Terza giornata: IL DECALOGO – Storia (seconda parte)
Dai rilievi formali, riportati nella prima parte della nostra riflessione (cfr. seconda giornata), si conclude che la forma positiva e la formulazione diffusa e analitica sono state il risultato di elaborazioni e attualizzazioni successive di un decalogo più antico, espresso uniformemente in una serie di proibizioni assolute, incondizionate, brevissime, dello stesso stampo per esempio del comandamento “ Non uccidere”. Da parte di molti studiosi non si esita a far risalire tale decalogo ricostruito al tempo mosaico o almeno all’epoca della prima sedentarizzazione di Israele nella terra (dunque nel secolo XIII o XII). Non si sarebbe lontani dal vero se si pensasse ad una formulazione del decalogo originario come la seguente:
· Non adorerai altro Dio
· Non ti farai immagine alcuna di Dio
· Non nominerai il nome di Dio in vano
· Non lavorerai di sabato
· Non maledirai tuo padre e tua madre
· Non ucciderai
· Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo
· Non sequestrerai il tuo prossimo
· Non testimonierai il falso contro il tuo prossimo
· Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Si ritiene, ancora, che la differenza formale tra i primi due comandamenti espressi in prima persona divina, e gli altri, in terza persona, indichi pure una diversità di origine. I primi due sarebbero l’espressione più originale e tipica della fede delle tribù israelitiche in Jahve, che non ammette accanto a sé culto e adorazione di altri dei e che non tollera di essere imprigionato in una statua. Si tratta di proibizioni che costituiscono un caso unico nella storia delle religioni e in particolare sono del tutto sconosciute nell’area culturale dell’Antico Medio Oriente. È giocoforza trovare nella fede israelitica la loro fonte. Non così, invece, è degli altri comandamenti del decalogo. Dalla letteratura egiziana, particolarmente dal Libro dei Morti, si hanno parallelismi significativi risalenti ad un’epoca molto arcaica, premosaica. Inoltre da un’analisi delle proibizioni del decalogo emerge con probabilità che si tratta di espressioni etiche tipiche di clans, particolarmente dei clans israelitici unitisi successivamente a formare il popolo di Israele. Non è dunque azzardato pensare che lo stesso Mosè, cresciuto alla scuola degli scribi egiziani, abbia dato forma all’etica propria dei clans israelitici e, unendo tali proibizioni etiche alle esigenze fondamentali dell’adorazione esclusiva di Jahve e della proibizione della statua, abbia segnato la nascita del decalogo, inteso globalmente come espressione della volontà di Jahve nel patto sancito con il popolo di Israele. L’etica dei clans passò così ad essere comandamento del Dio dell’alleanza. A partire da questo tempo remoto il decalogo entrò nella vita e nella storia di Israele, non restando legge immutabile, bensì evolvendosi secondo le nuove situazioni e secondo il progresso della fede del popolo. Ambito privilegiato di questa vita del decalogo fu il culto. Ogni sette anni le tribù israelitiche, unite nella federazione religiosa attorno alla fede in Jahve, rinnovavano il patto con il loro Dio (cf. Dt 31,10-13), proclamando e attualizzando sempre di nuovo i comandamenti. La predicazione profetica ( per esempio Os 4,2) esortava alla fedeltà verso le esigenze del patto del Sinai e trovava applicazioni nuove dei comandamenti di Dio alla situazione cangiante. La predicazione cosidetta deuteronomistica dei circoli levitici del Regno del Nord inserì nella tradizione giudaica la ricchezza propria del culto e della fede delle tribù del Nord; ebbe origine così il codice deuteronomico (Dt 5-26), caratterizzato da una sviluppata teologia della legge intesa come parola viva di Jahve. A questa corrente di spiritualità, databile nei secoli VII e VI, si devono le precisazioni contenute nei comandamenti sull’immagine di Dio, sul riposo sabatico e sul rispetto della proprietà del prossimo, la riespressione del primo comandamento nella proibizione dell’adorazione e del culto degli idoli, la motivazione della proibizione di invocare il nome di Dio invano, il richiamo della schiavitù egiziana come base del comandamento del riposo sabatico, la promessa di lunga vita ai figli devoti verso i propri genitori. Né si deve dimenticare l’influsso della corrente sapienziale, a cui si può far risalire l’espressione positiva del comandamenti riguardanti il riposo sabatico e l’onore dovuto ai genitori. Cambiamento operato con l’intento di allargare l’ambito dei comandamenti. La tradizione sacerdotale, messa per iscritto durante l’esilio babilonese (secolo VI), non è stata assente; di certo ad essa si deve la motivazione del riposo sabatico propria del testo del decalogo del libro dell’Esodo (cf 20,11). Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che non si tratta di glosse inserite furtivamente da copisti, ma di vere e proprie attualizzazioni dei comandamenti di Dio, vissuti come realtà viva, informatrice dell’esistenza del popolo nelle diverse epoche. Il decalogo non è un codice staticamente valido una volta per sempre, ma l’espressione della volontà divina scoperta sempre di nuovo e attualizzata dal popolo nel corso della sua storia.
Dai rilievi formali, riportati nella prima parte della nostra riflessione (cfr. seconda giornata), si conclude che la forma positiva e la formulazione diffusa e analitica sono state il risultato di elaborazioni e attualizzazioni successive di un decalogo più antico, espresso uniformemente in una serie di proibizioni assolute, incondizionate, brevissime, dello stesso stampo per esempio del comandamento “ Non uccidere”. Da parte di molti studiosi non si esita a far risalire tale decalogo ricostruito al tempo mosaico o almeno all’epoca della prima sedentarizzazione di Israele nella terra (dunque nel secolo XIII o XII). Non si sarebbe lontani dal vero se si pensasse ad una formulazione del decalogo originario come la seguente:
· Non adorerai altro Dio
· Non ti farai immagine alcuna di Dio
· Non nominerai il nome di Dio in vano
· Non lavorerai di sabato
· Non maledirai tuo padre e tua madre
· Non ucciderai
· Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo
· Non sequestrerai il tuo prossimo
· Non testimonierai il falso contro il tuo prossimo
· Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Si ritiene, ancora, che la differenza formale tra i primi due comandamenti espressi in prima persona divina, e gli altri, in terza persona, indichi pure una diversità di origine. I primi due sarebbero l’espressione più originale e tipica della fede delle tribù israelitiche in Jahve, che non ammette accanto a sé culto e adorazione di altri dei e che non tollera di essere imprigionato in una statua. Si tratta di proibizioni che costituiscono un caso unico nella storia delle religioni e in particolare sono del tutto sconosciute nell’area culturale dell’Antico Medio Oriente. È giocoforza trovare nella fede israelitica la loro fonte. Non così, invece, è degli altri comandamenti del decalogo. Dalla letteratura egiziana, particolarmente dal Libro dei Morti, si hanno parallelismi significativi risalenti ad un’epoca molto arcaica, premosaica. Inoltre da un’analisi delle proibizioni del decalogo emerge con probabilità che si tratta di espressioni etiche tipiche di clans, particolarmente dei clans israelitici unitisi successivamente a formare il popolo di Israele. Non è dunque azzardato pensare che lo stesso Mosè, cresciuto alla scuola degli scribi egiziani, abbia dato forma all’etica propria dei clans israelitici e, unendo tali proibizioni etiche alle esigenze fondamentali dell’adorazione esclusiva di Jahve e della proibizione della statua, abbia segnato la nascita del decalogo, inteso globalmente come espressione della volontà di Jahve nel patto sancito con il popolo di Israele. L’etica dei clans passò così ad essere comandamento del Dio dell’alleanza. A partire da questo tempo remoto il decalogo entrò nella vita e nella storia di Israele, non restando legge immutabile, bensì evolvendosi secondo le nuove situazioni e secondo il progresso della fede del popolo. Ambito privilegiato di questa vita del decalogo fu il culto. Ogni sette anni le tribù israelitiche, unite nella federazione religiosa attorno alla fede in Jahve, rinnovavano il patto con il loro Dio (cf. Dt 31,10-13), proclamando e attualizzando sempre di nuovo i comandamenti. La predicazione profetica ( per esempio Os 4,2) esortava alla fedeltà verso le esigenze del patto del Sinai e trovava applicazioni nuove dei comandamenti di Dio alla situazione cangiante. La predicazione cosidetta deuteronomistica dei circoli levitici del Regno del Nord inserì nella tradizione giudaica la ricchezza propria del culto e della fede delle tribù del Nord; ebbe origine così il codice deuteronomico (Dt 5-26), caratterizzato da una sviluppata teologia della legge intesa come parola viva di Jahve. A questa corrente di spiritualità, databile nei secoli VII e VI, si devono le precisazioni contenute nei comandamenti sull’immagine di Dio, sul riposo sabatico e sul rispetto della proprietà del prossimo, la riespressione del primo comandamento nella proibizione dell’adorazione e del culto degli idoli, la motivazione della proibizione di invocare il nome di Dio invano, il richiamo della schiavitù egiziana come base del comandamento del riposo sabatico, la promessa di lunga vita ai figli devoti verso i propri genitori. Né si deve dimenticare l’influsso della corrente sapienziale, a cui si può far risalire l’espressione positiva del comandamenti riguardanti il riposo sabatico e l’onore dovuto ai genitori. Cambiamento operato con l’intento di allargare l’ambito dei comandamenti. La tradizione sacerdotale, messa per iscritto durante l’esilio babilonese (secolo VI), non è stata assente; di certo ad essa si deve la motivazione del riposo sabatico propria del testo del decalogo del libro dell’Esodo (cf 20,11). Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che non si tratta di glosse inserite furtivamente da copisti, ma di vere e proprie attualizzazioni dei comandamenti di Dio, vissuti come realtà viva, informatrice dell’esistenza del popolo nelle diverse epoche. Il decalogo non è un codice staticamente valido una volta per sempre, ma l’espressione della volontà divina scoperta sempre di nuovo e attualizzata dal popolo nel corso della sua storia.
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