Per una pausa spirituale durante xª Settimana del Tempo ordinario
Dietro la madre del vangelo di domenica (Luca 7,11-17) vi è una lunga fila di madri come lei: quelle che hanno perso un figlio in un incidente stradale; quelle che l’hanno perduto, rapito da una malattia precoce e crudele; quelle che l’hanno perso perché le scelte della vita l’hanno portato sulle strade del prodigo, a buttar via la propria esistenza nell’illegalità, nel disordine, nella droga, nel non senso. Il pianto di una madre che ha perso un figlio può essere il simbolo di tutti i dolori che suscitano domande drammatiche, senza risposta ragionevole. L’unica risposta che accetterebbero è quella del gesto di Gesù: la restituzione del figlio alla vita!
L’esperienza del dolore, soprattutto di quello che ferisce negli affetti più cari, è fonte di tanti drammatici interrogativi, che sono quelli che si fa Giobbe davanti ad un Dio che lo ha privato di tutto e lo ha reso come un rifiuto di umanità: perché? Perché questa malattia? che cosa abbiamo fatto di male? perché proprio a noi? E poi le più difficili: se Dio c’è, perché permette questo? se Dio è buono, perché permette questo male che ci ferisce, che ci toglie la voglia di vivere, che rende la nostra esistenza amara e senza senso?
Forse qualcuno si pone questi interrogativi; qualche altro rimane muto, come svuotato da un dolore che sembra togliere la vita, anche a chi le sopravvive. Si vorrebbe vedere arrivare Gesù con il suo seguito di discepoli e di folla, e pronunciare anche per noi le parole che restituiscono la vita: «Dico a te: àlzati!». Ma Gesù non arriva in questo modo, e il racconto del vangelo di questa domenica potrebbe apparirci una bella favola: bella come tutte le favole, ma senza consolazione nella sua vacuità. Dio ha ancora compassione di noi? Non appare Gesù a restituire la vita, ma egli si presenta con un’altra immagine: quella di un uomo sfigurato dal dolore, che cammina verso il luogo del suo supplizio, che viene inchiodato ad una croce su cui agonizza per ore, in attesa che le leggi della natura facciano il loro corso e che il Padre lo accolga. Anche a noi viene da gridargli, come quelli che stavano ai piedi della croce: «Se sei figlio di Dio…» compi ancora un miracolo; scendi dalla croce, risana tutti i malati, vieni a risuscitare i nostri morti. Lui ci risponde con il suo silenzio, e poi con le parole dell’abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E noi siamo ributtati nella nostra lotta con Dio, a decidere se restare chiusi nella nostra rabbia amara contro la vita, o arrenderci facendo nostro l’atteggiamento di obbedienza e di fiducia di Gesù. Dio ha ancora compassione? La compassione di Dio oggi è quel Figlio appeso alla croce, carico della sofferenza di tutta l’umanità, quel dolore e quel male che solo l’amore possono vincere. Davanti al volto sfigurato e umiliato di questo Uomo è impossibile non provare compassione; e avvertire che il nostro cuore è preso da un sentimento che ci trafigge il cuore, come al centurione che davanti al modo con cui muore questo uomo innocente capisce che solo Dio può avere nel cuore un amore così grande da accettare la morte con tanta mitezza: «Veramente questo uomo era il figlio di Dio!», esclama. Anche i due che sono crocifissi con Gesù, uno alla destra e uno alla sinistra, stanno quasi a simboleggiare un’umanità che si divide davanti a lui: vi è chi è convinto dalla sua testimonianza di amore e chi sente che proprio questa morte accresce la sua rabbia e costituisce motivo di scandalo. Dio ha ancora compassione, ma tocca a noi decidere se vogliamo riconoscerla nel volto dell’Uomo della croce o se vogliamo respingerla. La lotta dell’uomo con Dio continua nel tempo e si distende, giorno dopo giorno, lungo i secoli. Ho conosciuto persone che davanti alla sofferenza si sono intristite nella rabbia e nell’amarezza verso la vita, verso Dio e verso gli altri, e hanno quasi smesso di vivere. Altri nelle stesse circostanze hanno trovato la compassione di Dio, immergendosi nella misteriosa compassione per Dio. Ricordo Alessia, un’adolescente che a quattordici anni ha scoperto di avere un tumore devastante. Ha passato i primi mesi a imprecare contro la vita, a piangere e a lottare, con coraggio e determinazione. Poi, a poco a poco, ha cominciato a entrare nel mistero del dolore, ha scoperto che vi è Dio che ama tutti, anche i giovani malati di tumore. Nelle ultime settimane di vita, a chi l’ha accompagnata nel suo calvario, confidava che aveva scoperto l’altezza, la larghezza e la profondità dell’amore di Dio e che viveva in esso. E provava compassione per tutti i giovani che avevano una malattia diversa dalla sua e per certi versi più grave: il cuore vuoto, la testa piena di cose futili e la mancanza di un senso alla loro vita. È morta indicando nell’arcobaleno, ponte tra cielo e terra, il modo per continuare a rimanere in comunione con le persone che aveva avuto care. E testimoniando che quando si prova compassione per gli altri, si riesce ad entrare nella compassione di Dio e ad esserne consolati.
Dietro la madre del vangelo di domenica (Luca 7,11-17) vi è una lunga fila di madri come lei: quelle che hanno perso un figlio in un incidente stradale; quelle che l’hanno perduto, rapito da una malattia precoce e crudele; quelle che l’hanno perso perché le scelte della vita l’hanno portato sulle strade del prodigo, a buttar via la propria esistenza nell’illegalità, nel disordine, nella droga, nel non senso. Il pianto di una madre che ha perso un figlio può essere il simbolo di tutti i dolori che suscitano domande drammatiche, senza risposta ragionevole. L’unica risposta che accetterebbero è quella del gesto di Gesù: la restituzione del figlio alla vita!
L’esperienza del dolore, soprattutto di quello che ferisce negli affetti più cari, è fonte di tanti drammatici interrogativi, che sono quelli che si fa Giobbe davanti ad un Dio che lo ha privato di tutto e lo ha reso come un rifiuto di umanità: perché? Perché questa malattia? che cosa abbiamo fatto di male? perché proprio a noi? E poi le più difficili: se Dio c’è, perché permette questo? se Dio è buono, perché permette questo male che ci ferisce, che ci toglie la voglia di vivere, che rende la nostra esistenza amara e senza senso?
Forse qualcuno si pone questi interrogativi; qualche altro rimane muto, come svuotato da un dolore che sembra togliere la vita, anche a chi le sopravvive. Si vorrebbe vedere arrivare Gesù con il suo seguito di discepoli e di folla, e pronunciare anche per noi le parole che restituiscono la vita: «Dico a te: àlzati!». Ma Gesù non arriva in questo modo, e il racconto del vangelo di questa domenica potrebbe apparirci una bella favola: bella come tutte le favole, ma senza consolazione nella sua vacuità. Dio ha ancora compassione di noi? Non appare Gesù a restituire la vita, ma egli si presenta con un’altra immagine: quella di un uomo sfigurato dal dolore, che cammina verso il luogo del suo supplizio, che viene inchiodato ad una croce su cui agonizza per ore, in attesa che le leggi della natura facciano il loro corso e che il Padre lo accolga. Anche a noi viene da gridargli, come quelli che stavano ai piedi della croce: «Se sei figlio di Dio…» compi ancora un miracolo; scendi dalla croce, risana tutti i malati, vieni a risuscitare i nostri morti. Lui ci risponde con il suo silenzio, e poi con le parole dell’abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E noi siamo ributtati nella nostra lotta con Dio, a decidere se restare chiusi nella nostra rabbia amara contro la vita, o arrenderci facendo nostro l’atteggiamento di obbedienza e di fiducia di Gesù. Dio ha ancora compassione? La compassione di Dio oggi è quel Figlio appeso alla croce, carico della sofferenza di tutta l’umanità, quel dolore e quel male che solo l’amore possono vincere. Davanti al volto sfigurato e umiliato di questo Uomo è impossibile non provare compassione; e avvertire che il nostro cuore è preso da un sentimento che ci trafigge il cuore, come al centurione che davanti al modo con cui muore questo uomo innocente capisce che solo Dio può avere nel cuore un amore così grande da accettare la morte con tanta mitezza: «Veramente questo uomo era il figlio di Dio!», esclama. Anche i due che sono crocifissi con Gesù, uno alla destra e uno alla sinistra, stanno quasi a simboleggiare un’umanità che si divide davanti a lui: vi è chi è convinto dalla sua testimonianza di amore e chi sente che proprio questa morte accresce la sua rabbia e costituisce motivo di scandalo. Dio ha ancora compassione, ma tocca a noi decidere se vogliamo riconoscerla nel volto dell’Uomo della croce o se vogliamo respingerla. La lotta dell’uomo con Dio continua nel tempo e si distende, giorno dopo giorno, lungo i secoli. Ho conosciuto persone che davanti alla sofferenza si sono intristite nella rabbia e nell’amarezza verso la vita, verso Dio e verso gli altri, e hanno quasi smesso di vivere. Altri nelle stesse circostanze hanno trovato la compassione di Dio, immergendosi nella misteriosa compassione per Dio. Ricordo Alessia, un’adolescente che a quattordici anni ha scoperto di avere un tumore devastante. Ha passato i primi mesi a imprecare contro la vita, a piangere e a lottare, con coraggio e determinazione. Poi, a poco a poco, ha cominciato a entrare nel mistero del dolore, ha scoperto che vi è Dio che ama tutti, anche i giovani malati di tumore. Nelle ultime settimane di vita, a chi l’ha accompagnata nel suo calvario, confidava che aveva scoperto l’altezza, la larghezza e la profondità dell’amore di Dio e che viveva in esso. E provava compassione per tutti i giovani che avevano una malattia diversa dalla sua e per certi versi più grave: il cuore vuoto, la testa piena di cose futili e la mancanza di un senso alla loro vita. È morta indicando nell’arcobaleno, ponte tra cielo e terra, il modo per continuare a rimanere in comunione con le persone che aveva avuto care. E testimoniando che quando si prova compassione per gli altri, si riesce ad entrare nella compassione di Dio e ad esserne consolati.
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