sabato 2 febbraio 2013

462 - Per una pausa spirituale durante IIª Settimana del Tempo ordinario

1. La gioia è il bene della vita, il suo desiderio più intenso.

O forse il suo traguardo, il suo senso, la polarità che attrae i nostri passi nell’affannoso andare. Ne sentiamo più acuto il bisogno quando ci manca; non semplicemente in ragione del dolore del corpo o della tristezza del cuore, ma per un sentimento più profondo di privazione, che è impedimento alla fiducia, incapacità di sperare, esclusione dall’esperienza d’amore. L’assenza di gioia è lo smarrimento che rivela la nostra disperata povertà. Cerchiamo surrogati di gioia in modo incessante, frantumandone il gusto in ciò che sembra promettere momentaneo ristoro al vuoto dell’essere. In realtà, se il sogno è quello di uno stato dell’essere ‘colmato’, fino alla totale fiducia e all’abbandono dentro un abbraccio, fino alla speranza divenuta certezza d’un futuro, fino allo scambio dell’amore totale, ci accorgiamo che la gioia è la sintesi delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità. La gioia ha a che fare col divino.
Eppure nella storia umana c’è stato e c’è un sentimento ‘religioso’ che non si accompagna alla gioia, ma piuttosto a un’emozione paurosa del ‘sacro’, inteso come il ‘tremendo’. In essa ha potuto prender forma, invece che la gratitudine dell’essere, un oscuro sentimento del proprio nulla, l’angoscia di una incolmabile distanza, il timore opprimente di un minaccioso mistero. Nella vita concreta, che vorrebbe esplodere in creativa fantasia, la religione umana della paura è parsa maledire la gioia, rattrappire lo slancio e la libertà, inventare una precettistica inesauribile come una rete in cui lo spirito s’imprigiona, in divieto di gioia.

2. Gesù di Nazareth è venuto fra noi, e tutto si è capovolto.
Gesù dice che Dio è misericordia, cioè un grembo d’amore. Dice che Dio è gioia e vuole la gioia dell’uomo. Che ha mandato il Figlio nel mondo «a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (Gv 3,17). Che il Figlio di Dio si è dunque «unito in certo modo a ciascun uomo» (Gaudium et Spes, 22). Ora lo sguardo nell’oltre non incontra più un enigma minaccioso, ma il volto di un Padre. E la preghiera che sale dalla terra non è quella dei servi, ma dei figli (Gal 4, 6-7). Con la confidenza, con la gioia dei figli.
La gioia è il respiro stesso della fede. Sveglia dal sonno i pastori col canto che li guida al presepe, quando Gesù nasce. Arde nel petto dei discepoli di Emmaus, quando tutto è compiuto, e ravviva la loro morta speranza. Tutto il vangelo di Gesù è letteralmente un «annuncio lieto», è l’annuncio della gioia. È questo il Regno. La sua costituzione propone la sua legge e i suoi doveri sotto forma di ‘beatitudine’, traccia la gioia pur dentro le situazioni che noi troviamo disperate, dà al nostro pianto la promessa di una consolazione. Lo scarto fra la nostra miseria e l’infinita perfezione di Dio, fra le nostre ricorrenti viltà, gli errori e i tradimenti, la lontananza, la separazione, fra la tristezza del peccato e la speranza d’una salvezza, è colmato dal miracolo del perdono. Gesù ci chiama a convertirci alla gioia e ci rifà nuovi, come in una seconda creazione. E in essa il Cristo ‘vero uomo’ rivela la bellezza di ciò che è umano, uscito dalle mani gioiose di Dio; l’uomo vivente ‘gloria di Dio’. La fede in Gesù non deprime nulla di ciò che è autenticamente umano, anzi lo esalta. Lui è il primogenito, fra noi (Rm 8,29).

3. C’è un episodio della vita di Gesù nel quale la teologia della gioia si fa trasparente. 

 È la scena delle nozze di Cana, quando gli sposi non hanno più vino e Gesù compie il suo primo miracolo. E la gloria si rivela e la fede scintilla. Gesù va alla festa che celebra l’amore. L’amore umano, nella sua naturalezza, nella sua corporeità e spiritualità, nella bellezza iscritta dal Creatore nel corpo e nel cuore dell’uomo e della donna. La festa di una unione che è paradigma di conoscenza dell’amore di Dio, e sul quale Cristo pone il suo segno sacro.
Il vino è la gioia. Nella sua simbologia profonda, radicata in antico, il vino evoca anche l’immagine della prosperità, dell’abbondanza, della salute, della vitalità. Ma è la gioia il suo segno, è nella gioia che lo spirito trova la propria singolare ebbrezza (la «sobria ebrietas» degli antichi contemplativi).
«Non hanno più vino» è lo sconcerto improvviso di veder guastata la gioia. La privazione, o forse l’improvvidenza, il desiderio che non s’appaga, lo sperpero che si paga. Non c’è più gioia anche quando siamo estenuati dalla ricerca di gioie artificiali, disperdendo l’autentico bene. Ma ecco il miracolo della sollecitudine invocata, propiziata dalla madre: e col gesto obbediente dei servi il vino scintilla nelle giare della purificazione. Nelle giare dell’acqua rituale, sì, anche questo è un segno fra i segni. I rituali hanno il loro bravo rispetto, per l’amor del cielo. Ma son rituali: e nulla regge il paragone con il tuffo nella pienezza dell’amore. Qualche fariseo vuol correggere il Maestro, suggerendo una predica sull’astinenza, a metà del banchetto, per rispetto delle giare? No, il Maestro è più dei riti. Ed è anche più esigente dei riti, perché è l’amore più esigente. Il vino dell’amore può diventare sangue, e lo diventerà nell’ultima sera della sua vita, la sera in cui la confidenza con i discepoli traboccherà, insieme al dono supremo, nella grande parola di gioia: «vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11)

4. L’amore può arrivare fino al dono della croce.
La tribolazione della vita, la «nostra croce» come noi la chiamiamo, viene per tutti, ed è vano scansarla, finirebbe per schiacciarti. Ma accettare la croce per chi ha fede in Gesù non è disperazione, perché vita e morte hanno riscatto nella sua promessa: «Io voglio che là dove sono io siano anch’essi». Anche noi, in speranza, possiamo pregustare questa gioia.
Ha lasciato scritto Carlo Carretto: «Se tu bevi quel vino che Dio stesso ti offre, sei nella gioia. Dio è gioia anche se sei crocifisso. Dio è gioia sempre. Dio è gioia perché sa trasformare l’acqua della nostra povertà nel vino della Risurrezione. E la gioia è la nostra riconoscente risposta».
Mostrare la gioia cristiana, semplicemente, è fare della propria vita un catechismo vivente. Ciò che in noi è noioso e triste non corrisponde alla fede nel Maestro. Ma la gioia è essa stessa una grazia; una vocazione di grazia che assomiglia alla santità. Per questo i santi hanno irradiato la gioia. Per questo noi la invochiamo.

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