venerdì 2 agosto 2013

501 - COME RICONOSCERE CHE DIO CI VISITA NEL QUOTIDIANO E COME ACCOGLIERLO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario

Se, per la Bibbia, Dio è Dio perché fa visita all’uomo – ogni uomo – attraverso il volto anonimo dell’altro uomo, quali le conseguenze di questa prospettiva per il cristiano? L’attenzione a questa prospettiva biblica suscita e alimenta una parola che è – dovrebbe essere – fenomenologica ed ermeneutica.
Parola fenomenologica vuol dire rispetto e attenzione al vissuto di ciascuno e di tutti: parola che non cade dall’alto, non esclude, non giudica, non condanna e non parte dal presupposto che ci siano esistenze da Dio abbandonate; parola che, piuttosto, parte dal basso, dalla trama delle relazioni umane, dall’intrigo dell’esistenza quotidiana dove l’io – ogni io – è alla presenza dell’altro che a volte è il nostro ‘inferno’ (per rifarsi alla celebre affermazione sartriana), ma altre volte il nostro ‘paradiso’. Fenomenologica è la parola che nasce dalla consapevolezza, fonte di umiltà e di indicibile prossimità, che Dio è anonimamente dentro questa trama di relazioni e che è qui dentro e non altrove che egli sta al fianco di ogni uomo e di ogni donna e, come vuole il veggente dell’Apocalisse, bussa alla porta dell’io perché l’io gli apra per cenare insieme (cfr. Ap 3,20). Parola fenomenologica è quella che, consapevole della presenza di Dio nel quotidiano di ogni esistenza (prima che nello spazio della coscienza riflessa, dell’appartenenza religiosa o della pratica liturgica), aiuta a decifrarlo e interpretarlo.
Cosa aggiunge alla parola fenomenologica la parola ermeneutica? Se, come vuole il filone vincente della filosofia del Novecento, la realtà si dà solo come pluralità di interpretazioni, la parola biblica è quella che interpreta l’umano alla luce dell’alterità divina che, come ha affermato Lévinas, si iscrive nel «volto» di ogni uomo che, per questo, come vuole il libro della Genesi, è «ad immagine e somiglianza» di Dio. Ermeneutica è la parola che, nutrendosi della potenza del racconto biblico, in ogni volto che all’io va incontro o che l’io incontra sa leggere e aiuta a leggere la presenza divina che vi riluce e comanda: parola che coglie, negli uccelli del cielo e nei gigli dei campi, il sorriso dell’amore divino che li nutre e li riveste di uno splendore ineguagliabile dal re Salomone (cfr. Mt 6,26ss.) o che, per ricorrere al linguaggio di Pavel Florenskij, fa dono di uno «sguardo [che] accarezza teneramente e coccola il segreto della realtà» (P. Florenskij, Stupore e dialettica, Quodlibet 2011, 76); soprattutto però è la parola che, nella nudità del volto e di ogni volto, sente risuonare la potenza di una voce – la voce divina dell’amore – che chiama l’io ad uscire dal suo io e ad amare l’altro con lo stesso amore gratuito con cui Dio «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45).
Il grande scrittore russo Vasilij Grossman, testimone della distruzione dell’umano nei Gulag, all’ideologia del bene ideale ha opposto la piccola bontà quotidiana: «A fianco del minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile un vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti del suo simile, è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale» (V. Grossman, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, 405).
Non c’è esistenza per la quale prima o dopo l’altro – l’altro estraneo o nemico, ma anche l’altro degli affetti – non appaia al proprio orizzonte come limite invalicabile di fronte al quale arrestarsi, se non per convinzione, per necessità o calcolo (si pensi a tutte le volte in cui si è come costretti a «chiudere un occhio»!). La Bibbia come parola ermeneutica vuol dire che l’altro, quando si erge di fronte all’io sottraendosi al suo potere, non è né l’intruso da cui salvaguardarsi né l’inaggirabile ostacolo con cui venire a patti, bensì il ‘varco’ attraverso il quale la parola divina raggiunge l’uomo anteriormente alla sua stessa consapevolezza e conoscenza, la trascendenza penetra nella sua esistenza e l’assoluto – il Dio dell’amore che comanda l’amore – appella l’io all’impensabile esodo da sé all’altro elevandolo alla bontà ‘piccola’ e ‘quotidiana’ che sorregge il mondo e che, nel regno della disumanizzazione, è il principio stesso della riumanizzazione. Dal punto di vista biblico ermeneutica è la parola che, instancabilmente e in ogni istante, richiama, sollecita e risveglia l’io a questa bontà piccola e quotidiana che è la vocazione più alta dell’umano.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.