“Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza …” (Genesi 3, 6a).
Ciò che è proibito appare come una sintesi di valori sensoriali, estetici, intellettuali: che cosa si può volere di più? La tentazione rende l’oggetto proibito del desiderio ancora più attraente, irresistibile. Non è un caso che la caduta venga presentata con l’immagine del mangiare, di una sorta di banchetto che non darà sazietà, ma farà sperimentare dolorosissimamente la propria condizione di finitudine e di bisogno.
Il verbo ʹākal (mangiare), che ricorre insistentemente in questa narrazione, scandisce le fasi della storia del primo peccato dell’uomo. E’ un trionfo dell’intemperanza, è un portare tutto alla bocca, tutto assaggiare, tutto prendere. Il che è dimenticare che l’uomo deve avere anche la bocca vuota se vuol rispondere a Dio, se vuole che questa bocca gli sia riempita dalla parola di Dio (“ Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” Matteo 4,4). Sotto la figura dell’intemperanza, qui viene in realtà presentata una figura comprensiva del peccato stesso. Narrando la prima tentazione, la Bibbia espone, per così dire, il paradigma di tutte le tentazioni che seguiranno. Questo non è solo il primo peccato, ma è l’archetipo di quanto avverrà in tutti gli altri peccati e in un certo senso li contiene tutti. Questa voracità non potrà che alla fine essere identificata con l’idolatria.
“… prese del frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,6b-7).
La caduta vera e propria è narrata in modo estremamente conciso, mentre l’attenzione si sposta sulle conseguenze della disobbedienza, della trasgressione. Lo sguardo dell’uomo e della donna perde la sua innocenza, diventa una sorta di possesso dell’altro. Sembra quasi che i loro corpi siano diventati pesanti, ingombranti, non più soffusi di luce divina, ma fagocitati dalle ombre. Ecco allora irrompere l’esperienza della vergogna. L’uomo e la donna, dopo aver consumato il peccato, passato da una nudità vissuta senza vergogna ad una penosa nudità carica di disagio, di imbarazzo. L’astuzia ha generato solo un senso schiacciante della propria finitudine e di un limite avvertito come colpa. Vulnerabilità e consapevolezza si sovrappongono, segnalando una frattura profonda, entrata a scompaginare l’armonia delle relazioni originarie. Gli occhi aperti consegnano all’uomo e alla donna la visione di questa loro mutata condizione, che appare come insostenibile. Così l’uomo e la donna perdono la capacità di guardarsi in volto reciprocamente; essi si vergognano l’uno dell’altra e di se stessi. Sembrano essere resi incapaci di sostenere la visione vicendevole, tanto è vero che si coprono con cinture, con povere foglie di fico e tanto più diventeranno incapaci di reggere lo sguardo di Dio. Il peccato fa quindi sì che l’uomo perda la capacità di essere ospitale, di accogliere se stesso, l’altro, Dio.
Ciò che è proibito appare come una sintesi di valori sensoriali, estetici, intellettuali: che cosa si può volere di più? La tentazione rende l’oggetto proibito del desiderio ancora più attraente, irresistibile. Non è un caso che la caduta venga presentata con l’immagine del mangiare, di una sorta di banchetto che non darà sazietà, ma farà sperimentare dolorosissimamente la propria condizione di finitudine e di bisogno.
Il verbo ʹākal (mangiare), che ricorre insistentemente in questa narrazione, scandisce le fasi della storia del primo peccato dell’uomo. E’ un trionfo dell’intemperanza, è un portare tutto alla bocca, tutto assaggiare, tutto prendere. Il che è dimenticare che l’uomo deve avere anche la bocca vuota se vuol rispondere a Dio, se vuole che questa bocca gli sia riempita dalla parola di Dio (“ Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” Matteo 4,4). Sotto la figura dell’intemperanza, qui viene in realtà presentata una figura comprensiva del peccato stesso. Narrando la prima tentazione, la Bibbia espone, per così dire, il paradigma di tutte le tentazioni che seguiranno. Questo non è solo il primo peccato, ma è l’archetipo di quanto avverrà in tutti gli altri peccati e in un certo senso li contiene tutti. Questa voracità non potrà che alla fine essere identificata con l’idolatria.
“… prese del frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,6b-7).
La caduta vera e propria è narrata in modo estremamente conciso, mentre l’attenzione si sposta sulle conseguenze della disobbedienza, della trasgressione. Lo sguardo dell’uomo e della donna perde la sua innocenza, diventa una sorta di possesso dell’altro. Sembra quasi che i loro corpi siano diventati pesanti, ingombranti, non più soffusi di luce divina, ma fagocitati dalle ombre. Ecco allora irrompere l’esperienza della vergogna. L’uomo e la donna, dopo aver consumato il peccato, passato da una nudità vissuta senza vergogna ad una penosa nudità carica di disagio, di imbarazzo. L’astuzia ha generato solo un senso schiacciante della propria finitudine e di un limite avvertito come colpa. Vulnerabilità e consapevolezza si sovrappongono, segnalando una frattura profonda, entrata a scompaginare l’armonia delle relazioni originarie. Gli occhi aperti consegnano all’uomo e alla donna la visione di questa loro mutata condizione, che appare come insostenibile. Così l’uomo e la donna perdono la capacità di guardarsi in volto reciprocamente; essi si vergognano l’uno dell’altra e di se stessi. Sembrano essere resi incapaci di sostenere la visione vicendevole, tanto è vero che si coprono con cinture, con povere foglie di fico e tanto più diventeranno incapaci di reggere lo sguardo di Dio. Il peccato fa quindi sì che l’uomo perda la capacità di essere ospitale, di accogliere se stesso, l’altro, Dio.
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