venerdì 2 agosto 2013

503 - A PREGARE SI IMPARA (prima parte)

Per una pausa spirituale durante XVIIª Settimana del Tempo ordinario

La domanda che i discepoli pongono a Gesù mette a nudo un’ipocrisia sempre latente nell’uomo religioso: la presunzione cioè d’essere già capaci di pregare. La rivalsa contemporanea dello spontaneismo ha inoculato, infatti, l’idea che la preghiera ‘vera’ e ‘autentica’ sia solo quella che scaturisce naturalmente dal cuore dell’uomo. Si è mossa pertanto, in questa sfera, una vera e propria battaglia alle formule, alla prassi o agli esercizi di vario genere. Così, mentre ci si addestra a ogni tipo d’arte, facendo i corsi necessari, a pregare si vorrebbe già essere abili. In realtà la richiesta fatta a Gesù dai discepoli – «insegnaci a pregare » – stigmatizza un’incapacità radicale dell’uomo a vivere la ‘cosa’ che il pregare indica.
Più che il proprio ingegno, per apprendere un’arte è necessario mettersi alla scuola di buoni maestri. La preghiera, anche oggi, non può rinunciare alla comunione viva con chi ha pregato prima di noi e ora prega con noi. Mettersi alla sequela di uomini e donne spirituali costituisce il primo passo di quel tirocinio del discepolato che ci libera dall’illusione dell’improvvisazione. L’immagine della «scuola di preghiera», cui Anthony Bloom ha dedicato tempo e pazienza, la ritroviamo più volte espressa anche nel pensiero degli ultimi due pontefici. «Per una pedagogia della santità – afferma Giovanni Paolo II – c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera […]. Le nostre comunità devono diventare autentiche scuole di preghiera» (Novo millennio ineunte, 32). Lo stesso Benedetto XVI, parlando ai vescovi svizzeri, afferma: «È un compito fondamentale della pastorale insegnare a pregare. […] A questo scopo dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, dove si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni». Stabilite le premesse, diventa importante definire l’oggetto. Che cosa sia la preghiera è in apparenza una cosa evidente, ma appena si scava compare tutta la sua complessità. Essa rappresenta l’incontro di due desideri: quello dell’uomo e quello di Dio. In questo senso, «la preghiera è – come dice Isacco di Ninive – memoria costante di Dio nei cuori». Attraverso il dinamismo del desiderio si apre così una strada verso il suo luogo originario della preghiera: il cuore. In questo santuario interiore, l’uomo si raccoglie in sé e si rende presente a Dio, che è già lì ad attenderlo. «Da quando sei stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e del loro Spirito, Dio è in te, la Trinità respira in te» (Busca). La preghiera ci introduce nel mistero trinitario. È una partecipazione alla mensa dei Tre. «Lo Spirito viene ad afferrarti e ti dà al Figlio e il Figlio ti dà al Padre» (Ireneo). Pregare è essere commensali della Trinità. Comprendiamo così l’invito di molti maestri spirituali a volgere la preghiera all’interno, non verso un Dio del cielo e nemmeno verso un Dio lontano, ma verso un Dio più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Non a caso Gesù dirà nel vangelo di Luca: «il Regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), all’interno di quella stanza nella quale dobbiamo sostare se vogliamo pregare. «Quando preghi, fai in modo di scendere dalla testa al cuore, la vera preghiera è solamente quella che proviene dal cuore» (Teofane il Recluso).

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