Per una pausa spirituale durante XVIª Settimana del Tempo ordinario
Per la Bibbia non è l’uomo che va alla ricerca di Dio, bensì Dio che va alla ricerca dell’uomo, irrompendo nella sua vita in modo imprevedibile e imprevisto. Nell’ambito cristiano è stato il teologo protestante K. Barth ad avere riscoperto, agli inizi del secolo scorso, con forza inaudita, questa dimensione di irruzione del Dio biblico, denunciando come idolatrico e inconcludente qualsiasi tentativo, da parte dell’uomo, di arrivare a Dio sia attraverso la via della ‘ragione’ che attraverso quella del ‘cuore’: «Dio, il puro limite e il puro inizio di tutto quello che siamo, abbiamo e facciamo, Dio che sta di fronte in infinita differenza qualitativa all’uomo e a tutto quello che è umano e non è mai e in nessun luogo uguale a quello che noi chiamiamo Dio, che sperimentiamo, presentiamo, adoriamo come Dio, Dio che oppone a ogni inquietudine umana un: “Alt!” incondizionato e a ogni umana quiete un incondizionato: “Avanti!”, il “Sì” del nostro “No” e il “No” del nostro “Sì”, il Primo e l’Ultimo, e come tale lo Sconosciuto, Dio che non è mai una grandezza tra altre nella sfera di realtà a noi nota, Dio il Signore il Creatore e il Redentore è l’Iddio vivente» (in H. Zahrnt [ed.], Dialogo su Dio, Queriniana, Brescia 1976, p. 17).
Lo voglia o non lo voglia, sia agnostico, credente o non credente, l’uomo, per la Bibbia, è alle prese con Dio che, a sua insaputa, irrompe e si intromette nella sua vita. Ma dove e come? Il capitolo 18 della Genesi, la prima lettura della liturgia odierna, offre la risposta: «Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». Il luogo dove Dio incontra Abramo – dove gli appare, secondo il testo biblico, dove cioè gli si rende riconoscibile e visibile – non è il ‘tempio’, lo spazio del sacro, e neppure l’‘accademia’, lo spazio del sapere, bensì il ‘quotidiano’, lo spazio dell’esistenza ordinaria: la quercia, che rimanda al deserto; la tenda, che allude all’intimità della casa e degli affetti, e «l’ora più calda», il momento della minore attenzione e vigilanza. Alla luce di questo testo, la risposta alla domanda dove Dio ci viene incontro è disarmante: non nel sacro, non nello straordinario, non nel fenomenale, non nel prodigioso, non nel miracoloso, non nel liturgico, non nell’eccezionale (esperienze mistiche, estatiche o rare), bensì nell’ordinario più ordinario, che rasenta il banale dove l’io, piuttosto che al vertice della sua lucidità mentale, versa in uno stato di sonnolenza, dormiveglia o incoscienza. Ma ancora più paradossale è la modalità con la quale Dio entra nell’esistenza di Abramo: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Si faccia attenzione all’incongruenza narrativa: «Dio apparve ad Abramo», ma Abramo, alzando gli occhi, non vede Dio, bensì tre sconosciuti: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Dio, per la Bibbia, si fa presente e visibile all’uomo non come Dio, non come potenza straordinaria, seduttiva o attraente, bensì sotto mentite spoglie: senza nome il cui nome è il non-nome di ogni uomo. Se nei tre uomini che Abramo scorge al posto di Dio la tradizione mistica orientale ha intravisto il Dio uno e trino (si pensi alla celebre Trinità di Andrej Rublëv), più realisticamente la tradizione ebraica, coerentemente con il testo biblico, in essi ha visto il volto di ogni uomo e di ogni donna in cui Dio si incarna e attraverso il quale, come vuole il filosofo francese E. Lévinas, egli «visita» l’uomo: «La sua presenza consiste nel venire verso di noi, nel fare ingresso. Il che può essere formulato in questi termini...: il volto è visitazione» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, T. Pironti, Napoli 1979, 35). Il senso di questa ‘visitazione’ è di sottrarre l’io al potere dell’io – all’io inchiodato a sé nella sua ‘caverna egoica’ – per elevarlo, come Abramo, all’altezza di un io dimentico di sé e ospitale: «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione […] si muta in resistenza totale alla presa […]. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento e conoscenza» (E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, 203).
Per la Bibbia non è l’uomo che va alla ricerca di Dio, bensì Dio che va alla ricerca dell’uomo, irrompendo nella sua vita in modo imprevedibile e imprevisto. Nell’ambito cristiano è stato il teologo protestante K. Barth ad avere riscoperto, agli inizi del secolo scorso, con forza inaudita, questa dimensione di irruzione del Dio biblico, denunciando come idolatrico e inconcludente qualsiasi tentativo, da parte dell’uomo, di arrivare a Dio sia attraverso la via della ‘ragione’ che attraverso quella del ‘cuore’: «Dio, il puro limite e il puro inizio di tutto quello che siamo, abbiamo e facciamo, Dio che sta di fronte in infinita differenza qualitativa all’uomo e a tutto quello che è umano e non è mai e in nessun luogo uguale a quello che noi chiamiamo Dio, che sperimentiamo, presentiamo, adoriamo come Dio, Dio che oppone a ogni inquietudine umana un: “Alt!” incondizionato e a ogni umana quiete un incondizionato: “Avanti!”, il “Sì” del nostro “No” e il “No” del nostro “Sì”, il Primo e l’Ultimo, e come tale lo Sconosciuto, Dio che non è mai una grandezza tra altre nella sfera di realtà a noi nota, Dio il Signore il Creatore e il Redentore è l’Iddio vivente» (in H. Zahrnt [ed.], Dialogo su Dio, Queriniana, Brescia 1976, p. 17).
Lo voglia o non lo voglia, sia agnostico, credente o non credente, l’uomo, per la Bibbia, è alle prese con Dio che, a sua insaputa, irrompe e si intromette nella sua vita. Ma dove e come? Il capitolo 18 della Genesi, la prima lettura della liturgia odierna, offre la risposta: «Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». Il luogo dove Dio incontra Abramo – dove gli appare, secondo il testo biblico, dove cioè gli si rende riconoscibile e visibile – non è il ‘tempio’, lo spazio del sacro, e neppure l’‘accademia’, lo spazio del sapere, bensì il ‘quotidiano’, lo spazio dell’esistenza ordinaria: la quercia, che rimanda al deserto; la tenda, che allude all’intimità della casa e degli affetti, e «l’ora più calda», il momento della minore attenzione e vigilanza. Alla luce di questo testo, la risposta alla domanda dove Dio ci viene incontro è disarmante: non nel sacro, non nello straordinario, non nel fenomenale, non nel prodigioso, non nel miracoloso, non nel liturgico, non nell’eccezionale (esperienze mistiche, estatiche o rare), bensì nell’ordinario più ordinario, che rasenta il banale dove l’io, piuttosto che al vertice della sua lucidità mentale, versa in uno stato di sonnolenza, dormiveglia o incoscienza. Ma ancora più paradossale è la modalità con la quale Dio entra nell’esistenza di Abramo: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Si faccia attenzione all’incongruenza narrativa: «Dio apparve ad Abramo», ma Abramo, alzando gli occhi, non vede Dio, bensì tre sconosciuti: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui». Dio, per la Bibbia, si fa presente e visibile all’uomo non come Dio, non come potenza straordinaria, seduttiva o attraente, bensì sotto mentite spoglie: senza nome il cui nome è il non-nome di ogni uomo. Se nei tre uomini che Abramo scorge al posto di Dio la tradizione mistica orientale ha intravisto il Dio uno e trino (si pensi alla celebre Trinità di Andrej Rublëv), più realisticamente la tradizione ebraica, coerentemente con il testo biblico, in essi ha visto il volto di ogni uomo e di ogni donna in cui Dio si incarna e attraverso il quale, come vuole il filosofo francese E. Lévinas, egli «visita» l’uomo: «La sua presenza consiste nel venire verso di noi, nel fare ingresso. Il che può essere formulato in questi termini...: il volto è visitazione» (E. Lévinas, La traccia dell’altro, T. Pironti, Napoli 1979, 35). Il senso di questa ‘visitazione’ è di sottrarre l’io al potere dell’io – all’io inchiodato a sé nella sua ‘caverna egoica’ – per elevarlo, come Abramo, all’altezza di un io dimentico di sé e ospitale: «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione […] si muta in resistenza totale alla presa […]. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita a una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento e conoscenza» (E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, 203).
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