sabato 11 febbraio 2012

333 - DIO DELLA COMPASSIONE - 12 Febbraio 2012 – VIª Domenica ordinaria

(Levitico 13,1-2.45-46 1ª Corinti 10,31-11,1 Marco 1,40-45)

Un nuovo racconto di guarigione: il lebbroso viene guarito da Gesù «mosso a compassione». In questo episodio Gesù rivela un aspetto profondo del volto di Dio: Dio è mosso a compassione per tutte le nostre forme di ‘lebbra’. Allo stesso tempo il racconto evangelico di guarigione è un invito a chi vuol seguire Gesù: anche il cristiano è chiamato ad essere liberatore nella sua storia.
La malattia è sempre qualcosa di cui non riusciamo a comprendere pienamente il senso, è una limitazione che crea insofferenza, che porta spontaneamente più alla ribellione e alla bestemmia che alla serena accettazione. Perché Dio, che può tutto, fa soffrire? L’atteggiamento di Dio nei confronti della malattia è però di un uguale rifiuto. Dio non ama la malattia; Gesù infatti ha compassione per tutti gli ammalati. La malattia non è un bene per l’uomo, è un momento di prova, di sofferenza. Lottare con tutte le forze contro la malattia è quindi non solo un atteggiamento legittimo, ma significa mettersi dalla parte di Dio. Gesù ha guarito gli ammalati che lo hanno accostato; oggi tocca all’uomo continuare l’opera di Gesù, compiere altri ‘miracoli’ servendosi dei mezzi che la scienza mette a sua disposizione.
I miracoli hanno la funzione di accreditare la persona e l’opera di Gesù. Il rabbì di Nazaret compie miracoli per dire che Dio è all’opera, ora, in forma nuova e definitiva. Le profezie dell’Antico Testamento annunciavano infatti le guarigioni di malati come segno dell’arrivo del tempo messianico. Il miracolo, per il suo carattere di evento straordinario, suscita sempre stupore. Si tratta però di uno stupore che non è fine a se stesso. Il miracolo è come una freccia scoccata dall’arco che orienta lo sguardo sul bersaglio, è come un dito puntato che attira l’attenzione non su se stesso, ma sulla cosa indicata. I miracoli di Gesù raggiungono il loro scopo se diventano dei «segni», infatti, dinanzi ad essi la gente si interroga (Mc 1,27; 4,41; 6,14-16...). Possiamo dire che il miracolo si sviluppa su due livelli: il primo riguarda il fatto da tutti percepibile, il secondo riguarda il significato del fatto, colto solo da coloro che vedono nel miracolo un segno. Proprio il carattere di ‘segno’ diventa l’elemento distintivo del miracolo evangelico. Se il miracolo non rimanda alla persona di Gesù, rimane vuoto e inefficace. Quante persone in Palestina furono testimoni dei miracoli compiuti da Gesù eppure non si convertirono!
Marco presenta Gesù che annuncia la vicinanza del regno di Dio (1,15), ma finora Dio non è stato mai nominato da Gesù, egli si è invece occupato degli uomini e dei loro problemi. C’è qui un insegnamento importante per i discepoli di ogni tempo: Dio è il Dio della compassione e lo serviamo solo quando ci prendiamo cura dell’uomo e della sua liberazione dal male fisico, sociale e morale.
PREGHIERA - Al tuo tempo, Signore Gesù, la lebbra non era una malattia qualsiasi. Distruggeva un essere umano, deturpando le sue membra, fino a far loro perdere
l’aspetto di un tempo. Per questo faceva nascere la paura folle del contagio, che allontanava i malati dalla loro famiglia e dal paese, condannandoli ad un’esistenza raminga e solitaria.
Così la lebbra intaccava, Gesù, le fibre profonde dell’anima, fino a far perdere la voglia di lottare, gettando nello sconforto chi si sentiva abbandonato, cacciato e rigettato dalla comunità civile e religiosa.
Per questo, Gesù, quel giorno, guarendo il lebbroso tu l’hai restituito in un colpo solo
alla salute perduta, ai suoi affetti e al suo lavoro, al calore di una famiglia, alla vita del villaggio.
Lo hai fatto rinascere alla speranza di una vita nuova, lo hai sottratto all’incubo di una sofferenza senza via d’uscita. Tutto questo ha operato la tua bontà, la tua compassione.

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