Per una pausa spirituale durante la Vª Settimana di Quaresima
Il brano evangelico proposto dalla liturgia Ddi domenica ( Giovanni 12,20-33) appartiene ad una sezione di transizione del quarto vangelo. In Gv 11,55 viene annunciata la vicinanza della festa di Pasqua: è la terza volta che succede nel racconto di Giovanni e questa è la Pasqua decisiva, quella di Gesù. Con quel versetto dovrebbe iniziare l’ultima parte dell’opera; eppure il «libro dell’Ora» comincia propriamente col cap. 13, dove è ripreso il richiamo dell’imminente Pasqua (Gv 13,1). Possiamo quindi dire che la sezione Gv 11,55–12,50 costituisce un interludio di passaggio fra il «libro dei Segni» e il compimento pasquale: tale sezione narrativa è caratterizzata da brevi episodi e insegnamenti sulla dignità messianica di Gesù, terminando con due conclusioni teologiche, una pronunciata dall’evangelista (Gv 12,37-43) e l’altra da Gesù stesso (Gv 12,44-50). Il testo liturgico si colloca immediatamente dopo la cena di Betania (Gv 12,1-11), avvenuta sei giorni prima di Pasqua, e l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme (Gv 12,12-19), datato da Giovanni il giorno dopo. Siamo quindi nell’imminenza della festa pasquale in cui si compie il progetto divino.
I Greci vogliono vedere Gesù - Il ministero terreno di Gesù è ormai alla fine. Nonostante i grandi segni compiuti egli non è uscito da Israele e non si è fatto conoscere a tutto il mondo: la sua missione è rimasta circoscritta nello spazio, oltre che nel tempo. Mentre egli si trova a Gerusalemme per la festa di Pasqua, che sarà l’ultima e la definitiva, il narratore presenta alcuni stranieri, provenienti dal mondo ellenista, i quali vorrebbero conoscere Gesù (Gv 12,20-22). A fare da mediatori sono proprio due apostoli che portano nomi greci, Filippo e Andrea: essi riferiscono al Maestro il desiderio di questi pellegrini saliti a Gerusalemme per la festa. Nella loro richiesta è racchiuso in modo simbolico l’anelito di tutta l’umanità che, magari solo inconsciamente, aspira all’incontro con Colui che può salvare.
Ma Gesù risponde stranamente; il discorso riportato da Giovanni non sembra coerente alla questione che gli hanno posto i discepoli. Eppure, riflettendo con maggior attenzione, possiamo riconoscere un nesso importante e significativo. Gesù anzitutto annuncia che ormai la sua Ora è giunta (Gv 12,23): si tratta del momento culminante della sua glorificazione in quanto «Figlio dell’uomo». Con tale termine tipico del linguaggio apocalittico Gesù ha indicato se stesso come personaggio celeste e divino, appartenente ad una dimensione sovrumana: la formula oscura ed enigmatica serviva proprio per suscitare negli ascoltatori ricerca e desiderio di approfondimento. Secondo la teologia giovannea, inoltre, la gloria consiste nella manifestazione della presenza potente e operante di Dio: il Figlio viene glorificato nel momento in cui il Padre rivela la grandezza del suo amore, che è strettamente congiunto al dono della vita.
A tale rivelazione allude l’immagine parabolica del seme (Gv 12,24). Mancano in Giovanni le parabole sinottiche della crescita; ma è significativamente presente questo indizio del modo consueto di parlare proprio di Gesù. Con una intenzionale sfumatura allegorica il quarto evangelista identifica il chicco di grano con Gesù stesso e presenta l’efficacia della sua missione attraverso la dinamica del seme. Propriamente il seme non muore, quando è messo nel terreno; anzi è proprio in quel modo che prende vita e si moltiplica. Forzando l’immagine dunque, Giovanni parla di morte del seme, perché pensa alla morte di Gesù: eppure – dice – è avvenuto per lui proprio come per il chicco di grano.
Lo stesso principio regola anche la vita dei discepoli (Gv12,25): con una propria rielaborazione il quarto vangelo ripropone un lóghion sinottico ben attestato (cfr. Mt 16,25 // Mc 8,35// Lc 9,24), con cui il Maestro insegna che il modo per conservare la propria esistenza (il greco adopera il termine psychḗ =‘anima’) è odiarla e non amarla. Giovanni contrappone «questo mondo» alla «vita eterna», nel senso che distingue nettamente questa struttura corrotta del sistema terrestre e la vita pienamente realizzata grazie all’intervento divino. Accettare di morire a «questo mondo» costituisce la strada per ottenere la «vita eterna»: questo significa «servire Gesù» (Gv 12,26), perché comporta una concreta imitazione del suo stile esistenziale. Un tale servitore sarà insieme a Gesù, onorato da Dio Padre come il Figlio stesso.
Lì per lì restiamo un po’ sconcertati e ci domandiamo: che cosa c’entra questo discorso con la richiesta dei Greci? Di fatto Gesù non va incontro a quegli stranieri e non si fa conoscere da loro; sembra ignorare il loro desiderio. Perché? Che cosa ha voluto dire con la sua risposta? Ha voluto dire che l’apertura universale e l’incontro con ogni uomo sarà possibile al Cristo dopo l’evento della sua glorificazione, cioè dopo la sua morte e risurrezione. È questa l’Ora a cui tende tutta la vita di Gesù: questo è il compimento della sua missione. Solo con la morte egli può portare frutto: il frutto sarà la fede di tutte le genti e la loro comunione con Dio. Nel momento della gloria (cioè la sua morte e risurrezione) il Cristo entra nella potenza di Dio e può entrare nella vita di ogni uomo per trasformarlo dal di dentro. Chi è disposto ad accoglierlo, a seguirlo e a servirlo potrà incontrare Dio, anzi sarà accolto e onorato dal Padre che attende questo incontro dall’eternità.
Il brano evangelico proposto dalla liturgia Ddi domenica ( Giovanni 12,20-33) appartiene ad una sezione di transizione del quarto vangelo. In Gv 11,55 viene annunciata la vicinanza della festa di Pasqua: è la terza volta che succede nel racconto di Giovanni e questa è la Pasqua decisiva, quella di Gesù. Con quel versetto dovrebbe iniziare l’ultima parte dell’opera; eppure il «libro dell’Ora» comincia propriamente col cap. 13, dove è ripreso il richiamo dell’imminente Pasqua (Gv 13,1). Possiamo quindi dire che la sezione Gv 11,55–12,50 costituisce un interludio di passaggio fra il «libro dei Segni» e il compimento pasquale: tale sezione narrativa è caratterizzata da brevi episodi e insegnamenti sulla dignità messianica di Gesù, terminando con due conclusioni teologiche, una pronunciata dall’evangelista (Gv 12,37-43) e l’altra da Gesù stesso (Gv 12,44-50). Il testo liturgico si colloca immediatamente dopo la cena di Betania (Gv 12,1-11), avvenuta sei giorni prima di Pasqua, e l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme (Gv 12,12-19), datato da Giovanni il giorno dopo. Siamo quindi nell’imminenza della festa pasquale in cui si compie il progetto divino.
I Greci vogliono vedere Gesù - Il ministero terreno di Gesù è ormai alla fine. Nonostante i grandi segni compiuti egli non è uscito da Israele e non si è fatto conoscere a tutto il mondo: la sua missione è rimasta circoscritta nello spazio, oltre che nel tempo. Mentre egli si trova a Gerusalemme per la festa di Pasqua, che sarà l’ultima e la definitiva, il narratore presenta alcuni stranieri, provenienti dal mondo ellenista, i quali vorrebbero conoscere Gesù (Gv 12,20-22). A fare da mediatori sono proprio due apostoli che portano nomi greci, Filippo e Andrea: essi riferiscono al Maestro il desiderio di questi pellegrini saliti a Gerusalemme per la festa. Nella loro richiesta è racchiuso in modo simbolico l’anelito di tutta l’umanità che, magari solo inconsciamente, aspira all’incontro con Colui che può salvare.
Ma Gesù risponde stranamente; il discorso riportato da Giovanni non sembra coerente alla questione che gli hanno posto i discepoli. Eppure, riflettendo con maggior attenzione, possiamo riconoscere un nesso importante e significativo. Gesù anzitutto annuncia che ormai la sua Ora è giunta (Gv 12,23): si tratta del momento culminante della sua glorificazione in quanto «Figlio dell’uomo». Con tale termine tipico del linguaggio apocalittico Gesù ha indicato se stesso come personaggio celeste e divino, appartenente ad una dimensione sovrumana: la formula oscura ed enigmatica serviva proprio per suscitare negli ascoltatori ricerca e desiderio di approfondimento. Secondo la teologia giovannea, inoltre, la gloria consiste nella manifestazione della presenza potente e operante di Dio: il Figlio viene glorificato nel momento in cui il Padre rivela la grandezza del suo amore, che è strettamente congiunto al dono della vita.
A tale rivelazione allude l’immagine parabolica del seme (Gv 12,24). Mancano in Giovanni le parabole sinottiche della crescita; ma è significativamente presente questo indizio del modo consueto di parlare proprio di Gesù. Con una intenzionale sfumatura allegorica il quarto evangelista identifica il chicco di grano con Gesù stesso e presenta l’efficacia della sua missione attraverso la dinamica del seme. Propriamente il seme non muore, quando è messo nel terreno; anzi è proprio in quel modo che prende vita e si moltiplica. Forzando l’immagine dunque, Giovanni parla di morte del seme, perché pensa alla morte di Gesù: eppure – dice – è avvenuto per lui proprio come per il chicco di grano.
Lo stesso principio regola anche la vita dei discepoli (Gv12,25): con una propria rielaborazione il quarto vangelo ripropone un lóghion sinottico ben attestato (cfr. Mt 16,25 // Mc 8,35// Lc 9,24), con cui il Maestro insegna che il modo per conservare la propria esistenza (il greco adopera il termine psychḗ =‘anima’) è odiarla e non amarla. Giovanni contrappone «questo mondo» alla «vita eterna», nel senso che distingue nettamente questa struttura corrotta del sistema terrestre e la vita pienamente realizzata grazie all’intervento divino. Accettare di morire a «questo mondo» costituisce la strada per ottenere la «vita eterna»: questo significa «servire Gesù» (Gv 12,26), perché comporta una concreta imitazione del suo stile esistenziale. Un tale servitore sarà insieme a Gesù, onorato da Dio Padre come il Figlio stesso.
Lì per lì restiamo un po’ sconcertati e ci domandiamo: che cosa c’entra questo discorso con la richiesta dei Greci? Di fatto Gesù non va incontro a quegli stranieri e non si fa conoscere da loro; sembra ignorare il loro desiderio. Perché? Che cosa ha voluto dire con la sua risposta? Ha voluto dire che l’apertura universale e l’incontro con ogni uomo sarà possibile al Cristo dopo l’evento della sua glorificazione, cioè dopo la sua morte e risurrezione. È questa l’Ora a cui tende tutta la vita di Gesù: questo è il compimento della sua missione. Solo con la morte egli può portare frutto: il frutto sarà la fede di tutte le genti e la loro comunione con Dio. Nel momento della gloria (cioè la sua morte e risurrezione) il Cristo entra nella potenza di Dio e può entrare nella vita di ogni uomo per trasformarlo dal di dentro. Chi è disposto ad accoglierlo, a seguirlo e a servirlo potrà incontrare Dio, anzi sarà accolto e onorato dal Padre che attende questo incontro dall’eternità.
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