(Genesi 18,20-32 Colossesi 2,13-14 Luca 11,1-13)
Alla domanda dei discepoli Gesù risponde: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». La forma lucana è più breve di quella liturgica matteana, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il ‘tu’ del rapporto con il Padre ed il ‘noi’ dell’appartenenza comunitaria. La preghiera di Gesù inserisce il discepolo in una trama di rapporti: il rapporto con il Padre ed il rapporto con i fratelli. Pregare, dunque, è vivere nella relazione con Dio, come membro di una comunità umana.
Il termine greco patḗr traduce l’aramaico abbà (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). Mentre la forma matteana – «Padre nostro che sei nei cieli» – rispecchia formule giudaiche, l’abbà lucano esprime l’intimità, la libertà di rapporto con Dio che contrassegnava la persona di Gesù. L’uso di un termine così familiare crea un ambiente di fiducia, familiarità, vicinanza. Utilizzando un’espressione rabbinica, Dio si «restringe, si sveste della sua onnipotenza» per tornare ad essere semplicemente Padre, la radice della nostra esistenza. Il discepolo si rivolge a lui chiedendo che il suo ‘nome’ venga riconosciuto come ‘santo’. Nella tradizione ebraica, troviamo un testo molto simile: «sia esaltato e santificato il suo nome grande nel mondo da lui creato secondo la sua volontà». La prima richiesta del discepolo è dunque che ogni creatura possa riconoscere Dio come Dio, che la sua gloria possa essere resa incontrabile.
La seconda supplica riprende questo tema, dato che il regno indica la signoria di Dio nella storia umana. I discepoli di Gesù vivono nella consapevolezza che ormai il regno è vicino, anzi è percepibile nella relazione con il Figlio, e nei segni che loro stessi sono inviati a porre (9,6; 10,9): chiedono perciò che anche attraverso l’offerta della propria vita Dio possa divenire «tutto in tutti» (1 Cor 15,28). In sintesi, la sezione ‘tu’ chiede al discepolo un cambiamento di mentalità: non si tratta di ‘piegare’ la volontà di Dio, ma di assumerla come nostra prospettiva. Per questo pregare è chiedere a Dio di cambiarci, di formare in noi un cuore ed uno spirito nuovo, che nella luce dell’abbà iniziale può essere soltanto uno spirito filiale. È interessante notare che alcuni manoscritti sostituiscono la richiesta per la venuta del Regno con questa supplica: «Venga su di noi il tuo Spirito e ci purifichi»: è la richiesta di trasformarci in strumenti adatti all’annuncio purificandoci da tutto ciò che non santifica il nome di Dio.
«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»: sullo sfondo antico-testamentario, possiamo pensare al dono della manna, offerta da Dio giorno dopo giorno. Tuttavia, nella parola ‘pane’ possiamo comprendere ogni necessità della vita: i commentatori dibattono se si tratta di beni ‘materiali’ o ‘spirituali’. Personalmente ritengo che essi non possano e non debbano essere contrapposti: nella richiesta del pane è racchiusa la domanda per tutto ciò che rende l’esistenza ‘umana’, ‘buona’. Chiediamo al Padre di donarci un’esistenza degna dei suoi figli, in cui la preoccupazione per la sussistenza non divenga un impedimento al servizio del Regno.
In questa chiave possiamo comprendere la seconda richiesta: «e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». Nessuna esistenza è pienamente ‘umana’, se vissuta nella paura del giudizio, della punizione. Chiediamo al Padre di rigenerarci con la grazia del suo perdono perché possiamo servirlo nella libertà. La richiesta è legata ad una condizione. Diversamente da Matteo, Luca usa un verbo nella forma presente, presentando il perdono come un’attitudine di vita, non un evento occasionale: non possiamo quindi chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella continua disponibilità ad offrire il perdono al fratello.
L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», chiede d’essere compresa alla luce dell’esperienza di Gesù. All’inizio del suo ministero, condotto dallo Spirito nel deserto, Gesù vive l’esperienza della tentazione. Il termine peirasmós, nella luce antico-testamentaria, può essere utilizzato per descrivere due esperienze: – la prova a cui viene sottoposto ‘l’amico di Dio’: pensiamo al sacrificio del figlio per Abramo o all’esperienza della malattia per Giobbe; – il momento nel quale la persona si interroga su Dio: «Sei proprio tu o dobbiamo aspettare un altro» (Lc 7,19)? Si tratta dunque di tentazione in senso radicale, non morale. Gesù nel deserto è dunque «messo alla prova» come Abramo o come Giobbe, come il popolo d’Israele. Gesù sceglie di essere totalmente figlio e di vivere la propria identità messianica in rapporto a questa identità fondamentale. Invitato ad essere il Messia del pane abbondante, sceglie di essere il Messia della Parola (cfr. 4,4); invitato a farsi Messia politico/teocratico, sceglie di essere il Messia del servizio di Dio (cfr. 4,7); invitato a chiedere miracoli di protezione, sceglie la fiducia in Dio, anche nella sofferenza (cfr. 4,12).
PREGHIERA - A questa scelta si manterrà costantemente fedele. Siamo anche noi tra quelli, Gesù, che credono di saper pregare e non ci sfiora neppure il dubbio che i nostri tentativi di metterci in comunicazione con Dio siano votati all’insuccesso.
Pretendiamo, Gesù, di insegnare al Padre quello che deve fare, ci arroghiamo lo strano diritto di piegarlo alla nostra volontà, di farlo agire secondo le nostre richieste. Tu ci insegni che la preghiera parte da un gesto di abbandono, dalla nostra disponibilità a realizzare i progetti di Dio non ad imporgli i nostri, a metterci per le sue vie non a spingerlo per i nostri sentieri.
Riteniamo che il Padre debba corrispondere alle nostre attese e così gli appiccichiamo sul volto la maschera di nostro gradimento. Ci illudiamo di poterlo comprare con le nostre invocazioni, con le nostre offerte, con i nostri gesti di devozione. Ma Dio è sovranamente libero e ha rivelato la sua identità attraverso le tue parole e i tuoi gesti. Nessuno può essere così stolto da costruirsi un’immagine arbitraria, un pupazzo che non corrisponde affatto al Padre che ci vuole suoi figli e tra noi fratelli.
Alla domanda dei discepoli Gesù risponde: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». La forma lucana è più breve di quella liturgica matteana, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il ‘tu’ del rapporto con il Padre ed il ‘noi’ dell’appartenenza comunitaria. La preghiera di Gesù inserisce il discepolo in una trama di rapporti: il rapporto con il Padre ed il rapporto con i fratelli. Pregare, dunque, è vivere nella relazione con Dio, come membro di una comunità umana.
Il termine greco patḗr traduce l’aramaico abbà (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). Mentre la forma matteana – «Padre nostro che sei nei cieli» – rispecchia formule giudaiche, l’abbà lucano esprime l’intimità, la libertà di rapporto con Dio che contrassegnava la persona di Gesù. L’uso di un termine così familiare crea un ambiente di fiducia, familiarità, vicinanza. Utilizzando un’espressione rabbinica, Dio si «restringe, si sveste della sua onnipotenza» per tornare ad essere semplicemente Padre, la radice della nostra esistenza. Il discepolo si rivolge a lui chiedendo che il suo ‘nome’ venga riconosciuto come ‘santo’. Nella tradizione ebraica, troviamo un testo molto simile: «sia esaltato e santificato il suo nome grande nel mondo da lui creato secondo la sua volontà». La prima richiesta del discepolo è dunque che ogni creatura possa riconoscere Dio come Dio, che la sua gloria possa essere resa incontrabile.
La seconda supplica riprende questo tema, dato che il regno indica la signoria di Dio nella storia umana. I discepoli di Gesù vivono nella consapevolezza che ormai il regno è vicino, anzi è percepibile nella relazione con il Figlio, e nei segni che loro stessi sono inviati a porre (9,6; 10,9): chiedono perciò che anche attraverso l’offerta della propria vita Dio possa divenire «tutto in tutti» (1 Cor 15,28). In sintesi, la sezione ‘tu’ chiede al discepolo un cambiamento di mentalità: non si tratta di ‘piegare’ la volontà di Dio, ma di assumerla come nostra prospettiva. Per questo pregare è chiedere a Dio di cambiarci, di formare in noi un cuore ed uno spirito nuovo, che nella luce dell’abbà iniziale può essere soltanto uno spirito filiale. È interessante notare che alcuni manoscritti sostituiscono la richiesta per la venuta del Regno con questa supplica: «Venga su di noi il tuo Spirito e ci purifichi»: è la richiesta di trasformarci in strumenti adatti all’annuncio purificandoci da tutto ciò che non santifica il nome di Dio.
«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»: sullo sfondo antico-testamentario, possiamo pensare al dono della manna, offerta da Dio giorno dopo giorno. Tuttavia, nella parola ‘pane’ possiamo comprendere ogni necessità della vita: i commentatori dibattono se si tratta di beni ‘materiali’ o ‘spirituali’. Personalmente ritengo che essi non possano e non debbano essere contrapposti: nella richiesta del pane è racchiusa la domanda per tutto ciò che rende l’esistenza ‘umana’, ‘buona’. Chiediamo al Padre di donarci un’esistenza degna dei suoi figli, in cui la preoccupazione per la sussistenza non divenga un impedimento al servizio del Regno.
In questa chiave possiamo comprendere la seconda richiesta: «e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». Nessuna esistenza è pienamente ‘umana’, se vissuta nella paura del giudizio, della punizione. Chiediamo al Padre di rigenerarci con la grazia del suo perdono perché possiamo servirlo nella libertà. La richiesta è legata ad una condizione. Diversamente da Matteo, Luca usa un verbo nella forma presente, presentando il perdono come un’attitudine di vita, non un evento occasionale: non possiamo quindi chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella continua disponibilità ad offrire il perdono al fratello.
L’ultima richiesta, «non abbandonarci alla tentazione», chiede d’essere compresa alla luce dell’esperienza di Gesù. All’inizio del suo ministero, condotto dallo Spirito nel deserto, Gesù vive l’esperienza della tentazione. Il termine peirasmós, nella luce antico-testamentaria, può essere utilizzato per descrivere due esperienze: – la prova a cui viene sottoposto ‘l’amico di Dio’: pensiamo al sacrificio del figlio per Abramo o all’esperienza della malattia per Giobbe; – il momento nel quale la persona si interroga su Dio: «Sei proprio tu o dobbiamo aspettare un altro» (Lc 7,19)? Si tratta dunque di tentazione in senso radicale, non morale. Gesù nel deserto è dunque «messo alla prova» come Abramo o come Giobbe, come il popolo d’Israele. Gesù sceglie di essere totalmente figlio e di vivere la propria identità messianica in rapporto a questa identità fondamentale. Invitato ad essere il Messia del pane abbondante, sceglie di essere il Messia della Parola (cfr. 4,4); invitato a farsi Messia politico/teocratico, sceglie di essere il Messia del servizio di Dio (cfr. 4,7); invitato a chiedere miracoli di protezione, sceglie la fiducia in Dio, anche nella sofferenza (cfr. 4,12).
PREGHIERA - A questa scelta si manterrà costantemente fedele. Siamo anche noi tra quelli, Gesù, che credono di saper pregare e non ci sfiora neppure il dubbio che i nostri tentativi di metterci in comunicazione con Dio siano votati all’insuccesso.
Pretendiamo, Gesù, di insegnare al Padre quello che deve fare, ci arroghiamo lo strano diritto di piegarlo alla nostra volontà, di farlo agire secondo le nostre richieste. Tu ci insegni che la preghiera parte da un gesto di abbandono, dalla nostra disponibilità a realizzare i progetti di Dio non ad imporgli i nostri, a metterci per le sue vie non a spingerlo per i nostri sentieri.
Riteniamo che il Padre debba corrispondere alle nostre attese e così gli appiccichiamo sul volto la maschera di nostro gradimento. Ci illudiamo di poterlo comprare con le nostre invocazioni, con le nostre offerte, con i nostri gesti di devozione. Ma Dio è sovranamente libero e ha rivelato la sua identità attraverso le tue parole e i tuoi gesti. Nessuno può essere così stolto da costruirsi un’immagine arbitraria, un pupazzo che non corrisponde affatto al Padre che ci vuole suoi figli e tra noi fratelli.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.