venerdì 24 febbraio 2012

337 - CHE COSA HO FATTO DI MALE?

Per una pausa spirituale durante la VIIª Settimana del Tempo ordinario

LA DOMANDA - Questo interrogativo erompe come un grido quando la persona si scopre, inaspettatamente, ferita da una grave malattia che compromette il suo futuro, o si trova lacerata negli affetti più preziosi. Il faccia a faccia con la morte è la causa più frequente che lo provoca. Tale espressione contiene una domanda su Dio. È a lui che viene rivolta. Di fronte alla voglia di vivere e alla ricerca di essere felici, sembra che egli si ponga come intralcio, e sia implicato in un evento crudele.
«Che male ho fatto per meritarmi questa punizione?». Dio è visto come l’autore di ogni evento, anche di quello funesto. È entrata nel pensiero collettivo l’idea non biblica del «non si muove foglia che Dio non voglia». Quindi anche la disgrazia deriverebbe da lui. Chissà come mai, dopo anni di annuncio del Vangelo è ancora resistente la convinzione che Dio punisca le trasgressioni morali con la sofferenza. Purtroppo dobbiamo ammettere che anche alcuni interventi di gruppi cristiani e, a volte, addirittura di responsabili di comunità ecclesiali, hanno generato e generano questo orientamento. Di fronte al drammatico disastro dello tsunami in Thailandia, nel dicembre del 2004, qualche voce di intonazione cristiana non si è forse levata a dire che Dio sarebbe intervenuto proprio per sanzionare le trasgressioni sessuali avvenute in quel luogo? Altri luoghi e popoli non sarebbero allora ugualmente punibili? L’idea di un «Dio che castiga» è dunque ancora molto diffusa e radicata. Essa, però, annulla la rivelazione biblica del «Dio amore». Se Dio è amore, come può far del male alle persone? Se Dio è Padre, come può inviare sofferenze ai suoi figli? Nel Vangelo si afferma francamente che «Dio ha mandato il suo figlio non per condannare o punire, ma per salvare e liberare».
BISOGNA SLEGARE IL DOLORE DA DIO - Il dolore non proviene da Dio. Dio non può che amare e non può che amare il bene, non può che volere la ‘gioia’ degli uomini. Quindi, di fronte al ‘dolore’ proprio o altrui non si dovrebbe più dire: «Dio ha voluto così». Equivarrebbe a porre in Dio la causa della sofferenza. Questo contrasta con il messaggio biblico che presenta Dio come liberatore dal male. Ma oltre che rifiutare la provenienza del dolore da Dio, è altrettanto importante non affidare a Dio neppure la risoluzione della sofferenza. Egli è sì il liberatore, ma libera richiamando l’uomo alla sua responsabilità nell’eliminare la sofferenza; Dio spinge l’uomo a superare una fede magica: quella che lo porterebbe ad abdicare alla sua intelligenza.
DIO NON PUNISCE - Se fosse vero che Dio punisce le colpe degli uomini con la malattia o con le disgrazie, si affaccerebbero due devastanti contraddizioni. La prima è insita nel dato di fatto che molte persone oneste soffrono mentre altre persone disoneste prosperano. Lo stesso Gesù, il ‘giusto’ per eccellenza, ha sperimentato una sofferenza che sembra sia stata risparmiata storicamente a tanti uomini mediocri. Allora dove va la giustizia divina? Occorre forse ricordare il passo della guarigione del cieco dalla nascita, nel Vangelo di Giovanni (cap. 9), in cui, di fronte al pregiudizio del male della cecità imputato ai peccati personali, se non addirittura a quelli della parentela, è ribadito fermamente: «Né lui ha peccato né i suoi genitori»? La seconda criticità sarebbe ancora più radicale: se Dio è così severo, è uno che alimenta il terrore e non può quindi conquistare il nostro cuore, ma soltanto condizionare la nostra psiche. Nasce la paura. E la paura non aiuta l’uomo ad avere una relazione con lui basata sulla fiducia e sull’amore. È per fugare questa paura, e soprattutto per l’impossibilità di accettare la presenza di un Dio insensibile al dolore umano, che molti sono arrivati a dire: «Dio non esiste». Il fatto è che il mistero del male e del dolore è così vasto che l’uomo non può comprenderlo. Dio ha delle vie che non sono le nostre vie. Abbandonarsi a lui, al suo sguardo lungimirante, è il modo per vivere la fede.
IL SILENZIO DI DIO - Se Dio non manda il dolore, perché, se è Padre, non interviene almeno a toglierlo? «Ma dimmi, quand’è che sei stato buono, buon Dio? Fosti buono quando lasciasti straziare dall’esplosione di una bomba il mio bambino di appena un anno? … Non l’hai sentito quando egli urlava, e quando esplodevano le bombe? O fosti buono quando caddero undici uomini della mia pattuglia?… Fosti buono a Stalingrado, fosti buono là, come?» (W. Borkert). Anche Simone Weil è quasi ossessionata dal problema di Dio e dalla presenza del dolore. «Mi sento dentro un disagio che si aggrava sempre di più, tanto nella mia intelligenza quanto al centro del mio cuore, dovuto alla mia incapacità di pensare allo stesso tempo all’infelicità degli uomini, alla perfezione di Dio e alla relazione tra queste due nozioni». Questo problema è, da secoli, drammaticamente tematizzato nel libro di Giobbe. Il problema di Giobbe non è tanto la sofferenza, ma la fede. Come poter credere e in quale Dio credere, nonostante l’assurdo della vita? Giobbe rompe con le concezioni teologiche e religiose del tempo e si avventura alla ricerca di un nuovo e diverso volto di Dio.
VIVERE L’ENIGMA - L’enigma fa parte della nostra vita. «Dateci degli enigmi per comprenderci»: sono parole rivolte da alcuni giovani ai loro professori. L’enigma non è una sventura, porta a riconoscere il proprio limite, ma soprattutto a non cessare mai di cercare, senza voler possedere. In questa linea possiamo leggere l’espressione di Lévinas: «Amare senza voler comprendere, amare prima di comprendere, amare senza concupiscenza». Comprendere vuol dire ‘prendere dentro’, pretendere di chiarire tutto, non accettando l’oscurità che c’è in noi e negli altri. Questo ‘mistero’ o ‘enigma’ emerge non solo perché la realtà non è traslucida, ma perché è imprevedibile. La persona, il mondo, Dio sono più di ciò che sappiamo. Anche Gesù ha provato il brivido dell’oscurità. Ha ‘gridato’ dalla croce (senza la compostezza di un Socrate) l’enigma dell’abbandono, ed è stata questa la parola più forte tra quelle che ha pronunciato.
La fuga dal dolore è fuga da se stessi, è fuga dalle provocazioni e dalle sollecitazioni che prorompono dal dolore. Accettare il dolore non è sottostare al non senso: è sperimentare la propria finitezza, ma anche il modo per camminare in avanti verso la pienezza del proprio essere. Qui si innesta il tema del coraggio: il coraggio di non sottrarsi al dolore, di non volerlo escludere dalla propria vita, sia quello inflitto dalla natura (sofferenza), sia quello sanzionato dal potere (la croce). Il dolore è una via di verità. Ti insegna il limite. «È la cifra di ciò che sta oltre il limite» (E. Peyretti). Gesù e Buddha hanno messo al centro della loro vita la croce. Per ‘croce’ si intende l’opposizione, il dissenso, la persecuzione che essi hanno dovuto affrontare. Ma essi non hanno rivolto altrove lo sguardo. Il loro coraggio li ha fatti nostri maestri. Certamente il dolore non è da cercare (ci si deve opporre ad una cultura vittimista), ma neppure da eludere, da tradire.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.