sfociare in un narcisismo eccessivo e nel rifiuto delle fatiche. Eppure la crisi ed il fallimento fanno parte dell’esistenza umana. L’etimologia di ‘crisi’ deriva dal verbo greco krínō che significa separare, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare. Nell’uso comune ha spesso un’accezione negativa, che sta ad indicare il peggioramento di una situazione. In realtà essa può portare anche a qualcosa di buono, ad una crescita e ad un cambiamento. L’esperienza della sofferenza può aprire a strade diverse: la durezza e la rabbia, oppure la sensibilità e l’umanità, se accompagnata da riflessione, valutazione, discernimento. Vi sono passaggi cruciali nella vita (nascite, morti, malattie, passaggi evolutivi) ai quali non si può sfuggire. Gli eventi critici, prevedibili e imprevedibili, sono punti di non ritorno: si chiude un capitolo e se ne apre un altro. Le modalità precedenti non funzionano più. La crisi diventa allora quel terreno potenzialmente evolutivo da attraversare per poter trovare un nuovo equilibrio. L’evento critico, il fallimento chiedono alla persona, alla famiglia, di attingere alle proprie risorse per ristrutturare il proprio funzionamento. Conta molto come le persone hanno precedentemente risolto altre crisi. Nelle fatiche si può continuare a restare ancorati a ciò che era e non è più, oppure si può, stando dentro la fatica e senza la fantasia di cancellarla subito, ancorarsi ai propri punti di forza e alle relazioni importanti. Inoltre la persona, e tanto più il credente, deve saper attendere con la fiducia di chi sa di non essere solo. «Ed ecco io faccio di te come una fortezza… ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno» (Ger 1,18-19). Nel momento di grande fatica può essere utile la preghiera, la guida spirituale, le esperienze che alleggeriscono. Non tutto si riesce a spiegare subito; serve del tempo per rielaborare ciò che fa soffrire, ma serve anche «il proprio Io che lavora nel tempo».
Il pensiero corre a Dietrich Bonhoeffer, che seppe vivere la propria carcerazione, avvenuta perché anti-nazista, senza perdere la speranza. Attraverso la scrittura dava voce alle sue emozioni e ai suoi pensieri; attraverso i contatti epistolari manteneva un forte legame affettivo con la propria famiglia ed i propri amici; attraverso la preghiera e lo studio della Bibbia sentiva di essere accompagnato da Dio.
Reggere ai fallimenti della vita. Per reagire al dolore serve essere resilienti. La resilienza in fisica è la capacità di un metallo di resistere ad un urto senza spezzarsi; in ambito psicosociale è la capacità di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante l’aver vissuto situazioni difficili. Alba Marcoli parla di periodi nei quali la crisi non fa più riconoscere se stessi. «Il non riconoscersi più, il sentire che c’è stata una rottura nella propria sensazione di continuità è un primo segnale di crisi. Poi seguono tutta una serie di emozioni faticose: incertezza, angoscia, impressione di avere perso qualcosa». La capacità di reagire ai fallimenti dipende da vari fattori: individuali (temperamento, riflessione e attitudini cognitive), ma anche familiari (calore umano ricevuto, la coesione, l’interesse dei familiari) e da fattori di sostegno (l’avere amicizie, un gruppo di sostegno all’interno del proprio contesto di vita, della propria parrocchia). H. Nouwen scriveva: «Compresi che la guarigione inizia quando sottraiamo la nostra sofferenza al suo diabolico isolamento e capiamo che, qualunque essa sia, noi la sopportiamo in comunione con tutta l’umanità, anzi con tutto il creato».
La fase di crisi. Sempre più spesso si incontrano persone ferite e sofferenti che, nonostante la fede, si sentono fallite ed inutili e faticano a superare le crisi. Nella nostra società viene esaltato molto il benessere individuale, che rischia di sfociare in un narcisismo eccessivo e nel rifiuto delle fatiche. Eppure la crisi ed il fallimento fanno parte dell’esistenza umana. L’etimologia di ‘crisi’ deriva dal verbo greco krínō che significa separare, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare. Nell’uso comune ha spesso un’accezione negativa, che sta ad indicare il peggioramento di una situazione. In realtà essa può portare anche a qualcosa di buono, ad una crescita e ad un cambiamento. L’esperienza della sofferenza può aprire a strade diverse: la durezza e la rabbia, oppure la sensibilità e l’umanità, se accompagnata da riflessione, valutazione, discernimento. Vi sono passaggi cruciali nella vita (nascite, morti, malattie, passaggi evolutivi) ai quali non si può sfuggire. Gli eventi critici, prevedibili e imprevedibili, sono punti di non ritorno: si chiude un capitolo e se ne apre un altro. Le modalità precedenti non funzionano più. La crisi diventa allora quel terreno potenzialmente evolutivo da attraversare per poter trovare un nuovo equilibrio. L’evento critico, il fallimento chiedono alla persona, alla famiglia, di attingere alle proprie risorse per ristrutturare il proprio funzionamento. Conta molto come le persone hanno precedentemente risolto altre crisi. Nelle fatiche si può continuare a restare ancorati a ciò che era e non è più, oppure si può, stando dentro la fatica e senza la fantasia di cancellarla subito, ancorarsi ai propri punti di forza e alle relazioni importanti. Inoltre la persona, e tanto più il credente, deve saper attendere con la fiducia di chi sa di non essere solo. «Ed ecco io faccio di te come una fortezza… ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno» (Ger 1,18-19). Nel momento di grande fatica può essere utile la preghiera, la guida spirituale, le esperienze che alleggeriscono. Non tutto si riesce a spiegare subito; serve del tempo per rielaborare ciò che fa soffrire, ma serve anche «il proprio Io che lavora nel tempo».
Il pensiero corre a Dietrich Bonhoeffer, che seppe vivere la propria carcerazione, avvenuta perché anti-nazista, senza perdere la speranza. Attraverso la scrittura dava voce alle sue emozioni e ai suoi pensieri; attraverso i contatti epistolari manteneva un forte legame affettivo con la propria famiglia ed i propri amici; attraverso la preghiera e lo studio della Bibbia sentiva di essere accompagnato da Dio.
Reggere ai fallimenti della vita. Per reagire al dolore serve essere resilienti. La resilienza in fisica è la capacità di un metallo di resistere ad un urto senza spezzarsi; in ambito psicosociale è la capacità di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante l’aver vissuto situazioni difficili. Alba Marcoli parla di periodi nei quali la crisi non fa più riconoscere se stessi. «Il non riconoscersi più, il sentire che c’è stata una rottura nella propria sensazione di continuità è un primo segnale di crisi. Poi seguono tutta una serie di emozioni faticose: incertezza, angoscia, impressione di avere perso qualcosa». La capacità di reagire ai fallimenti dipende da vari fattori: individuali (temperamento, riflessione e attitudini cognitive), ma anche familiari (calore umano ricevuto, la coesione, l’interesse dei familiari) e da fattori di sostegno (l’avere amicizie, un gruppo di sostegno all’interno del proprio contesto di vita, della propria parrocchia). H. Nouwen scriveva: «Compresi che la guarigione inizia quando sottraiamo la nostra sofferenza al suo diabolico isolamento e capiamo che, qualunque essa sia, noi la sopportiamo in comunione con tutta l’umanità, anzi con tutto il creato».
I buoni samaritani. Le persone che soffrono non devono esserelasciate sole. All’interno della comunità cristiana devono trovare fratelli e sorelle capaci di dare aiuto. Stare nella sofferenza porta ad avere momenti di sconforto, di solitudine, di amarezza. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di sostegno quando si perdono le forze; sostegno che nasce da piccoli gesti come un caffè preso insieme, due parole scambiate, la disponibilità per piccoli aiuti materiali. Coloro che vivono i fallimenti hanno bisogno che qualcuno si faccia spazio di ascolto; dimora dove riporre ciò che pesa, sapendo che il proprio racconto verrà custodito con riservatezza. U. Galimberti scrive: «Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’altro là dove la parola conduce. Se poi c’è il silenzio allora ci si fa guidare da quel silenzio». Il dolore riesce ad avere una sua dignità quando viene ascoltato con rispetto, accolto con delicatezza e con gesti di speranza da parte di persone capaci di tessere relazioni. Gesù, nella lavanda dei piedi, mostra una strada che Santucci ben descrive: «Se dovessi scegliere una reliquia della tua passione prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca… girare il mondo con quel recipiente e ad ogni piede, cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso… verso i nemici e gli amici, il vagabondo, l’ateo, il drogato… finché tutti abbiano capito, nel mio, il tuo amore».
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