venerdì 9 marzo 2012

341 - “QUESTI È IL FIGLIO MIO, L’AMATO!”

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Quaresima

Dal Vangelo di Marco: “In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. (9,2-10)
Il racconto della Trasfigurazione appartiene alla più antica tradizione sinottica, essendo attestata in tutti e tre gli evangelisti, e documenta una formulazione da parte della prima comunità cristiana con un evidente intento kerygmatico: nel narrare la trasfigurazione di Gesù infatti il gruppo apostolico ha inteso esprimere un significativo collegamento con la risurrezione del Cristo Signore. Tutte le redazioni sottolineano in particolare accordo la straordinaria e nuova condizione della veste di Gesù, usando in comune sempre l’aggettivo ‘bianco’, tanto più significativo in quanto raro nel vocabolario dei Sinottici.
Marco, che riporta un racconto essenziale, conforme allo schema primitivo, si permette solo un piccolo ritocco, secondo il suo gusto narrativo, insistendo sul colore delle vesti: «Le sue vesti divennero splendenti (stílbonta), bianchissime (leukàlían): nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Rafforza l’aggettivo per farne un superlativo, vi premette inoltre un participio, per sottolineare lo splendore, e infine aggiunge un’espressione popolare sull’incapacità di un lavandaio terreno di ottenere un risultato simile. La frase di tono familiare contiene tuttavia importanti rilievi teologici: proprio l’operazione di rendere bianco è presentata come impossibile a un agente umano, a uno cioè che si trovi sulla terra; è evidente quindi l’intenzione di spiegare, per contrasto, il bianco delle vesti come un fatto sovrumano e attribuibile solo a un agente divino.
Una simile insistenza lascia intendere che il particolare era considerato importante: inserito nella tradizione biblica e giudaica questo elemento simbolico serve anzi tutto per presentare un’identità sovrumana di Gesù, per indicare la dignità divina della sua persona e per evocare la sua ‘gloria’; inoltre svolge la funzione narrativa e teologica di mostrare proletticamente l’obiettivo a cui tende la via della croce, anticipando l’annuncio della risurrezione di Cristo.
Pur essendo kerygmatico e teologico, questo racconto contiene comunque il riferimento a un fatto storico che segnò l’itinerario dei discepoli al seguito di Gesù. Si tratta di un’esperienza mistica e, quindi ‘indicibile’, che tre dei discepoli vissero insieme a Gesù, mentre condividevano con lui un momento di preghiera in profonda solitudine. Quell’esperienza lasciò un segno nella memoria dei discepoli, incoraggiò la loro sequela, ma divenne pienamente chiara solo dopo la risurrezione del Maestro. Nella luce del Cristo risorto infatti la comunità apostolica diede forma narrativa a quella esperienza, proponendola come chiave di volta di tutta la vicenda.
Al centro della narrazione evangelica questo episodio svolge un ruolo molto importante come catechesi cristologica: si tratta infatti di un testo composto sul modello degli oracoli di investitura e con ripetuti richiami alla tradizione dell’Esodo che presentava Mosè durante l’incontro con Dio nella nube luminosa.
L’alto monte richiama immediatamente il Sinai e quel fondamentale episodio della storia d’Israele: anche Gesù sale sul monte, ma non come nuovo Mosè, per svolgere la funzione che l’antico legislatore aveva svolto per l’antico popolo; egli non sale sul monte per incontrare Dio, ma per rivelarsi come Dio; non va a ricevere la legge da Dio, ma sale perché i suoi discepoli abbiano la divina conferma della sua qualità messianica. Ciò che egli riceve sul monte è l’investitura ufficiale, l’attribuzione solenne del compito di Messia e la rivelazione, superiore alle attese, della divina figliolanza.
Le Scritture divine, rappresentate da Mosè ed Elia, confermano che la scelta di Gesù è secondo il progetto di Dio: l’Antico Testamento rende testimonianza al Cristo. Così nella nube e nell’ombra i discepoli increduli, come eredi di Mosè e di Elia, vedono la gloria di Dio che brilla sul volto umano di Gesù e capiscono che lui ha ragione. La sua strada è quella giusta!
Sul monte dunque si ripete sostanzialmente la scena del battesimo in cui la voce dal cielo aveva rivelato: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Ma allora la rivelazione era rivolta a Gesù stesso, e a Giovanni Battista al massimo, perché egli non aveva ancora iniziato il suo ministero né chiamato i discepoli a seguirlo; ora invece la voce dal cielo diventa la divina testimonianza per i discepoli nel momento decisivo della scelta e dell’accettazione di un Messia che va a morire. Infatti in questo caso la rivelazione aggiunge un imperativo, che al momento del battesimo mancava: «Ascoltatelo!». Chi devono ascoltare? Colui che ha appena detto: Io devo soffrire molto e chi mi vuol seguire deve rinunciare a se stesso e ai propri piani. Il monte diventa così per i discepoli ciò che è stato il deserto per Gesù: l’occasione della scelta. La scelta dei discepoli è questa: fidarsi di Dio e seguire Gesù per la ‘sua’ strada.
La voce del Padre e la grazia dello Spirito Santo avvolgono i discepoli e li aiutano a credere: i tre uomini sono misteriosamente introdotti nell’affascinante relazione delle Tre persone divine e scoprono quanto sia bello «essere con il Signore». Così, al momento della svolta decisiva per la vita e la missione del Cristo, la trasfigurazione ha il compito di anticipare l’esito finale della risurrezione, per garantire in partenza la fondatezza della pretesa di Gesù e della sua generosa disponibilità al sacrificio.
La Gloria luminosa che appare sul monte è la garanzia della presenza e dell’approvazione di Dio, ma alla fine resta Gesù solo, nella sua forma umana e quotidiana; e i suoi discepoli devono scegliere. Il bello non sta nel rimanere sul monte e fuggire dal mondo, ma nel vivere la propria vita e l’inserimento nella storia con lo stesso stile scelto da Dio.

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