Per una pausa spirituale durante la VIª Settimana del Tempo ordinario
L’esperienza del soffrire, in tutte le sue manifestazioni, fa emergere spontaneamente nella persona un’invocazione di aiuto. Il meccanismo della regressione porta facilmente l’individuo ad assumere atteggiamenti infantili, caratterizzati dall’attesa di interventi miracolistici da parte dei genitori o di altre persone significative. Non è raro che quanti si trovano a vivere situazioni negative reagiscano in questo modo nei confronti non solo di coloro che posseggono competenze scientifiche e tecniche, ma
anche del Signore. In questi casi, spesso il sentimento dell’impotenza spinge la persona ad attendere o addirittura a pretendere il miracolo; se questo non avviene, può accadere che essa perda la sua fiducia in Dio, mettendo così in evidenza l’immaturità della propria fede. È quanto è possibile constatare in alcune celebrazioni cosiddette di guarigione, in cui l’attenzione di frange di partecipanti si concentra più sull’attesa di eventi miracolosi che sul cambiamento del cuore operato dall’intervento del Cristo, divino samaritano delle anime e dei corpi.
I vangeli registrano numerosi incontri di Gesù con persone bisognose di aiuto, come il lebbroso di cui ci parla la liturgia della Parola di questa domenica. In nessuno di essi egli ha rimproverato i malati per le loro richieste di un miracolo. Al contrario, ripetutamente il Cristo ha esortato a chiedere al Padre grazie e favori con insistenza, fino a stancarlo. Nel suo modo di comportarsi, però, egli manifesta una metodologia pedagogica significativa. Accogliendo le persone là dove esse si trovano in termini sia psicologici che spirituali, le aiuta a rendersi conto che il miracolo della guarigione psico-fisica è una freccia che indica un obiettivo più elevato, la salvezza. Seguendo questo percorso, Gesù fa leva su quel bisogno di auto-superamento che è presente in ogni essere umano, anche se non sempre avvertito oppure avvertito in maniera diversa, aprendo la persona al mistero, «ad una comprensione più profonda di sé e delle cose, a lasciarsi inquietare da un annuncio che supera l’orizzonte abituale, ma che da esso trae sollecitazione, a cogliere nelle esperienze difficili del quotidiano, il rimando ad una ricerca, ad una Presenza».
In questo senso, si può affermare che il Signore risponde sempre con un miracolo a chi, mosso dalla fede, gli chiede di essere aiutato a passare attraverso le vicende dolorose della vita. Solo raramente, però, il miracolo si realizza secondo le attese immediate della persona, ma ubbidisce ad una logica divina che mira al suo vero bene.
Per inserirsi in tale logica occorre prendere coscienza che le proprie sofferenze sono strettamente connesse con la sofferenza dello stesso Dio e mantenere viva tale connessione. In altre parole, ciò che gli uomini soffrono, leggero o grave che sia, è un’esperienza che, lungi dal rimanere isolata, si relaziona con la sofferenza stessa di Dio. Gesù sana i nostri dolori togliendoli dal nostro ambito egocentrico, individualista e privato e connettendoli con il dolore di tutta l’umanità, da lui assunto. In questo senso curare non significa, quindi, innanzitutto eliminare i dolori, bensì rivelare che i nostri dolori sono compresi in una sofferenza maggiore, che la nostra esperienza costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
Quanto sia impegnativo tale cammino è ben espresso in un noto episodio della Genesi (32, 23-32). Di ritorno in Palestina, dopo una lunga assenza, Giacobbe attraversa il torrente Yaboc, un affluente del fiume Giordano. Fatta avanzare la carovana, egli rimane solo alla riva del torrente. Verso la fine della notte, egli intraprende la lotta con un misterioso personaggio. Quest’ultimo, non potendo vincerlo, colpisce Giacobbe al nervo sciatico, lasciandolo zoppo. Il misterioso personaggio, quando la notte sta per finire, chiede a Giacobbe di lasciarlo andare, ma egli non acconsente se prima non riceve la sua benedizione. Il simbolismo più evocativo di questo episodio è quello della lotta del popolo di Israele con il mistero di Dio, specialmente con il suo procedere nei confronti della sofferenza umana. Perché il dolore? Come conciliarlo con l’onnipotenza e la bontà del Signore? Questa lotta avviene nella piena notte del mistero e dura quanto dura la notte. Il dolore è messo in relazione con l’oscurità della notte, non considerata come valore negativo, bensì come mistero, del quale solo Dio conosce la risposta. La notte è il momento in cui Dio condensa in sommo grado la sua azione misteriosa. Però ogni notte ha la sua alba…
L’azione redentrice di Cristo ha reso maggiormente accessibile il miracolo della luce che illumina l’oscurità della sofferenza, aprendo alla speranza. Miracolo che la mediazione di atteggiamenti ricchi di umanità rende più facilmente percepibile e sperimentabile.
L’esperienza del soffrire, in tutte le sue manifestazioni, fa emergere spontaneamente nella persona un’invocazione di aiuto. Il meccanismo della regressione porta facilmente l’individuo ad assumere atteggiamenti infantili, caratterizzati dall’attesa di interventi miracolistici da parte dei genitori o di altre persone significative. Non è raro che quanti si trovano a vivere situazioni negative reagiscano in questo modo nei confronti non solo di coloro che posseggono competenze scientifiche e tecniche, ma
anche del Signore. In questi casi, spesso il sentimento dell’impotenza spinge la persona ad attendere o addirittura a pretendere il miracolo; se questo non avviene, può accadere che essa perda la sua fiducia in Dio, mettendo così in evidenza l’immaturità della propria fede. È quanto è possibile constatare in alcune celebrazioni cosiddette di guarigione, in cui l’attenzione di frange di partecipanti si concentra più sull’attesa di eventi miracolosi che sul cambiamento del cuore operato dall’intervento del Cristo, divino samaritano delle anime e dei corpi.
I vangeli registrano numerosi incontri di Gesù con persone bisognose di aiuto, come il lebbroso di cui ci parla la liturgia della Parola di questa domenica. In nessuno di essi egli ha rimproverato i malati per le loro richieste di un miracolo. Al contrario, ripetutamente il Cristo ha esortato a chiedere al Padre grazie e favori con insistenza, fino a stancarlo. Nel suo modo di comportarsi, però, egli manifesta una metodologia pedagogica significativa. Accogliendo le persone là dove esse si trovano in termini sia psicologici che spirituali, le aiuta a rendersi conto che il miracolo della guarigione psico-fisica è una freccia che indica un obiettivo più elevato, la salvezza. Seguendo questo percorso, Gesù fa leva su quel bisogno di auto-superamento che è presente in ogni essere umano, anche se non sempre avvertito oppure avvertito in maniera diversa, aprendo la persona al mistero, «ad una comprensione più profonda di sé e delle cose, a lasciarsi inquietare da un annuncio che supera l’orizzonte abituale, ma che da esso trae sollecitazione, a cogliere nelle esperienze difficili del quotidiano, il rimando ad una ricerca, ad una Presenza».
In questo senso, si può affermare che il Signore risponde sempre con un miracolo a chi, mosso dalla fede, gli chiede di essere aiutato a passare attraverso le vicende dolorose della vita. Solo raramente, però, il miracolo si realizza secondo le attese immediate della persona, ma ubbidisce ad una logica divina che mira al suo vero bene.
Per inserirsi in tale logica occorre prendere coscienza che le proprie sofferenze sono strettamente connesse con la sofferenza dello stesso Dio e mantenere viva tale connessione. In altre parole, ciò che gli uomini soffrono, leggero o grave che sia, è un’esperienza che, lungi dal rimanere isolata, si relaziona con la sofferenza stessa di Dio. Gesù sana i nostri dolori togliendoli dal nostro ambito egocentrico, individualista e privato e connettendoli con il dolore di tutta l’umanità, da lui assunto. In questo senso curare non significa, quindi, innanzitutto eliminare i dolori, bensì rivelare che i nostri dolori sono compresi in una sofferenza maggiore, che la nostra esperienza costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
Quanto sia impegnativo tale cammino è ben espresso in un noto episodio della Genesi (32, 23-32). Di ritorno in Palestina, dopo una lunga assenza, Giacobbe attraversa il torrente Yaboc, un affluente del fiume Giordano. Fatta avanzare la carovana, egli rimane solo alla riva del torrente. Verso la fine della notte, egli intraprende la lotta con un misterioso personaggio. Quest’ultimo, non potendo vincerlo, colpisce Giacobbe al nervo sciatico, lasciandolo zoppo. Il misterioso personaggio, quando la notte sta per finire, chiede a Giacobbe di lasciarlo andare, ma egli non acconsente se prima non riceve la sua benedizione. Il simbolismo più evocativo di questo episodio è quello della lotta del popolo di Israele con il mistero di Dio, specialmente con il suo procedere nei confronti della sofferenza umana. Perché il dolore? Come conciliarlo con l’onnipotenza e la bontà del Signore? Questa lotta avviene nella piena notte del mistero e dura quanto dura la notte. Il dolore è messo in relazione con l’oscurità della notte, non considerata come valore negativo, bensì come mistero, del quale solo Dio conosce la risposta. La notte è il momento in cui Dio condensa in sommo grado la sua azione misteriosa. Però ogni notte ha la sua alba…
L’azione redentrice di Cristo ha reso maggiormente accessibile il miracolo della luce che illumina l’oscurità della sofferenza, aprendo alla speranza. Miracolo che la mediazione di atteggiamenti ricchi di umanità rende più facilmente percepibile e sperimentabile.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.