Per una pausa spirituale durante la IVª Settimana di Quaresima
L’episodio di Nicodemo (Giovanni 3,1-21) occupa un ruolo significativo nel quarto vangelo. Si inserisce nella prima sezione, da Cana a Cana, che intende mostrare come l’opera di Gesù, con la novità della propria persona, porti a compimento le istituzioni giudaiche. Dopo il tema dell’alleanza e del tempio, nel dialogo con Nicodemo si parla di una nuova nascita nello Spirito, insegnando che la grazia realizza la legge. Il vangelo della quarta domenica di quaresima però sceglie solo il finale del brano giovanneo (Gv 3,14-21), quando al dialogo segue il monologo. A partire dal v. 13 cambia infatti il tono e Gesù si rivela come il Messia innalzato. Non è assolutamente sufficiente considerarlo maestro, come ha fatto rispettosamente il vecchio fariseo: è necessario credere in lui come il Figlio unigenito innalzato. Non basta infatti una osservanza formale, bisogna cambiare il cuore e ciò avviene grazie all’intervento di Dio creatore. Questo è il grande annuncio evangelico: l’opera di Gesù non consiste in nuove regole o nella riforma di una struttura religiosa, ma comporta la trasformazione del cuore, che è un evento personale capace di toccare in profondità l’essere di ciascuno. Solo rinascendo, cioè lasciandosi guidare dallo Spirito, si può accogliere il Cristo come la pienezza della propria esistenza.
BISOGNA CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO. L’unico modo per rinascere è partecipare alla morte di Cristo. Prima ha parlato di nascita, adesso Gesù parla di morte, della propria morte che diviene però causa della nascita nuova per chi crede. Quella è la trasformazione che permette la vita. L’unico che può salire al cielo è colui che è sceso per comunicare agli altri la vita eterna. «Bisogna» (in greco: dêi) indica una necessità divina: questo è il progetto di Dio e certamente si compirà.
L’immagine del serpente innalzato nel deserto da Mosè fa riferimento a un noto episodio narrato nel libro dei Numeri (21,8-9) e ambientato durante il cammino di Israele nel deserto. Il popolo, aggredito da serpenti velenosi, moriva; come rimedio il Signore propose a Mosè di costruire un serpente di bronzo che, messo in cima ad un bastone, attirasse gli sguardi e così permettesse la guarigione. Si tratta di un particolare narrativo arcaico e strano. Il serpente innalzato nel deserto è un segno di capovolgimento della situazione: guardando la causa della rovina, quel veleno non fa più morire; proprio di là da dove veniva la morte, può venire la vita; ciò che faceva morire ora invece fa vivere. Gesù interpreta tale immagine e la applica a sé: «Così bisogna che avvenga anche a me!».
L’espressione «Figlio dell’uomo» è tecnica e proviene dal linguaggio apocalittico di Daniele (cfr. Dn 7,13-14): contrariamente a quel che potrebbe sembrare, significa un «personaggio divino», un «essere celeste». Risulta evidente da tutta la tradizione evangelica che tale terminologia fu tipica del Gesù storico, il quale se ne servì per qualificare la propria persona come essere celeste e trascendente, che viene da altrove. Gesù non si presenta mai come il Messia, bensì con la formula «Figlio dell’uomo»; adoperandola secondo un procedimento giudaico per dire «il sottoscritto», egli allude al mistero della propria persona, invitando gli ascoltatori a ricercarne in profondità il significato. Inoltre il verbo innalzare o esaltare (in greco: hypsóō) è ambiguo, avendo un doppio significato: intenzionalmente Giovanni gioca sul doppio senso. Una persona viene innalzata se riceve onore, fa carriera, sale al trono: perciò «innalzare il Figlio dell’uomo» vuol dire intronizzarlo, farlo diventare re. Ma, capovolgendo l’immagine, innalzare vuole anche dire appendere al palo, ammazzare sulla croce. Quale dei due è il significato giusto? Nella prospettiva giovannea entrambi sono corretti e devono essere integrati, non contrapposti. Gesù annuncia che il proprio destino sarà la croce, la quale però diventerà il suo trono, dal momento che il Cristo regnerà dalla croce. L’innalzamento sulla croce coincide con l’esaltazione celeste: nel momento della morte comincerà la salita che arriverà nel più alto dei cieli, raggiungendo la meta e realizzando il fine della propria missione. Il fine è comunicare la «vita eterna».
Quando diciamo vita eterna, rischiamo di pensare solo all’altro mondo, all’esistenza nell’al di là. Invece i teologi cristiani hanno adoperato questa formula per designare la vita piena e divina, la vita nella massima realizzazione delle sue potenzialità; indica inoltre una realtà attuale fin da ora, grazie all’opera di Dio che ha creato una buona relazione con sé. Proviamo a sostituire eterno con altri aggettivi che esprimono bellezza, pienezza, bontà: l’obiettivo di Dio è che gli uomini vivano una vita piena, bella, realizzata, completa e soddisfacente. Questo può ottenerlo chiunque crede in Gesù; solo chi si fida di lui e si affida a lui, può rinascere e quindi salire con lui.
L’episodio di Nicodemo (Giovanni 3,1-21) occupa un ruolo significativo nel quarto vangelo. Si inserisce nella prima sezione, da Cana a Cana, che intende mostrare come l’opera di Gesù, con la novità della propria persona, porti a compimento le istituzioni giudaiche. Dopo il tema dell’alleanza e del tempio, nel dialogo con Nicodemo si parla di una nuova nascita nello Spirito, insegnando che la grazia realizza la legge. Il vangelo della quarta domenica di quaresima però sceglie solo il finale del brano giovanneo (Gv 3,14-21), quando al dialogo segue il monologo. A partire dal v. 13 cambia infatti il tono e Gesù si rivela come il Messia innalzato. Non è assolutamente sufficiente considerarlo maestro, come ha fatto rispettosamente il vecchio fariseo: è necessario credere in lui come il Figlio unigenito innalzato. Non basta infatti una osservanza formale, bisogna cambiare il cuore e ciò avviene grazie all’intervento di Dio creatore. Questo è il grande annuncio evangelico: l’opera di Gesù non consiste in nuove regole o nella riforma di una struttura religiosa, ma comporta la trasformazione del cuore, che è un evento personale capace di toccare in profondità l’essere di ciascuno. Solo rinascendo, cioè lasciandosi guidare dallo Spirito, si può accogliere il Cristo come la pienezza della propria esistenza.
BISOGNA CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO. L’unico modo per rinascere è partecipare alla morte di Cristo. Prima ha parlato di nascita, adesso Gesù parla di morte, della propria morte che diviene però causa della nascita nuova per chi crede. Quella è la trasformazione che permette la vita. L’unico che può salire al cielo è colui che è sceso per comunicare agli altri la vita eterna. «Bisogna» (in greco: dêi) indica una necessità divina: questo è il progetto di Dio e certamente si compirà.
L’immagine del serpente innalzato nel deserto da Mosè fa riferimento a un noto episodio narrato nel libro dei Numeri (21,8-9) e ambientato durante il cammino di Israele nel deserto. Il popolo, aggredito da serpenti velenosi, moriva; come rimedio il Signore propose a Mosè di costruire un serpente di bronzo che, messo in cima ad un bastone, attirasse gli sguardi e così permettesse la guarigione. Si tratta di un particolare narrativo arcaico e strano. Il serpente innalzato nel deserto è un segno di capovolgimento della situazione: guardando la causa della rovina, quel veleno non fa più morire; proprio di là da dove veniva la morte, può venire la vita; ciò che faceva morire ora invece fa vivere. Gesù interpreta tale immagine e la applica a sé: «Così bisogna che avvenga anche a me!».
L’espressione «Figlio dell’uomo» è tecnica e proviene dal linguaggio apocalittico di Daniele (cfr. Dn 7,13-14): contrariamente a quel che potrebbe sembrare, significa un «personaggio divino», un «essere celeste». Risulta evidente da tutta la tradizione evangelica che tale terminologia fu tipica del Gesù storico, il quale se ne servì per qualificare la propria persona come essere celeste e trascendente, che viene da altrove. Gesù non si presenta mai come il Messia, bensì con la formula «Figlio dell’uomo»; adoperandola secondo un procedimento giudaico per dire «il sottoscritto», egli allude al mistero della propria persona, invitando gli ascoltatori a ricercarne in profondità il significato. Inoltre il verbo innalzare o esaltare (in greco: hypsóō) è ambiguo, avendo un doppio significato: intenzionalmente Giovanni gioca sul doppio senso. Una persona viene innalzata se riceve onore, fa carriera, sale al trono: perciò «innalzare il Figlio dell’uomo» vuol dire intronizzarlo, farlo diventare re. Ma, capovolgendo l’immagine, innalzare vuole anche dire appendere al palo, ammazzare sulla croce. Quale dei due è il significato giusto? Nella prospettiva giovannea entrambi sono corretti e devono essere integrati, non contrapposti. Gesù annuncia che il proprio destino sarà la croce, la quale però diventerà il suo trono, dal momento che il Cristo regnerà dalla croce. L’innalzamento sulla croce coincide con l’esaltazione celeste: nel momento della morte comincerà la salita che arriverà nel più alto dei cieli, raggiungendo la meta e realizzando il fine della propria missione. Il fine è comunicare la «vita eterna».
Quando diciamo vita eterna, rischiamo di pensare solo all’altro mondo, all’esistenza nell’al di là. Invece i teologi cristiani hanno adoperato questa formula per designare la vita piena e divina, la vita nella massima realizzazione delle sue potenzialità; indica inoltre una realtà attuale fin da ora, grazie all’opera di Dio che ha creato una buona relazione con sé. Proviamo a sostituire eterno con altri aggettivi che esprimono bellezza, pienezza, bontà: l’obiettivo di Dio è che gli uomini vivano una vita piena, bella, realizzata, completa e soddisfacente. Questo può ottenerlo chiunque crede in Gesù; solo chi si fida di lui e si affida a lui, può rinascere e quindi salire con lui.
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